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Re ferendum

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CRONACA DI UN DISASTRO ANNUNCIATO (CHE CONTINUA).

MARZO 1994, VENT’ANNI FA: LA PRIMA VOLTA DEL MAGGIORITARIO E DI BERLUSCONI

(16 Marzo 2014)

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Esattamente vent’anni, Marzo 1994, si svolsero le prime elezioni legislative generali utilizzando il nuovo sistema misto maggioritario al 75% e proporzionale (con sbarramento) al 25% e si registrò la vittoria di Forza Italia, partito fondato da Silvio Berlusconi: un partito che, in quel momento, vantava pochi mesi di vita.
Non si trattò di una sorpresa, bensì di un disastro annunciato che tuttora prosegue nei suoi effetti, via, via, sempre più tragici.
Nel ricordare quell’avvenimento non si possono eludere, per onestà intellettuale, due considerazioni di fondo:
1) Da allora le condizioni complessive di vita delle grandi masse popolari sono sensibilmente peggiorate (complice anche una particolare congiuntura internazionale che deve essere ovviamente valutata, ma con una quota rilevantissima di responsabilità di chi ha retto le fila del governo e della politica in questo Paese). Il sistema politico è stato ridotto in una tale condizione da risultare permeabile, come in questo momento si sta cercando di fare attraverso il varo di una legge elettorale liberticida, a tentativi di avventura autoritaria;
2) In questi vent’anni hanno governato tutti, nessuno escluso, per periodi più o meno lunghi ma alla fine equivalenti. Il centrodestra populista di Berlusconi ha governato per sei mesi nel 1994, poi un’intera legislatura tra il 2001 e il 2006 e un altro pezzo di legislatura tra il 2008 e il 2011. Il centrosinistra ha governato un’intera legislatura (cambiando tre presidenti del Consiglio) tra il 1996 e il 2001 portando anche gli aerei militari italiani a bombardare la Jugoslavia che stava andando a pezzi per allinearsi alla follia bellica degli USA e della Nato e un altro pezzo di legislatura tra il 2006 e il 2008. Abbiamo avuto, ancora, governi tecnici (Dini tra il 1995 e il 1996 sostenuto da un’inedita combinazione PDS, Popolari, Lega Nord e Monti tra il 2011 e il 2013, sostenuto dalle “larghe intese”) e governi dalle “larghe/piccole intese” come quello di Letta tra il 2013 e il 2014 e di “piccole intese” come l’attuale appena entrato in carica. Sulla poltrona di ministro si sono alternati tutti: dal “nero” della destra sociale neo-fascista Alemanno, dal cultore delle memorie del ventennio Ignazio La Russa, al comunista Diliberto andato a celebrare l’anniversario della rivoluzione d’ottobre sulla Piazza Rossa a Mosca con Zyuganov fino al demoproletario movimentista Ferrero, che forse non riuscì a portare nel suo ministero né il Genoa Social Forum, né il “popolo di Seattle”.
Andiamo per ordine cercando comunque di sviluppare un’analisi non tanto sui fatti che portarono all’esito elettorale di vent’anni fa, quanto sulla vicenda complessiva della politica italiana in questa lunghissima fase definita di “transizione” e non certo conclusa, vissuta dai più nella confusione e nel veder via, via sparire le minime condizioni materiali di convivenza sociale, di possibilità di utilizzo di diritti, di costruzione di un domani dignitoso.
