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(3 Novembre 2012) Enzo Apicella

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Il prolungamento della giornata lavorativa: una minaccia per i lavoratori europei

(10 Luglio 2005)

In un articolo di Giorgio Cremaschi leggiamo: “Quarantotto ore alla settimana per quarantotto settimane all'anno. Questo è l'orario massimo dei lavoratori europei secondo la direttiva in preparazione, sulla quale ha votato pochi giorni fa il parlamento. Sono ben 2304 ore all'anno di lavoro, una cifra da far invidia alla Cina.
Ma non basta. Queste ore possono essere svolte in maniera "flessibile" per un massimo di dodici mesi. Cioè per metà dell'anno si possono lavorare 76 ore alla settimana e per l'altra metà 20. I lavoratori poi possono sottoscrivere impegni personali in deroga all'orario settimanale massimo, per lavorare fino a 65 e persino 78 ore settimanali.”

Dopo aver elencato una serie di proposte e provvedimenti dello stesso genere, osserva: “Di fronte a tutto questo le sinistre moderate del parlamento europeo, la Ces, Cgil Cisl e Uil hanno prima lanciato proclami di fuoco poi alla fine si sono accontentati di qualche modifica di facciata, che però non incrina la sostanza della direttiva. La solita scelta a favore del liberismo temperato, che alla fine invece tempera solo le possibilità della politica di intervenire a favore dei diritti.”[1]

Chi ha scritto tutto questo non è un estremista di sinistra, ma un noto esponente della CGIL.
Questo grido d’allarme è ben giustificato. Le ore previste sono 48 settimanali, ma si fa il possibile per farle lievitare. Si vuole estendere a tutta l’Unione l’opt out, cioè la deroga concessa nel 1993 all’Inghilterra, che permette una rinuncia individuale al limite orario.

Di fronte alla sfida cinese, l’Europa non cerca di rispondere con un maggiore sviluppo tecnologico, ma di fare una concorrenza sullo stesso piano, contenendo i salari e aumentando gli orari. Non è bastato l’esempio italiano dove, nonostante il lavoro nero diffuso, quindi senza garanzie di salari e orari contrattuali, si è andati incontro ad un fallimento clamoroso.

La Francia non è da meno: la legge Aubry del governo Jospin, che introduceva le 35 ore, è accantonata. Per la legge approvata nel marzo 2005, chi vorrà lavorare di più potrà farlo: “Gli straordinari saranno così contabilizzati come tali dalla trentasettesima ora della settimana. Prima lo straordinario veniva contabilizzato dalla trentaseiesima ora. Nelle prime quattro ore di straordinario scatterà una maggiorazione del 10%, mentre fino a ieri lo straordinario veniva pagato con una maggiorazione del 25%”.[2]

Quali sono le implicazioni di questi aumenti d’orario, contro le quali il movimento operaio deve reagire con tutta la sua forza?
Come in tutte le società di classe, il tempo di lavoro è diviso in due, la parte in cui il lavoratore provvede al sostentamento suo e della famiglia (che Marx chiama lavoro necessario), e la parte di lavoro gratuito, il pluslavoro, che serve ad arricchire il padrone. Questo sfruttamento ha dei limiti, pena la distruzione della stessa forza lavoro, barriere fisiche e anche morali (tempo libero, cultura, rapporti sociali, ecc.).
Per fare un esempio, su otto ore di lavoro, tre possono essere per il lavoro necessario, e corrispondono al salario, altre cinque sono lavoro non pagato e danno origine al plusvalore (che si divide in profitto d’imprenditore, rendita, interesse, imposte, stipendi di lavoratori non produttivi, sinecure ecc.).
I capitalisti, che piangono sempre miseria – Berlusconi ha fatto di questi piagnistei un’esibizione da clown - sostengono che, se fossero tolte loro le imposte, anche la condizione degli operai migliorerebbe. E’ falso. Il prelievo di queste imposte non riguarda la suddivisione tra salari e plusvalore, cambia solo la proporzione in cui il plusvalore rimane nelle tasche del capitalista.

Tutti i redditi delle classi improduttive derivano da una suddivisione del plusvalore. Non soltanto i capitalisti, ma anche i proprietari terrieri, i funzionari statali, i vescovi, i militari, vivono del plusvalore. Lo stato, attraverso il fisco, è il maggiore redistributore, e su di esso si basa molta parte del parassitismo. Sarebbe ingenuo chiedere a questi settori che vivono di plusvalore una solidarietà nella lotta contro l’aumento dell’orario di lavoro. Nessuno taglia il ramo su cui sta seduto.

