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(17 Ottobre 2013)
16 ottobre 2013
«Ecco la valle della sciagura: fango, silenzio, solitudine e capire subito che tutto ciò è definitivo; più niente da fare o da dire. Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c'erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente...».
Quasi dispiace cominciare con Giorgio Bocca, uno dei giornalisti più bravi e più cari scomparso appena due anni fa. Quelle righe Bocca le dettò il 10 ottobre (per il Giorno), a poche ore dalla frana del Vajont. Bocca ebbe la possibilità di ricredersi. Quarant’anni dopo, per un anniversario, scriverà che la storia del Vajont è quella paradigmatica di tante sciagure prevedibili, previste ma tenacemente perseguite che fanno parte della normalità italiana e scriverà ancora: «I responsabili ci sono, eccome, ma tutti in qualche modo si sentono giustificati da quella grande fatalità che chiamano sviluppo e che diventerà il miracolo».
Bocca, a distanza, coglie il nesso, allora e poi, tra i costi di quella tragedia e di altre che seguiranno, l’ideologia dello sviluppo illimitato, il senso comune di una strada verso il benessere che pretende di cancellare ogni ostacolo. I responsabili, dunque? «La Sade, la Edison, la Sip e gli altri giganti che sono i numi tutelari di una crescita tumultuosa ma eccitante». Non si corresse invece Indro Montanelli che a pochi giorni dalla catastrofe definì «sciacalli» quanti cercavano di indicare colpe possibili e che molti anni dopo, rispondendo ad un lettore, tra ironia, ambiguità, distorsione dei fatti, riconobbe che era al di sopra dei suoi «mezzi immaginativi» l’idea che un’impresa, pubblica o privata, volesse costruire una diga sapendo che la montagna vi sarebbe precipitata sopra, mostrandosi incapace di riconoscere che la stessa impresa privata, con la connivenza pubblica, quella diga, ormai alzata, aveva voluto riempire d’acqua, malgrado mille segni avessero avvertito del pericolo di una gigantesca frana (persino una frana di più modeste proporzioni precipitata solo pochi mesi prima). Per interesse, per rivendere l’impianto all’Enel dopo collaudo, all’Enel ormai nazionalizzata.
Al termine «sciacalli» ricorse anche la Democrazia cristiana: stesso bersaglio, quei comunisti che denunciavano e accusavano. Comunisti come Tina Merlin, da lungo tempo, o come Mario Passi, giornalisti de l’Unità. La storia del Vajont, delle origini di un «olocausto», ricostruita nel tempo e ricca di testimonianze, carte, processi (anche quello intentato nei confronti di Tina Merlin, addirittura nel 1959, accusata di diffondere notizie false, atte a turbare l’ordine pubblico e assolta con una sentenza che raccomandava addirittura la vigilanza sui pericoli che la realizzazione del bacino idrico avrebbe significato), documenti scientifici, dovrebbe essere chiara.
La raccontò in modo impareggiabile anche Marco Paolini in una memorabile serata tv (quando la Rai non s’era ancora confinata al ruolo di dozzinale luna park, tra pacchi, delitti, sceneggiate politiche). In questi giorni di memorie qualcuno ha sommessamente evocato però altre «responsabilità» (magari additandole come banali brutte figure), quelle del nostro giornalismo.
Accadde anche in passato, basterebbe rileggersi l’introduzione di un altro inviato speciale, Giampaolo Pansa, al libro di Tina Merlin, Sulla pelle viva. Nessuno - ecco il rimpianto o addirittura il rimorso della «grande firma» - aveva provato a immaginare e a calcolare i rischi, neppure era stato raccolto il fondato (non solo appassionato, ma fondato su testimonianze certe, su indagini certe) grido d’allarme de l’Unità, di un giornale comunista, e prima di tutto di quanti vivevano ai bordi del Vajont.
Per discriminazione, per presunzione. Quella di Tina Merlin era rimasta la voce isolata di «una collega di provincia». Lo restò ancora, per giorni dopo la tragedia. «Fatalità», titolò il Corriere un fondo di Dino Buzzati. Mezzo secolo dopo si potrebbe spiegare la «distrazione» d’allora con l’ansia di modernità che ispirava quell’epoca e la corsa al boom del nostro Paese, con una fiducia illimitata nella tecnica, con la certezza di un progresso che ci sottraeva alle miserie di una civiltà contadina. Ma si potrebbe anche pensare che quella «distrazione» nascesse da un insuperato vizio centralistico della nostra informazione (e della nostra politica e della nostra cultura), della sua subalternità e sudditanza ai poteri, di un disinteresse classista per quelle periferie geografiche e sociali: in fondo il Vajont era solo l’ impresa di un monopolio, un capolavoro di ingegneria (quante volte è stato scritto), una necessità per alimentare d’energia elettrica la grande industria italiana (nel caso l’area di Marghera), un colossale affare per chi ne aveva diritto e che avrebbe così potuto promuovere chissà quali altre felici realizzazioni; Erto, Casso e Longarone erano entità estranee popolate da poveracci ignoranti, senza diritti.
Il Vajont ha insegnato poco. Lo sguardo chiuso della stampa italiana, che aveva impedito di scorgere quella realtà, raramente si è aperto poi: a scoprire ad esempio quanto avveniva al Petrolchimico di Marghera, nei capannoni di Casale Monferrato, nelle fabbriche chimiche liguri, sotto il terrapieno di Stava (268 morti), tra i laminatoi della Thyssen, in mille luoghi di lavoro, tra tante scogliere, valli, pianure italiane, tra inquinanti e diossine. O si è aperto solo dopo, sulle vittime, per deplorare e consolare.
Oreste Pivetta - l'Unità
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