E’ evidente che una quota di responsabilità all’origine debba essere assegnata alla vera e propria “svolta” che il governo Craxi, tra il 1983 e il 1987, impresse alla situazione politica, sociale, economica dell’Italia: non che, beninteso prima fossero rose e fiori o il “regno del bengodi”, ma tre elementi specifici possono essere imputati a quel governo, in quel periodo: l’allineamento sostanziale al meccanismo iper-liberista che in quel momento stava assumendo l’egemonia a livello internazionale in coincidenza con la presidenza Reagan negli USA e quella Tachter in Gran Bretagna. Da questo punto derivarono la dismissione dell’industria pubblica in Italia, un deciso attacco ai diritti dei lavoratori, l’avvento dell’idea della politica intesa esclusivamente come “governabilità”. Inoltre fu alimentato a dismisura il deficit del bilancio pubblico, un fatto verificatosi non certo per il consociativismo (che c’era) ma essenzialmente per l’enorme giro di corruzione politica, poi messo in luce soltanto parzialmente da “Tangentopoli”: Giro di corruzione politica, beninteso, assolutamente ancora in auge negli anni successivi , alimentato anche dalla crescita esponenziale della disponibilità di denaro verso i partiti e i gruppi politici a tutti i livelli, centrali e periferici, e della costruzione di un vero e proprio “sistema” di benefici fuori mercato per i protagonisti di una politica sempre più separata dalle istanze concrete di vita dei cittadini. Senza dimenticare ancora ciò che accadde durante il governo Craxi sul delicatissimo terreno della comunicazione televisiva: un elemento del tutto decisivo per lo sviluppo delle vicende successive.
Il governo Craxi (collegato al famigerato CAF e con interno elementi connessi alla loggia P2: si ricordi la vicenda del segretario socialdemocratico Pietro Longo, in quel governo Ministro del Bilancio) impresse una fortissima accelerazione verso il disfacimento complessivo del sistema: un’accelerazione, è bene ricordarlo, in linea con quanto contenuto proprio nel documento di “Rinascita Nazionale” pubblicato nel 1975 da Licio Gelli, gran maestro della loggia massonica segreta P2, alla quale – ricordiamo anche questo – risultò affiliato lo stesso Silvio Berlusconi. Nel frattempo scivolava in basso anche il ruolo dei sindacati, illusi si poter utilizzare il meccanismo della concertazione e incapaci di tornare a presentarsi come i soggetti realmente portatori delle istanze delle contraddizioni sociali di classe, che pure non si erano certamente volatizzate (poi la crisi finanziaria avviatasi nel 2008 e la sua gestione da parte delle centrali capitalistiche avrebbe confermato l’analisi di fondo dell’acuirsi e non dell’allentarsi della contraddizione principale fondata sullo sfruttamento).
Il secondo elemento che deve essere preso in considerazione ai fini di questa ricostruzione storico – politica riguarda il disfacimento del sistema dei partiti che, utilizzando il sistema elettorale proporzionale, aveva retto il quadro politico italiano tra il 1946 e il 1992. E’ innegabile che questo sistema dei partiti presentasse ormai un “deficit” di rappresentatività politica e sociale: il mutamento delle “fratture” sulle quali si articolava il sistema aveva dato origine a nuovi soggetti come la Lega Nord che aveva approfittato delle difficoltà insorte alla DC a causa del processo di secolarizzazione della società, avvenuto in particolare nelle “zone bianche” del Nord e al rinvigorirsi della frattura “centro-periferia” alimentata da un robusto processo migratorio e come i Verdi , eredi dell’antica “issue” città/campagna, al momento trasformatasi nella vertenza tra industrialismo e conservazione ecologica dell’ambiente che dava luogo a fortissimi conflitti locali, mai sfociati però in una vera e propria “contraddizione” di dimensione nazionale (si stavano allora lanciando i primi appelli sulla globalizzazione della condizione ecologica del pianeta, pensiamo al documento del “Club di Roma” o ai testi di James O’Connor o Barry Commoner, ma il dato culturale complessivo era ancora lontano da far acquisire un punto di coscienza collettiva sufficiente a trasformarlo in fatto politico consistente).
Al di là di tutto questo, però, il disfacimento del sistema dei partiti in Italia ha un preciso punto d’origine: quello dello scioglimento del PCI, la conclusione della cui storia lasciò infatti adito a tutte le soluzioni, le più negative possibili.
