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Il Papa lascia l'Africa

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(21 Novembre 2011) Enzo Apicella

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Il Santo Guerriero.

Ovvero che cosa i padroni ricordano di Karol Wojtyla

(4 Aprile 2005)

Questo è il fondo che compare sulla prima pagina de "La Stampa" di oggi, a firma di Enzo Bettiza.

Nell'overdose mediatica oltre ogni limite di questi giorni sul Papa, questo articolo merita di essere citato in quanto spicca per faziosità e cinismo politico a livelli che forse il solo Bruno Vespa può sperare di raggiungere.
Ma è comunque un articolo utile a mettere in luce la vera visione che l'ultra-destra cattolica integralista ha dell'Europa: un'Europa (o meglio un'Eurasia) delle piccole patrie stile Sacro Romano Impero, con l'unico collante ideologico (oltre all'ideologia del denaro) costituito dalla religione del Dio vendicativo, dei Santi guerrieri e della Militia Christi.



Il ritratto di Karol Wojtyla, che si ricava da tutto ciò che è stato scritto e detto in questi giorni, merita forse qualche puntino sulle «i». A me è sembrato nell'insieme un ritratto piuttosto convenzionale, incompleto, spesso ritoccato, talora adulterato per un eccesso di calcolate e prudenti simmetrie ideologiche. L'impressione è che si sia voluta ridimensionare la scomoda grandezza della sua figura di pontefice politico, ruvido, dirompente, all'occorrenza guerriero, facendola più simile all'evanescente Spirito Santo che al Cristo fustigatore del tempio. Dipingendo Giovanni Paolo II di volta in volta come un mistico lontano dalle competizioni mondane, un pacifista assoluto, un equanime censore del comunismo e del capitalismo, perfino come un angelico trasvolatore «no global» fra più continenti, si è finito per edulcorare il robusto contorno e significato storico del suo pontificato.

Che è stato un pontificato di rottura e restaurazione postconciliare, di tensione antitotalitaria, di ardita diplomazia fra le confessioni monoteiste, di spregiudicato dinamismo ecumenico all'interno della cristianità e, in particolare, di difesa a oltranza dell'identità delle piccole nazioni slave dell'altra Europa ove egli stesso era nato. Appena eletto pontefice, lo slavo Wojtyla ha riorganizzato le gerarchie della Santa Sede con un senso del comando che lo ha portato a depotenziare quasi subito la tradizionale e diffidente Curia italiana. Poi, col piglio di un antico re polacco, si è circondato di prelati polacchi e mitteleuropei che hanno saputo assisterlo nella sua iniziale e maggiore operazione storica: la spallata al comunismo russo nel punto nevralgico in cui esso, cioè nella nativa Polonia, era più vulnerabile. Egli avviò i ventisette anni di pontificato con una dichiarazione di guerra. Invitò i connazionali a «spalancare le porte a Cristo» soggiungendo che «il comunismo è la menzogna sull'uomo raccontata all'uomo». Quando le porte furono spalancate da Lech Walesa e da Solidarnosc, a Mosca qualcuno, probabilmente Andropov, capo del Kgb, capì che quell'ignoto prete dell'Est europeo, figlio di una ucraina e di un militare polacco, aveva messo alfine in piedi le «divisioni del Papa» che il beffardo Stalin asseriva di non vedere da nessuna parte. Non sbagliavano: avevano fiutato il Nemico emerso dai loro territori imperiali.

Oggi molti sottolineano con calore partecipe il no del Papa, che trattava i presidenti americani e russi da pari a pari, all'intervento armato in Iraq. Ma poco, quasi niente, ho potuto leggere sulla continuazione della lotta di Wojtyla al comunismo nella sua versione nazificata dagli eredi serbi di Tito. Il Vaticano allora si distinse, insieme con la Germania e con l'Austria, nel cogliere l'insostenibilità delle coattive «federazioni» comuniste, nel riconoscere quindi per primo le nuove sovranità della Slovenia e della Croazia cattoliche e nell'identificare con chiarezza gli aggressori e gli aggrediti. Egli fece intendere al mondo che la politica di pace non va confusa col pacifismo generico e che in casi di orrida infamia, come Vukovar o Srebrenica, tale politica può e deve essere perseguita anche con le armi. Le visite in Croazia, in Slovenia, nella martoriata Sarajevo, gli incontri con i nuovi governanti croati e la beatificazione del cardinale Stepinac, sigillarono vistosamente la strategia di protezione data dal Vaticano wojtyliano alle piccole e rinascenti nazioni danubiane. Non si dimentichi che quel Papa aveva alle spalle non una Polonia qualunque. Aveva nei ricordi di famiglia la Polonia di Cracovia, la rispettabile Polonia austroungarica, dove Lenin si rifugiava dalle persecuzioni zariste in atto a Pietroburgo e a Varsavia, dove l'ebreo Joseph Roth era di casa, dove fiorivano i circoli risorgimentali polacchi e anche serbi e croati. La copertura morale e diplomatica che nei giorni dei genocidi balcanici egli aveva dato ai cattolici di Lubiana e di Zagabria, nonché ai musulmani della Bosnia, non proveniva dal nulla: veniva da una conoscenza per così dire consanguinea del problema. Altro che Mitterrand o Bush padre.

E' questo l'uomo di Stato e il santo guerriero, parzialmente ignorato con astute omissioni dagli epitaffi d'occasione, che l'Europa e la Prima Roma hanno perduto e a cui milioni di europei devono oggi la libertà e la vita.

Enzo Bettiza (La Stampa)

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