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La piazza che non ti aspetti. I media ciechi

(16 Ottobre 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.radiocittaperta.it

La piazza che non ti aspetti. I media ciechi

foto: www.radiocittaperta.it

La reazione unidimensionale dei media dà la misura della sorpresa, o quanto meno dell'incapacità di ragionare freddamente sulla manifestazione di ieri a Roma.
E' chiarissimo che gli scontri sono stati innescati da "una minoranza" assoluta dei partecipanti; ma è chiaro anche che - con tutte le polemiche, anche molto aspre tra le parti organizzate del corteo e questa minoranza - i giovani più "incazzados" non sono mai stati "fuori" o alieni venuti da Marte.
Questa è la prima differenza che avrebbe dovuto impedire a tutti di parlare di black block. Ma il demone dell'omologazione si nasconde sempre nel linguaggio.
Nello schieramento politico mediatico, immediatamente, si è materializzata la contrapposizione tra una destra che aveva necessità di identificare la totalità del corteo come "violento" e una sinistra (non più il Pd, quasi totalmente allineato su una linea di destra aperta) che al contrario si "sentiva" costretta a una presa di distanza tanto netta quanto forzata. Usando però categorie tutte difensive, che non lasciano presagire molto di buono per il futuro.
Si va insomma dal "proto-terroristi a Roma" a "un'aggressione al corteo". La realtà, in questa contrapposizione retorica, scompare. Anzi, ci si impedisce di vederla.

*****

Andiamo perciò con ordine. "Il manifesto", insieme a Liberazione, è stato il giornale che più aveva promosso questa manifestazione, nonostante alcune scivolate "poliziottesche" che evidenziavano una divisione politica interna alla redazione molto radicale.

Anche sul giornale di oggi questa divisione esce fuori, ovviamente mediata tra commento, racconto, analisi dei diversi giornalisti.

Apriamo dunque con Valentino Parlato che prova a ragionare freddamente sull'accaduto e la soggettività sociale che rivela.

*****

Valentino Parlato
UNA NUOVA EPOCA


Quella di ieri a Roma è stata una manifestazione storica, il segno di un possibile cambiamento d'epoca. Una manifestazione enorme, rappresentativa di tutto il paese (camminando nel corteo e in piazza si sentivano gli accenti di tutte le regioni italiane). E ancora, una manifestazione che si realizzava in contemporanea con tante altre nel mondo, in Europa e anche negli Usa, tutte concentrate sul cambiamento del modello di sviluppo, a sancire la crisi del liberalcapitalismo. Per dire che così non si può andare avanti, che la politica di oggi è arrivata a un punto morto e che ci vuole un'inversione di rotta, anche dei partiti politici, oggi ridotti alla sopravvivenza di sé stessi.

A Roma ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state, ma nell'attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell'urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile.

La manifestazione e le pressioni che essa esprime chiedono un rinnovamento della politica. È una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quel che nel mondo è cambiato. La crisi attuale - più pesante, dicono in molti, di quella del 1929 - non può essere superata con i soliti strumenti. Negli Usa fu affrontata con il New Deal e in Italia e Germania, dove lo sbocco fu a destra, non con le privatizzazioni, ma con le nazionalizzazioni di banche e industrie. Ci ricordiamo dell'Iri, fondamentale nell'economia anche dopo la caduta del fascismo?
Quello che è accaduto ieri deve aprirci gli occhi e la mente. Non si può continuare a fare politica con le vecchie ricette. Ci dovranno essere cambiamenti anche nelle lotte sul lavoro e nel sindacato, e nella politica economica. Per concludere, vorrei ricordare che dopo il discorso di Sarteano anche un banchiere come Mario Draghi ha detto di capire le ragioni degli indignati. Forse siamo all'inizio di una nuova epoca.

Redazione. Il finale un po' speranzoso e ottimistico non cancella affatto lo scatto di intelligenza, dio “fiuto” politico, di un anziano ma vivace giornalista fuori dal coro. Coglie il legame tra crisi, politiche praticate, dinamiche sociali (intuite, anche se ancora non indagate), forme dell'opposizione politica e fine della politica così come si continua ad atteggiare oggi.

Ancora megio va con l'articolo successivo, chiaramente firmato con uno psedonimo, che approfondisce l'analisi guardando dietro il gesto per cogliere le dinamiche.