Questo giudizio, molto preciso, deriva da una valutazione di fondo: il PCI, sempre tenuto fuori dalle combinazioni di governo (ma non di maggioranza) a causa della logica dei blocchi e della “conventio ad excludendum” rappresentava, con la DC naturalmente, l’architrave del sistema e se ne arrivò allo scioglimento, dopo due dure battaglie congressuali, senza arrivare a determinare un indirizzo politico complessivo del soggetto che si andava creando che non fosse quello, genericissimo, dello “sblocco del sistema politico”. Ciò significava che, nel momento storico della caduta del muro di Berlino, quello che era stato il più grande partito Comunista d’Occidente mollava indiscriminatamente gli ormeggi, rinunciando addirittura a un approdo di tipo socialdemocratico europeo e allineandosi sostanzialmente alle tesi della “fine della storia” di Fukuyama e Huntington e alla piena affermazione dei concetti “neo-liberali” in economia e della “governabilità” indiscriminata in politica. Governabilità indiscriminata che si situa all’origine di quel meccanismo di “individualismo competitivo” che rappresenta il solo elemento fondativo di appartenenza all’attuale PD, del quale sono soggetto costitutivo “elezioni primarie” vero elemento del disfacimento di una ipotesi comune di azione politica e della formazione di componenti e cordate legate assieme semplicemente dall’idea della spartizione del potere, al centro come in periferia.
Lo scioglimento del PCI avvenuto in quei termini e reso ancora più negativo dell’incapacità dimostrata dalla sinistra del partito che si oppose ma che non riuscì ad elaborare una propria strategia politica d’alternativa (rifugiandosi alla fine, in parzialissima parte, nel rivendicazionismo movimentista esercitato da Rifondazione Comunista) ebbe riflessi fortissimi e determinanti per l’intero sistema, proprio a partire dal concetto di “governabilità” sulla base del quale si procedette, a colpi di referendum e di propaganda elettorale assolutamente mistificatoria, alla modifica del sistema elettorale in senso maggioritario. Pareva in quel momento la panacea di tutti i mali del sistema che si andavano accumulando anche per via dell’esplosione di Tangentopoli: in realtà si stava provocando un vero e proprio “vuoto” nel rapporto tra politica e società spezzando il radicamento dei partiti, esaltando la personalizzazione (si ritorni al punto del ruolo avuto dal governo Craxi nel campo della comunicazione televisiva) e instillando il veleno del presidenzialismo (a partire dall’elezione diretta dei Sindaci , dei Presidenti di Provincia e poi dei Presidenti di Regione, incautamente definiti “governatori”). Si costruiva così quel concetto di “Costituzione materiale” versus “Costituzione formale, mentre andavano falliti due tentativi di modifica costituzionale effettiva, con la Bicamerale del 1997 e il referendum confermativo del 2006 e affermandosi soltanto la raffazzonata riforma del titolo V approvata a maggioranza dal centrosinistra nel 2001, in chiusura di legislatura, la cui unica cifra di teoria politica era quella di blandire le velleità secessionistiche della Lega. Inoltre, nello stesso periodo, erano state adottate le famigerate “leggi Bassanini” che, anziché semplificare i processi burocratici hanno inferto un colpo micidiale nel rapporto cittadini/politica/amministrazione.
Il terzo elemento di disfacimento del sistema fu quello, all’inizio degli anni’90, dell’adesione totalmente acritica al trattato di Maastricht.
Il trattato di Maastricht segnò la definitiva affermazione di un’Unione Europea fondata sull’economia liberista, sul monetarismo, sulla finanziarizzazione fondata su di un governo sovra-nazionale saldamente in mano ai governi nazionali più forti (attraverso il meccanismo Commissione/Consiglio) e la marginalità assoluta del ruolo del Parlamento: in queste condizioni si arrivò alla moneta unica, in nome della quale s’imposero alla classe operaia sacrifici mostruosi (scala mobile, pensioni) pensando a uno sviluppo dell’economia affatto diverso da quello che poi si sarebbe realizzato anche rispetto alla presunta apertura dei mercati dell’Est e di fronte alla crisi dei subprime innestati da una politica degli Stati Uniti basata sui due pilastri del debito privato e della guerra come “esportazione della democrazia”.
