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La strada per la Siria

(25 Febbraio 2012)

25.02.2012

In Siria c'è un sistema personale, dinastico e autoritario. Il regime ha reagito con spietatezza alle manifestazioni di protesta di alcuni settori della società coinvolgendo senza scrupoli i civili e intere città nella repressione. Il numero dei caduti è probabilmente più basso delle cifre esagerate fornite da fonti esterne non controllabili, ma anche una sola vittima in un processo di riforma politica volto a introdurre una maggiore libertà è già troppo. La Siria, a parte i suoi più che illustri precedenti storici, occupa uno spazio di grande rilevanza geopolitica nel Medio Oriente ed esercita un'alta influenza su una vasta zona che include il Libano, la Giordania e finché possibile la Palestina.
Se questo, approssimativamente, è il contesto la domanda è: la strada migliore per una soluzione della crisi è incentivare l'opposizione in armi o mettere in campo tutti gli strumenti della politica delegittimando o almeno scoraggiando la violenza di tutti? L'esperienza dovrebbe aver dimostrato a sufficienza quali e quante siano le distruzioni fisiche e morali che si lasciano dietro le guerre «umanitarie». Non è bastato, prescindendo qui dalle motivazioni reali delle guerre, il massacro di un intero popolo in Iraq e Afghanistan che richiederà anni per sanare tutte le ferite? L'assurdo di un simile sviluppo sta nel fatto che la globalizzazione prevede l'inclusione e non la separazione propria della guerra fredda (con un blocco o con l'altro): le fiammate di ritorno di questi incendi investono intere regioni, provocano migliaia di profughi e vendette incrociate, inceppano quelle forme di democrazia e governance che a parole si dice essere funzionali alla stabilità e al progresso generale.
Ci sono purtroppo tutte le condizioni per una ripetizione della fattispecie libica, che sarebbe completa se Homs, come verosimilmente cercano di ottenere i ribelli, divenisse una «città libera» trasformandosi in una Bengasi siriana. Alcune nazioni arabe, le potenze occidentali, forse la Turchia hanno come solo fine il famoso "regime change" che ha un significato molto diverso dall'autodeterminazione dei popoli e che in teoria non rientra neppure nei compiti dell'Onu. Infiltrazioni di truppe speciali, contractors, esperti di intelligence e travaso di armi starebbero già avvenendo. Qualche dubbio resta se Israele preferisce un Assad in ambasce o un Assad massacrato dalla folla aprendo un vuoto di potere dagli esiti imprevedibili. L'Onu ha sancito in una risoluzione che fa testo la Responsabilità a Proteggere (il cosiddetto RP). Se il governo in carica non rispetta i diritti fondamentali della cittadinanza, i paesi terzi hanno il diritto e al limite il dovere di agire per far cessare gli abusi.
Sappiamo tutti che ci saranno sempre disparità e un trattamento diverso fra grandi e piccoli ma questo è ancora il meno perché appartiene al realismo della politica internazionale. La dottrina internazionalistica ha chiarito la perfetta congruenza con questa risoluzione di pressioni, sanzioni, esclusione dal novero della comunità internazionale. Resta però valida la Carta sul punto dell'azione militare. Né gli stati singolarmente né le coalizioni o organizzazioni regionali e internazionali possono fare la guerra se non per motivi strettamente difensivi. Tanto meno lo può la Nato, che è un residuato della guerra fredda e che come tale viene percepita anche se portasse ghirlande di fiori. Fausto Pocar scrive letteralmente in un articolo pubblicato nell'ultimo numero della rivista dell'Ispi (Quaderni di Relazioni Internazionali) che l'insieme delle norme del diritto internazionale vigente induce a ritenere che le operazioni militari siano riservate agli "appropriate competent bodies".
Un organismo competente appropriato sarebbe ovviamente l'Onu. L'Onu ha regole ritenute defatiganti e inconcludenti ma anche i decreti-legge più urgenti nei sistemi di tipo democratico devono essere approvati dal parlamento. D'altra parte, l'Onu ha perso molta della sua credibilità e delle sua stessa legittimità proprio negli ultimi anni. Troppe guerre senza nessuna convalida e senza controlli sulla conduzioni delle operazioni. Troppe risoluzioni applicate in modo unilaterale con forzature di contenuto e intensità o addirittura misinterpretate a fini di parte. L'aggiunta di un'espressione innocua come «altre misure» in un testo che fa appello a un'azione combinata contro una situazione infausta (come sarebbe avvenuto nel caso dell'ultima risoluzione del Consiglio di sicurezza bocciata dal veto di Russia e Cina) è sospetta in quanto può diventare una breccia per il passaggio senza altre mediazioni ai bombardamenti. Torna a proposito ricordare come venne usata dalla Francia e dalla Gran Bretagna la risoluzione 1973 sulla Libia. In questa prospettiva, la natura effettiva del fronte combattente è un fattore secondario.
Il presidente Assad ha messo in moto una procedura di auto-conferma accettando di discutere con la parte più disponibile dell'opposizione. È inutile scandalizzarsi: è la tattica impiegata da tutte le potenze impegnate in una guerra di repressione. Lo ha fatto la Francia in Algeria aggirando il Fln alla ricerca di un'ipotetica "terza forza" e lo stanno facendo gli Stati Uniti negoziando con i taliban «moderati». Non è affatto detto che ci siano i margini per un compromesso accettabile evitando il peggio, ma, pur evitando di idealizzare gli scenari internazionali di altre epoche storiche, sarebbe veramente triste se nell'era della globalizzazione la diplomazia fosse ridotta a decidere i modi e i tempi di una nuova guerra.

Gian Paolo Calchi Novati - Il Manifesto

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