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Chi sono?/ I «RAGAZZI DEL 14 DICEMBRE» DI NUOVO PROTAGONISTI
Una generazione nata precaria, mentre scompare la mediazione
Se la governance «stile Bce» esautora la politica, si moltiplicano le figure sociali che non trovano più rappresentanza

Hammett
Aver poca memoria è un guaio. Un mondo politico affetto da questo male è gerontocrazia. Quello che è avvenuto ieri è un'estensione del 14 dicembre dell'anno scorso. Più in grande, più lontano dai «palazzi del potere», più intenso. Segnala che c'è un problema nel corpo sociale. Un problema che non trova rappresentanza, né a livello politico né sindacale. Ma esiste e non si può rimuovere con i fervorini giornalistici o, peggio, con le dichiarazioni nerborute del politico-che-rende-dichiarazione-alla-stampa.
Segnala che le soluzioni alla crisi stile «lettera Bce» - riducendo drasticamente la spesa pubblica - stanno annullando gli strumenti di «mediazione sociale». Per chi ha ancora un lavoro o una pensione, un riduzione di coperture o diritti è una sciagura in progress, cui cercare di resistere con le unghie e coi denti, magari intaccando i risparmi di una vita con lo sguardo ancora rivolto alla condizione precedente che si cerca - giustamente - di difendere. Per chi si affaccia ora «in società» e cerca di capire quale sia il suo posto, lo stesso taglio indica che per lui non c'è un grande futuro. O forse non c'è proprio.
Quando ieri, sopra le mappe geografiche dei Fori Imperiali, hanno tirato su lo striscione «di chi è la storia? è nostra», si potevano vedere centinaia di ragazzi che magari di storia ne masticano poca, ma non possono accettare di non farne parte. Di non avere ruolo, di essere «mercanzia»; per di più di poco prezzo.
E qualcuno lo capisce, sia sul piano empirico che su quello analitico (più complicato, ma più illuminante). Quando intervistammo i ragazzi del 14 dicembre questa «crisi della politica» ci venne sintetizzata in modo plastico: «Se - come potere - dico che 'a causa della crisi' non sono in grado di dare risposta ai bisogni sociali, è ovvio che 'la mediazione' non la posso trovare. Io politico sono esautorato dal processo economico».
Questa è la condizione della politica del prossimo futuro, quella stilizzata nella lettera di Draghi e Trichet, quella che espropria i singoli paesi della scelta più importante: quella sulla politica economica. Potranno legiferare sul testamento biologico o le intercettazioni, ma non su quale parte della popolazione strangolare e quale tutelare. È tutto qui il campo di applicazione della democrazia occidentale?
Discorso astratto? Il contrario. «Bisogna essere conseguenti con le cose che si dicono; si parla di sofferenza precarietà, rabbia... Ma qualsiasi governo verrà dopo, o mette in crisi il sistema di accumulazione e governance, o avrà le mani legate». Sono passati dieci mesi e in tutti questi giorni abbiamo potuto ascoltare politici di maggioranza e di opposizione esercitarsi sullo spartito: «ce lo chiede l'Europa», seguito da un «purtroppo» o un «per fortuna».
Questi ragazzi abitano le nostre periferie, forse qualcuno anche quartieri più «in». Si vedono tra loro più simili di quanto magari non càpiti ai rispettivi genitori. Arrivano nel centro della città come stranieri in territorio nemico, con coordinate persino approssimative. A dicembre un soldo di cacio con la faccia svelta mi fermò sul ponte per piazza del Popolo per chiedere «signore, qual'è la strada per palazzo Chigi?». E non pensava di entrarci come portaborse...
Dieci mesi fa hanno tenuto le strade del centro per quasi un'ora. Ieri si sono esibiti in diretta tv per oltre tre ore, fin quando le ombre della sera non li hanno portati lontano dalle telecamere. Ma sempre in corsa, contro «obiettivi simbolici» che non sposteranno di una virgola gli equilibri sociali e politici. O magari lo faranno in peggio. Però questa generazione «nata precaria» esiste, l'abbiamo creata «noi» a colpi di «pacchetto Treu» e «legge 30». Reagiscono alla «frammentazione sociale» in modo ruvido, magari «poco simpatico». Ma esiste ed esige risposta. Voltare le spalle e lasciare il problema alla polizia è la risposta peggiore.

Redazione. Qui “il problema” interno al blocco sociale antagonista viene tematizzato. Con un'avvertenza che vale per chiunque faccia politica o sindacato: non si può agire politicamente o socialmente sperando che “gli altri” non esistano. La realtà va compresa nel suo intero per poter pensare una strategia, delle tattiche, delle forme di conflitto.

