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(31 Ottobre 2012) Enzo Apicella

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La ramallah di abu habib, la palestina che cambia

La nota cittadina palestinese muta rapidamente, trascinata da un’edilizia sregolata e da nuove attività commerciali che la trasformano. Un "modello" per la Cisgiordania che tanti palestinesi rifiutano.

(23 Marzo 2012)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in nena-news.globalist.it

La ramallah di abu habib, la palestina che cambia

foto: nena-news.globalist.it

DAVIDE ROSSI

Ramallah (Cisgiordania), 23 marzo 2012, Nena News - “Se ti serve qualcosa vai da Abu Habib!” così si è sempre detto a Ramallah, ma chissà quanto tempo ancora potranno resistere queste attività commerciali nella “capitale forzata” dell’odierna Palestina. Ramallah infatti, nonostante gli impedimenti imposti dall’occupazione, sta cambiando rapidamente, trascinata da un’edilizia sregolata e da nuovissime attività commerciali che la stanno trasformando in una piccola Amman, la capitale giordana alla quale i palestinesi (volenti o meno) sono inestricabilmente legati e da cui assurgono molti stili di vita e iniziative non sempre ponderate.
Abu Habib è un piccolo negozio situato a Ramallah Tahta, ovvero la parte bassa (vecchia) della città, in una zona a maggioranza cristiana, proprio dirimpetto alla chiesa greco-ortodossa edificata verso la metà del XIX secolo. Alla stessa epoca risalgono anche le basse costruzioni di pietra che ospitano la bottega - che si direbbe esser lì da sempre - simile a quelle che si vedevano fino a un paio di decenni fa anche in Italia, vecchie mercerie, calzolai o sarti. Ma la Storia qui ha percorso altre vie e si è inerpicata come un edera pericolosa per pendii ben più irti che continuano a tenerla sospesa in una condizione precaria e imprevedibile. Infatti scopriamo che il negozio non esiste affatto da sempre ma è il prodotto di una fuga che risale alla Nakba.

Il negozio è stato fondato nel 1950 da una famiglia cristiana di Lydda, fuggita dalle violenze del neonato stato d’Israele. John, primo di quattro fratelli, aveva solo tre anni quando è stato costretto a rifugiarsi a Ramallah, allora un piccolo centro cristiano alle porte di Gerusalemme, noto solo per la villeggiatura estiva e i roseti che tornivano tranquille casette borghesi. Da quel momento e con non poco sudore il padre, già commerciante nei primi del novecento, ha dato l’avvio a quello che poi è diventato un punto di riferimento a nella città. Abu Habib è infatti uno di quei posti in cui si può trovare di tutto, dagli articoli per la casa all’abbigliamento, dai giocattoli sino a vecchi e desueti gadget turistici rimasti invenduti. Tutti lo conoscono e tutti sanno che vi si può trovare ogni genere di articolo a poco prezzo. E’costituito da tre stanze (probabilmente antiche rimesse per animali) con altrettanti accessi, uno di fianco all’altro, da farlo sembrare tre distinte botteghe. Ma John si alterna con esperienza la clientela insieme al fratello Peter, passando da un locale all’altro, zigzagando tra la merce accatastata, evitando la sporgenza di uno scalino o di battere la testa contro i numerosi giocattoli che pendono dal soffitto. Effettivamente sembra di stare in un magazzino messo sottosopra e ci si domanda come facciano i due fratelli a soddisfare in pochi minuti le richieste della clientela. Ma tutto ha una logica, anche se non evidente, e quella intrinseca ad Abu Habib è di quelle che si sono tessute durante gli anni e che solamente i proprietari ne custodiscono il segreto. Del resto, l’attesa del prodotto desiderato si diluisce con piacere insieme a un caffè che il thermos tiene sempre in caldo per i clienti: un ristoro che contiene in sé l’essenza di un tipo di commercio appartenente ad altri tempi.

John non possiede molte immagini della città natale, tre anni sono pochi, ci dice, e i suoi ricordi sono filtrati dai racconti dei genitori: la casa che avevano appena finito di costruire, il giardino alberato, i morti e dispersi durante la fuga e soprattutto l’oro di famiglia rubato dai primi coloni. Quando accenna a Lydda esita per un attimo, incerto se conosciamo il posto di cui sta parlando, ovvero l’odierna Lod che ha subito, come tante altre città Palestinesi, tra i vari cambiamenti anche quello toponimo. Ma nella silenziosa esitazione che lo ha rapito lo risvegliamo con un “zai el El Hakim!” , “come il Saggio”, il nome con cui era chiamato George Habbash, il più noto personaggio della Lydda cristiana. Allora un sorriso luminoso ci mostra un giornale conservato come una reliquia, un Al Quds del 2008, che riporta un commosso necrologio dedicato all’ideatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP).
Primo di quattro figli, è stato lui a rilevare l’attività dopo la morte del padre insieme al secondogenito, gli altri due fratelli hanno potuto studiare e sono diventati medico e ingegnere. Tra le pile di maglieria spicca, come capita spesso di vedere nei negozi palestinesi, la foto del genitore certamente impolverata e ingiallita dall’umidità ma sempre in bella mostra. John ha sette figli, sei ragazze e un maschio. Tutti hanno studiato e qualcuno sta finendo l’università. Probabilmente nessuno lavorerà per il negozio, ma per ora lui e Peter sembrano essere sufficienti insieme all’aiuto di un garzone che viene ogni giorno da un villaggio della vicina campagna.

John ci racconta che durante gli anni il commercio è passato attraverso la compravendita di beni provenienti da piccole manifatture locali (soprattutto legno) o da Israele fino alle attuali importazioni dalla Cina e la Turchia. I clienti dieci anni fa facevano la fila fuori dal negozio mentre ora si lavora solo al venti per cento rispetto a prima della seconda Intifada. Se gli chiediamo della Ramallah attuale però, non reagisce sconsolato come fanno tanti altri commercianti. E’ contento invece che la città si stia ampliando, anche se in modo smodato, e che si faccia moderna e finalmente vi si possano trovare ogni genere di articoli, chissà che non se la figuri come una macro rappresentazione della sua caotica bottega. La città si è fatta molto cara e di lavoro ce n’era più prima, ma non teme la concorrenza delle grandi e medie catene, sottolineando orgogliosamente che la sua clientela non lo tradirà.

Di fatti il negozio è un andirivieni di gente e ognuno domanda una cosa diversa, che sa bene di poter trovare da Abu Habib, là dove si trova sempre tutto per una manciata di Shekels. Girandosi intorno si trovano i più svariati tipi di biancheria intima, dai modelli più sexy a quelli “meno attraenti”, blue jeans, crocifissi, trattori di plastica e vecchi orologi. Vi sono poi gli articoli della casa con quei pezzi di ricambio adatti solo per modelli ormai scomparsi. Una lunga fila di oggetti intarsiati nel legno ciondola insieme alle toppe del F.C. Barcelona e manufatti di terracotta della tradizione palestinese si mescolano a cineserie kitch con rara naturalezza.

Arrivati a questo punto non resta che chiedergli, domanda obbligata, se sia mai tornato al suo villaggio natale. Con un sorriso bonario, come a dirci che aveva previsto quella nostra curiosità fin dall’inizio, ci risponde che si, una volta un po’ di anni fa è tornato ma non ha ritrovato nulla della sua vecchia casa. Solo qualche albero di limone e di arance che avevano piantato in giardino, quelli erano rimasti là, come sentinelle disarmate aggiungeremmo, gli unici a registrare la Storia quando non ne sono anche loro vittime.

Nena News

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