Il capitale ha fondamentalmente tre metodi per aumentare il plusvalore:
1) Allungare le giornata lavorativa.
2) Accrescere l’intensità del lavoro a parità d’orario.
3) Aumentare la forza produttiva del lavoro con nuovi macchinari più efficienti.[3]

Agli albori del capitalismo, quando la produttività era molto bassa, il capitale aumentava il plusvalore quasi esclusivamente portando ai limiti della sopportazione fisica la giornata lavorativa. Gli effetti sulla salute e sulla mortalità della popolazione furono enormi. Medici e ispettori di fabbrica fornirono una copiosa documentazione, ma spettò a due tedeschi ( Engels, con “La situazione della classe operaia in Inghilterra” e Marx con “Il Capitale”), condurre l’analisi più completa del fenomeno.
Gli effetti congiunti della giornata di lavoro lunghissima e della denutrizione portarono alla degenerazione fisica d’intere popolazioni, perpetuata nelle generazioni successive. Il grande chimico Liebig notò che i governi erano costretti ad abbassare continuamente l’altezza minima per la leva. In Francia, prima della Rivoluzione, il minimo richiesto era 165 cm., nel 1852 fu portato a 156. In Sassonia, nel 1780 la statura militare era 178 cm., nel 1862 era 155 cm. Il capitalismo aveva minato la salute persino di una delle più alte e robuste popolazioni d’Europa. In tutti i paesi, era crescente il numero delle persone scartate alla leva perché troppo gracili o deformi.
A Nottingham, i metodi del famigerato sceriffo si erano sicuramente perpetuati, se, ancora nel 1860, c’era una petizione per limitare il lavoro degli uomini a 18 ore quotidiane! [4]

Marx chiama “plusvalore assoluto” quello ottenuto mediante il prolungamento della giornata di lavoro. Questo metodo rozzo e primitivo di rubare tempo ai lavoratori, a sentire i cantori socialdemocratici e liberali del capitalismo progressivo, asettico, tecnologicamente perfetto, doveva considerarsi archiviato, o, al massimo, poteva essere tollerato provvisoriamente nei paesi in via di sviluppo. Si è invece ripresentato in tutta la sua forza, come soluzione invocata da tutto il capitale, ormai in fase reazionaria, e portato avanti dal comitato d’affare dei banchieri e degli industriali, la Commissione europea.

Altro modo per incrementare il plusvalore è l’incremento dell’intensità del lavoro. Se, accrescendo l’intensità e lo sforzo fisico e mentale, si riesce a far sì che un operaio in otto ore produca l’equivalente di dieci ore, l’usura in termini di logoramento fisico e di stanchezza mentale cresce in proporzione. Nell’Ottocento il dottor Richardson si chiedeva perché, nei sobborghi di Londra, i fabbri morivano come mosche, e, fatta un’inchiesta, concludeva: “Il fabbro può battere il martello tante volte al giorno, fare tanti passi, respirare tante volte al giorno, tanto lavoro da vivere in media, diciamo, cinquant’anni. Lo si costringe a batter tanti colpi in più, a far tanti passi in più, a respirare tante volte in più al giorno, sicché, in complesso, il suo dispendio di vita aumenta di un quarto al giorno. Egli tiene testa allo sforzo, e il risultato è che egli compie un quarto di lavoro in più per un periodo limitato, e muore a trentasette anni invece che a cinquanta”.[5]
Qualcuno osserverà. Sono cose dell’Ottocento, siamo nel duemila. Ma la fame di plusvalore del capitale non conosce sosta, e lo vediamo dai continui omicidi bianchi, e dalle morti precoci di lavoratori:

“Ogni anno nel mondo si verificano 270 milioni di infortuni e muoiono per incidenti oltre 300mila persone. Alcuni dati, sommando anche i morti per malattie professionali, ci parlano di 1,2/2 milioni di morti. Un'ecatombe.
Nella civile (?) Italia gli infortuni sul lavoro permangono sostanzialmente attorno al milione all'anno, mentre gli incidenti mortali si attestano mediamente sui 1400 morti.”[6]
E sono solo le cifre ufficiali, perché molti incidenti non sono denunciati per paura di perdere il lavoro.