*****

Gli idranti sulla folla pacifica, cariche e strane manovre a velocità folle dei blindati dei carabinieri Ma il corteo reagisce soprattutto contro gli «incappucciati». E prova a cacciarli via

L'apocalisse di San Giovanni
Roberto Ciccarelli - Eleonora Martini

ROMA

Eleonora Martini
ROMA
Piazza San Giovanni è un campo di battaglia, ed è nelle mani dei manifestanti. Alle sei del pomeriggio gli agenti di polizia, i carabinieri e la guardia di finanza sembrano nel pallone. Avanzano verso le fila più agguerrite dei rivoltosi, rispondono alla fitta sassaiola lanciando lacrimogeni ad altezza d'uomo e getti d'acqua con gli idranti, ma poi retrocedono velocemente, cambiano angolazione, si lasciano accerchiare. I caroselli delle camionette e dei furgoni lanciati a tutta velocità verso la folla hanno un raggio corto, piccole incursioni e poi di nuovo in ritirata. Giocano come al gatto col topo. Per ore. Solo dopo un'ora e mezza buona di guerriglia come non se ne vedeva da anni, parte la carica definitiva. Non si guardano più le spalle, serrano le fila, si dividono in plotoni, raggruppano i blindati, attaccano. E in pochi minuti disperdono i manifestanti che premevano da via Carlo Felice, annullano l'azione in fieri partita da via Appia, e riescono - malgrado una camionetta dei carabinieri incendiata sulla quale sono state ritrovate le scritte «Acab» e «Carlo Giuliani», e molte altre devastate - ad avere la meglio sulle centinaia di giovani e giovanissimi ribelli che dal primo pomeriggio e fino a sera hanno messo a ferro e fuoco la città. Perché non farlo subito? Ai cronisti, cui sfugge completamente il senso di una tale gestione delle forze di sicurezza in piazza, un ufficiale di polizia ammette: «Anche a noi, eravamo pronti ma ci sono stati ordini dall'alto».
Fonti della questura invece sostengono che la preoccupazione delle forze dell'ordine era salvaguardare il resto dei manifestanti e isolare i più agguerriti, cosa che di fatto poi è avvenuta. In qualche modo, però, accerchiati i «servi dello Stato» (l'epiteto più simpatico rivolto loro da chi per tutto il giorno ha usato slogan e nulla di più) lo erano davvero. Se da un lato l'intero corteo ha espresso tutta la sua rabbia contro chi era già pronto per la guerriglia - arrivando addirittura alle mani in più di un'occasione e quasi agli scontri, come è successo fin dalle quattro del pomeriggio all'incrocio tra via Labicana e via Merulana con lo scambio di insulti degenerato in lanci di pietre e bottiglie - altrettanto ferma era la contestazione riservata agli agenti. «Noi difendiamo i vostri figli - gli urlavano in faccia i manifestanti - e voi difendete gli sfruttatori». Due episodi, quasi contemporanei, descrivono questa doppia indignazione: da un lato un militante di Sel di 52 anni che ora rischia di perdere due dita di una mano per aver cercato in via Cavour di deviare una bomba carta lanciata contro i vigili del fuoco, dall'altro un pacifico manifestante gravemente ferito da un blindato delle forze dell'ordine lanciato contro la folla in Piazza San Giovanni.
