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Scioperi a rovescio: una lotta per la rinascita

(6 Dicembre 2012)

Di Luigi Cappelli - Lo sciopero a rovescio è, come dice la parola, un rovesciamento del significato dello strumento classico del sindacato. I disoccupati affermavano, tramite il loro impegno in opere di pubblica utilità (strade, acquedotti, scuole, ecc.), necessarie quanto il pane in un Paese ancora in ginocchio dopo la catastrofe della guerra, il loro diritto a non essere dimenticati. L'Italia sperimentava, negli anni del dopoguerra, le conseguenze di una crisi economica e di una politica di blocchi contrapposti. I disoccupati non aspettarono che fosse il governo ad alleviare le loro condizioni di vita: insieme ai contadini poveri e ai senzaterra presero in mano il loro destino e riuscirono a dare concretezza alle parole scritte nella neonata Costituzione.



Una storia dimenticata

La prima cosa che colpisce nella vicenda degli scioperi a rovescio è la diffusione nazionale di questo tipo di protesta. Se la sua origine rimane oscura, certa appare la causa del suo successo nel nostro Paese: il lancio del Piano del Lavoro da parte della Cgil e la sua attuazione in campo provinciale. Il Piano, esposto da Di Vittorio al Congresso di Genova (ottobre 1949), faceva affidamento, per la realizzazione di una serie di grandi opere pubbliche, sulla cospicua presenza di manodopera disoccupata. Nel volgere di pochi anni, dal 1949 al 1953, vaste aree dell'Italia, non solo zone rurali, si trovarono a convivere con un paradosso: gruppi di disoccupati si recavano a lavorare per rivendicare i diritti sanciti nella Costituzione. Teatro di questa forma atipica di sciopero furono: nel Meridione la provincia di Foggia (in particolare Cerignola, paese natale di Di Vittorio) e il Catanzarese; in Abruzzo la piana del Fucino ed altre zone della provincia de L'Aquila, le provincie di Pescara e di Teramo (con uno sciopero che coinvolse 2.000 disoccupati nella Val Vomano); nelle Marche l'Anconetano. Il Lazio fu particolarmente interessato: l'agitazione coinvolse le provincie di Frosinone (San Donato Val di Comino e Sant'Elia Fiumerapido), Rieti e Latina. Scioperi a rovescio vennero organizzati anche in alcune borgate di Roma (Primavalle, Acilia, Pietralata). Il movimento si estese anche a Veneto, Emilia, Sardegna, al Delta Padano e alle provincie di Pistoia e Verona, al Basso Friuli. La seconda cosa, strettamente legata alla prima, che salta subito all'occhio è la latitanza della storiografia italiana su questo tema. Manca una ricostruzione storica organica del fenomeno. È solamente grazie al ricordo dei protagonisti che la memoria sopravvive in alcune comunità. Il pericolo è che con la scomparsa degli artefici di quelle lotte si perda anche la memoria degli scioperi a rovescio. Ci si trova, dunque, di fronte ad una vicenda dimenticata? Certamente quella degli scioperi a rovescio è una storia negata perché non ha avuto l'attenzione che meritava, è necessario fissarla e conservarla ed è quello che numerosi appassionati di storia locale hanno iniziato a fare da qualche anno.