Sulla base di questi fatti : il disfacimento del sistema dei partiti dovuto essenzialmente al processo di scioglimento del PCI adottato a seguito della caduta del Muro di Berlino, la corruzione imperante nel rapporto politica /economia in Italia di cui porta la responsabilità primaria il governo Craxi e l’adesione acritica al meccanismo monetarista imposto dal trattato di Maastricht (in questo caso evidenti responsabilità soggettive dei “padri della patria” Ciampi e Prodi, quest’ultimo già protagonista assoluto del processo di dismissione industriale degli anni’80) si arrivò alla formazione di un vero e proprio “vuoto politico”.
Vuoto politico che si pensò, appunto, di colmare esclusivamente modificando la legge elettorale legislativa in senso maggioritario.
Tutto ciò che quella modifica si prefiggeva non si realizzò: né il bipolarismo, né la semplificazione del sistema (il numero dei partiti aumentò vertiginosamente perché il sistema richiedeva alleanze larghissime), né la governabilità (tra il 1996 e il 2001, ad esempio, il centrosinistra per sopravvivere dovette ricorrere a una duplice scissione: sia al proprio interno con la formazione del PdCI, sia all’esterno con l’approdo dal centrodestra di quello che sarebbe poi stato il gruppo dell’UDEUR).
Restiamo però alle elezioni del 1994: il vuoto politico generatosi con lo scioglimento dei soggetti componenti l’ex pentapartito (DC,PSI,PSDI,PRI,PLI) fu colmato quasi interamente dalla “discesa in campo” di Forza Italia e di Silvio Berlusconi.
Una “discesa in campo” sulla quale si è molto ragionato, senza concluder nulla beninteso, in termini di “conflitto d’interessi” ma che si evitò di fermare a quel momento applicando la legge sulle “concessioni di Stato” del 1957 come invece aveva lucidamente indicato il professor Sartori.
Accadde, in quel marzo 1994, un fatto politicamente singolare: i corifei del bipolarismo (Mario Segni in particolare) tentarono l’avventura di un “terzo polo” centrista smentendo tutte le loro teorie e andando incontro a un fallimento definitivo, la sinistra mise in campo la “gioiosa macchina da guerra” dei Progressisti che, dopo tutte le lacerazioni imposte dallo scioglimento del PCI, presentò al suo interno uno spettro di posizioni politiche e di riferimenti sociali assolutamente inferiore a quelle che lo stesso PCI era stato capace di mettere in campo, ad esempio, nel 1983 includendo nelle sue liste il PdUP e la Sinistra Indipendente, la neonata Forza Italia, oltre alla forza mediatica del suo leader favorito – ovviamente- dalle proprietà televisive, combinò un vero e proprio capolavoro di tattica politica presentandosi in una doppia alleanza, al Nord con la Lega (partito della libertà) e al Sud con i neofascisti del MSI che stava compiendo la loro “Bolognina” trasformandosi in AN (partito del buon governo).
Si trattò di un trionfo annunciato e tale si realizzò nelle urne: l’avvio di una disastrosa fase della vicenda politica italiana era lanciato.
Il governo che uscì da quelle elezioni durò poco, principiò l’eterno duello Magistratura/Berlusconi, ma il seme maligno era stato gettato con la responsabilità di tutti gli esponenti di un sistema politico in crisi che avrebbe generato la situazione di grandissima difficolta che avremmo, via, via, vissuto negli anni successivi sul piano politico, economico e sociale.
Adesso ci troviamo sulla soglia di un processo di rifeudalizzazione dell’agire politico, con tutti gli indici negativi alle stelle (in particolare nel campo del lavoro), i corpi intermedi svuotati di senso e di capacità politica, una società sfarinata e, in gran parte allo sbando, una crescita esponenziale delle diseguaglianze sociali.
Un bilancio tragico, che non lascia spazio a un minimo d’ottimismo, ma che vale la pena compilare ricercando le origini di questo stato di cose: così, tanto per aiutare tutti a meditare.

Franco Astengo

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