Torniamo indietro. Poco prima delle due, dal corteo compatto era partita la prima incursione. Sono una decina, incappucciati e bardati, con una sventagliata di colpi squarciano come burro le vetrine del supermercato «Super-élite». È il segnale. Il sapore della giornata sarà acre e indigesto. A pochi metri, una smart e due Suv vanno in fiamme annerendo uno dei palazzi attigui al gran hotel Palatino «dove una stanza costa quanto una camera in affitto per un mese» qualcuno ha urlato dal microfono di un tir. Il sole battente, e un silenzio minaccioso, sembrano sospendere il tempo, mentre l'incursione di una pattuglia occupa la passeggiata archeologica e la basilica di Massenzio. Una volta entrati in via Labicana ricomincia la caccia. Prima un'agenzia di lavoro interinale, la Manpower, viene devastata. Un fumo denso e irrespirabile si alza. «Meno male che non s'è alzato - sospira un tabaccaio con lo sguardo perso nel vuoto - lì sopra c'è gente che c'abita». Poi tocca ad una caserma dei carabinieri. Un assalto furioso all'edificio che qualcuno sostiene sia da tempo in disuso. In pochi minuti, l'intero edificio va in fiamme. E dopo un paio d'ore l'incendio non domato in tempo sembra abbia fatto crollare il tetto. «Andiamo al parlamento - urla un ragazzo con un martello in mano - stiamo facendo il percorso di Alemanno». Al parlamento non ci arriverà, in compenso qualcun altro entra nella parrocchia di San Marcellino e si impossessa di una Madonna alta mezzo metro. La porta in strada e tra uno strattone e un altro la statua s'infrange sull'asfalto. La reazione sdegnata di un cinquantenne, calvo e in una buona forma, è irruenta. Prende il giovane iconoclasta per la collottola e lo sbatte su uno dei pali che reggono il display orario dei tram. Lo insulta vigorosamente, la statua e ai loro piedi in mille pezzi. I fotografi si scatenano, sembra una veglia. Nell'incursione è stato distrutto anche un crocefisso, un atto ritenuto «blasfemo» dall'associazionismo cattolico capitolino che hanno invitato anche a riflettere «sul clima di tensione che ha conquistato soprattutto i giovani». L'età media di questi giovani è sicuramente molto bassa, ragazzi di accenti e stazze diverse. Uno di loro, Janek, si racconta: ha finito la scuola da due anni, è arrivato sei anni fa con i genitori dalla Polonia, dice di non avere un lavoro. «Sono uno senza bandiera - usa un italiano limpido - è inutile che la gente protesta, l'Europa fallirà tra un anno e seguirà il destino della Grecia, che è già fallita anche se nessuno lo dice. Anche in questo paese non rimarrà niente e noi non avremo mai niente». La sua personale ricostruzione termina con un'invettiva contro le banche «pagate dallo Stato».
A sera, quando si contano dieci feriti tra i poliziotti e almeno 70 tra i manifestanti di cui tre molto gravi, quattro persone arrestate definite «anarco-insurrezionalisti», e a farne le spese è anche la sede del Pdl di Piazza Tuscolo, piazza San Giovanni è ridotta «come nemmeno piazza Tahrir» - parola di un giovane testimone di entrambe le rivolte. Mentre gli scontri riprendono in serata spostandosi verso piazza Vittorio, rastrellata vicolo per vicolo all'inseguimento di poche decine di persone rimaste isolate, e un ponteggio di via Merulana va in fiamme, centinaia di manifestanti affrontano invece a mani alzate i cordoni di polizia e carabinieri per fermare l'ultima carica, si siedono a terra e il diverbio diventa quasi un'assemblea: «Stanno sfruttando anche voi, toglietevi i caschi e manifestate con noi».