La provincia di Latina e Sezze la rossa

Tramite lo studio di numerosi documenti archivistici, ho potuto ricostruire l'azione della Federazione comunista di Latina nell'attuazione su scala provinciale del Piano del Lavoro ideato da Di Vittorio. Il capoluogo pontino e i Monti Lepini erano frequentati assiduamente da esponenti romani del Partito, tra i quali spiccavano i nomi di Aldo Natoli e Pietro Ingrao. Dalla Federazione romana giunsero pressioni a favore degli scioperi a rovescio, perché la zona dei monti era considerata particolarmente adatta per il suo retroterra politicamente orientato a sinistra. A Sezze i disoccupati iniziarono a costruire strade il 17 febbraio 1951, con il consenso dell'amministrazione comunale (guidata dal comunista Italo Ficacci). Il paese lepino fece da detonatore ad una situazione pronta ad esplodere, i comuni circostanti (Priverno, Roccagorga, Maenza) seguirono il suo esempio e gli scioperi a rovescio si diffusero a macchia d'olio. In un crescendo di tensioni – a Roccagorga si verificarono numerosi arresti – il Pci riuscì a creare un clima di solidarietà tra i dimostranti (anche tra contadini dei monti e della pianura, ostili dai tempi della bonifica) e a far convergere le forze degli attivisti su un'area politicamente importante per la sua vicinanza a Roma. Ci si adoperò, in particolare, per rafforzare il settore giovanile e femminile, con l'invio di attivisti da Roma. Senatori e deputati comunisti e socialisti (alcuni anche molto importanti, come Bruno Corbi, compagno di cella di Vittorio Foa nel carcere fascista) facevano visita ai cantieri portando derrate alimentari e rincuorando gli scioperanti. Sezze ebbe l'onore di ricevere la visita di Giancarlo Pajetta. Era l'11 marzo 1951 quando il noto esponente comunista giunse sui Monti Lepini per andare di persona sui luoghi degli scioperi a rovescio. Nel centro lepino si manifestarono le prime tensioni con le forze dell'ordine, decise ad impedire il passaggio del corteo. Soprusi continuarono a verificarsi a Roccagorga e Priverno, dove si sfiorarono gravi incidenti. La freddezza dimostrata da Pajetta riusci ad evitare il degenerare della situazione. L'anno successivo gli scioperi continuarono, sebbene fossero diventati più sporadici, e Sezze fu ancora il centro propulsore di queste manifestazioni. Il 1952 fece registrare la visita di Umberto Terracini, già presidente dell'Assemblea costituente, che in un suo intervento pubblico legò inscindibilmente le lotte dei primi anni del '900 a quelle del dopoguerra. Sezze aveva di nuovo innalzato sul suo Comune la bandiera delle vecchie battaglie. Purtroppo il movimento, che era riuscito a coinvolgere vari strati sociali, si sfalderà anche per interessi politici contrapposti. Inoltre l'Amministrazione comunale si defilerà e cercherà di gettare acqua sul fuoco per non spaventare l'elettorato moderato e vanificare così i risultati raggiunti.



Le strade della rinascita

Storia e memoria. Sono quelle metaforiche che il Comitato per la Rinascita avrebbe voluto tracciare per uscire dalla condizione di miseria e di abbrutimento che migliaia di persone in provincia di Latina sperimentavano quotidianamente. Sono anche le strade realmente costruite dall'azione dei disoccupati. Con il mio lavoro ho cercato di focalizzare l'attenzione su Sezze, importante centro dei Monti Lepini, senza però distogliere lo sguardo dal contesto nazionale ed internazionale di quegli anni. Ho cercato di seguire due tesi. La prima è quella che vede negli scioperi a rovescio la continuazione delle lotte per la terra dei primi anni del '900 e delle occupazioni del secondo dopoguerra. La seconda è scaturita dallo studio dei documenti archivistici (in gran parte reperiti presso l'Archivio di Stato di Latina). Sui Monti Lepini si è, con il tempo, consolidata una sorta di vulgata secondo la quale caratteri fondamentali degli scioperi a rovescio sarebbero stati: spontaneità, gratuità del lavoro inteso come servizio reso alla comunità, auto-organizzazione. Documenti di diversa provenienza smentiscono questa rappresentazione, tramandata attraverso i ricordi dei protagonisti, e ci forniscono un quadro ben diverso: l'immagine di un movimento organizzato dai partiti di sinistra per premere sul Governo affinché desse risposte adeguate a popolazioni strette nella morsa della povertà e del degrado. Le strade della rinascita (Lotte sociali e scioperi a rovescio. Sezze 1951-1952. D'Arco Edizioni, 2012) ricostruisce questo sforzo organizzativo, oltre a fornire uno spaccato attendibile della situazione politica ed economica dei Monti Lepini nei primi anni '50, senza dimenticare il clima internazionale dei blocchi contrapposti che influenzò pesantemente l'approccio delle istituzioni governative verso le lotte sociali in Italia.

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