Redazione. Ecco l'anima “poliziotta” che dice la sua, nascondendosi tra la velleità di fare “pura cronaca” e l'impossibilità di farla con “spirito neutrale”. Un po' di dietrologia sulle ragioni per cui la polizia avrebbe a lungo esitato o giocato “al gatto col topo”, un po' di “colore nero” sulle “drammatiche” possibili conseguenze di questo o quel falò. Chi scrive odia i movimenti (per definizione un po' “disordinati”), gli scappa dalla penna. E si sente. Ma che ci fa al “manifesto” una persona così?

*****

L'alternativa Rifiuto dei diktat di Draghi e Trichet, più risorse per scuola e cultura, il movimento parte da qui
La posta in gioco è una sola
L'opposizione sociale riempie le strade e parla di politica. Rispedisce al mittente la missiva della Banca centrale europea e l'articolo 8 della manovra Scontri e cariche non riducono il valore di una delle maggiori manifestazioni della storia di Roma

Loris Campetti
Cinquecento guastatori nerovestiti che scatenano la guerriglia in città non possono e non debbono far dimenticare la violenza di chi pretende di governare il mondo imponendo ai loro inservienti politici che fingono di governarlo regole antisociali, destinate a colpire le fasce più deboli e intere popolazioni in tutto il mondo. Sono vittime essi stessi, i cinquecento nerovestiti, di quella violenza globale, e reagiscono a modo loro. Né tre automobili e una ex caserma bruciati possono e debbono cancellare la determinazione e la rabbia di centinaia di migliaia di cittadine e cittadine che hanno invaso Roma a mani nude per dire che bisogna cambiare subito le regole, la politica - altro che l'antipolitica di cui in troppi cianciano - la società, la cultura. Quelli che la democrazia è partecipazione ma anche riappropriazione dei beni comuni sottratti.
Anche il futuro è sottratto, non ne possono più e vogliono riprenderselo in mano. Sono indignati, chi cercando lo scontro e riproponendo un rito stanco, nell'illusione di aggregare la rabbia di tutti, di quel 99% di cui parlano slogan e cartelli: quei cinquecento più altrettanti giovanissimi che sono riusciti a tirarsi dentro. Chi invece declinando la sua rabbia persino con ironia, come recitava un cartello divertente: «Io nun so' indignato, me rode er culo». L'opposizione sociale c'è e si vede, è fatta di mille pezzi, culture e storie diverse, di individui e movimenti, uniti da una battaglia appena iniziata contro la dittatura della finanza che impoverisce la cultura, flagella scuole, ricerca e sapere, chiude fabbriche e teatri, tenta di scatenare una guerra orizzontale tra le vittime, nell'illusione di impedire il conflitto verticale dal basso verso l'alto, verso la cupola: la Bce, l'Fmi, il Wto. Ieri a Roma l'opposizione sociale si è ripresa la parola e la città, in scena è andato chi non sta al gioco perché ha capito che è un gioco truccato. L'ha talmente capito da resistere ai caroselli senza senso e pieni di provocazione della polizia con gli idranti in piazza San Giovanni e da espellere dal corteo chi con il suo agire rischia di frenare la crescita di un movimento che non vuol farsi fermare.
Per questo l'elemento unificante della protesta è il rifiuto della lettera della Bce, rispedita in massa al mittente. Ma ha preso corpo anche il rifiuto di quel maledetto articolo 8 della manovra di Berlusconi, Tremonti e Sacconi che si mangia quel che resta della democrazia nel lavoro. Lo sanno e lo ricordano a tutti gli operai della Fiom sfilando in tantissimi con le loro bandiere accresciute dall'orgoglio di Pomigliano; ma ai draghi ribelli, agli studenti e ai precari, al popolo di Uniti per l'alternativa non hanno neanche bisogno di ricordarglielo. Venerdì prossimo tornerà la protesta a Roma con i lavoratori della Fiat che a loro volta non devono spiegare a nessuno dei manifestanti di ieri che Berlusconi è un cancro da estirpare e la medicina non può essere Marchionne, che al modello antisociale liberista ha dato corpo. Non sfileranno da soli, gli operai della Fiat, come non protesteranno da soli gli studenti, il popolo NoTav, gli ambientalisti, gli attivisti dei beni comuni. Ieri a Roma è stato ufficializzato un fidanzamento che può durare a lungo, perché lunga sarà la battaglia per dar corpo a un'alternativa capace anche di farsi politica. La parte di sinistra politica che ieri ha partecipato al corteo dovrebbe aver preso molti appunti. Almeno è quel che sperano in tanti, quelli che di deleghe in bianco non sono più disposti a darne.
Ieri sera, mentre a piazza San Giovanni continuavano gli scontri, il centro di Roma era tutto un susseguirsi e incrociarsi di cortei. Ancora verso la piazza ormai impossibile, oppure su per via Merulana fino a ritornare al punto di partenza a piazza Esedra, oppure con la Fiom fino a piazza Vittorio, e ancora con gli studenti preceduti dal camion del Valle occupato dal Colosseo al Circo Massimo, infine con Uniti per l'alternativa da San Giovanni sempre verso il Circo Massimo. Tutti questi spezzoni gridavano la stessa cosa e avevano in mente un ordine diverso da quello che toglie i soldi alle scuole, ai salari, alla cultura, all'ambiente, alle pensioni per darli alle banche.
In questa partita è in gioco il modello sociale dato e quello che si vuole costruire. A Roma come in tutte le città del mondo in cui con lingue e accenti diversi si soffre della stessa spoliazione: della democrazia e insieme del pane. A Roma questo popolo generoso ha un problema specifico che si chiama Berlusconi e una nuova ferita inferta dall'ultima compravendita di voti in Parlamento. Due mondi opposti si animano davanti ai nostri occhi: in piazza la dignità di un popolo, nei Palazzi la vergogna di un ceto blindato autoreferenziale. Il primo mondo è maturo, ha imboccato la sua strada, il secondo è marcescente. In quale dei due mondi sta la politica? Non chiedetelo a chi dice che una grande manifestazione è stata rovinata da un gruppo di irresponsabili: non è vero, la grande manifestazione c'è stata e basta e non sarà certo l'ultima. La strada è lunga, c'è tempo per crescere, e per maturare.

Redazione. Più nella tradizione “manifesto”, invece, questo pezzo di Campetti che cerca di distinguere tra le parti del corteo (condannando il comportamento dei giovani che sono andati allo scontro, ma comprendendo che non sono “un altro mondo”), ma soprattutto di evidenziare le ragioni della protesta. E quindi le politiche di Bce e Ue, che stanno azzerando il modello sociale europeo e le possibilità di esercitare la mediazione sociale.

Redazione Contropiano

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