“Si nota anzitutto una fortissima intensificazione del lavoro. Alla Renault di Douai, una delle fabbriche auto a più alta produttività del lavoro in Europa, si sta andando alla progressiva abolizione anche delle micro-pause e per evitare qualsiasi interruzione del flusso produttivo, una parte del tempo di pausa è stata spostata a fine turno. La caccia spietata ai "tempi morti" avviene ormai secondo i rigidi dettami del just in time toyotista in vista dell'abbattimento del tempo di fabbricazione di un veicolo a 15 ore (ricordiamo che alla Volkswagen si punta già alle 7,5 ore). Le esigenze dell'impresa vi si impongono in un modo così brutale da produrre una inquietante crescita delle malattie nervose, degli incidenti e delle morti da superlavoro”.[7]
Chi si fosse fatto convincere dalle visioni di un capitale ormai purificato, che ha rotto con le brutture e la brutalità degli inizi ottocento, dovrà ricredersi. Il capitale è un serial killer che non ha perso il vizio di uccidere. Non solo con le continue guerre per le conquiste dei mercati – dittatori e “liberatori” di turno sono solo dei sicari prezzolati, ancor peggio se ci credono veramente -, non soltanto con la diffusione della droga che (le associazioni criminali sono solo manovalanza) è diretta dall’alta finanza. Il capitalismo uccide quando l’usura costringe al suicidio debitori presi alla gola, o fa impazzire chi ha perso la casa e spara sull’ufficiale giudiziario; uccide migliaia di giovani, presi dal mito della velocità quotidianamente diffuso dai media, che si schiantano ai lati delle strade. Uccide quando introduce sul mercato generi alimentari, frutto di modificazioni genetiche, non ancora dimostrati innocui dalla scienza. Uccide quando, con una rapina quotidiana, consuma la forza produttiva dell’operaio, abbreviandogli la vita. Non a caso Fourier chiamava le fabbriche “ergastoli mitigati”.

Un altro modo di aumentare il plusvalore è attraverso lo sviluppo tecnologico, il cosiddetto “plusvalore relativo”. Quando in una società c’è un forte aumento di produttività, soprattutto nella produzione dei mezzi di sussistenza, si accorcia la parte della giornata lavorativa di cui l’operaio ha bisogno per riprodurre i propri mezzi di sussistenza, e cresce quindi il plusvalore.
Nei paesi arretrati, o in settori arretrati dei paesi moderni, il lavoro è più improduttivo e si produce minore quantità di merci per ora di lavoro. L’operaio, perciò, deve dedicare una maggior parte del suo lavoro alla riproduzione dei propri mezzi di sussistenza. E’ bassa, in termini relativi, la parte destinata al plusvalore. Il saggio di plusvalore (rapporto tra plusvalore e lavoro necessario) è più alto nei paesi sviluppati, per cui l’operaio tedesco, con i suoi orari relativamente brevi, produce maggiore plusvalore di un operaio del sud est asiatico, con i suoi orari spaventosi. Nel primo caso opera il plusvalore relativo, nel secondo il plusvalore assoluto.

Sono falsi gli argomenti secondo i quali con l’aumento della giornata lavorativa si aumenta la produttività. Luciano Gallino ha demolito questi argomenti:
“L’espressione “produttività del lavoro” indica il valore aggiunto per ora effettivamente lavorata, o se si preferisce la quota del PIL pro capite prodotta da un lavoratore nella stessa unità di tempo”. “Allungare l’orario di lavoro permette di aumentare la produzione, non la produttività oraria, che è quella che più conta. E’ anche possibile che la produttività diminuisca, dato che lavorare stanca, e quando si è stanchi i ritmi si allentano e i rischi di errori crescono”.[8]

Per tutti questi motivi, pensiamo che, non solo bisogna opporsi con ogni forma di lotta a questi aumenti dell’orario di lavoro, ma, dopo la difensiva, passare all’offensiva, ricominciare a proporsi la riduzione dell’orario di lavoro.
I lavoratori, anche a causa dell’azione di frantumazione compiuta dal capitale, con l’esternalizzazione di vasti settori, sono in condizioni d’estrema debolezza. Le lotte puramente corporative non servono, occorrono parole d’ordine che accorpino tutti i settori di lavoratori, mettano in luce gli interessi comuni. Storicamente, una delle parole d’ordine più efficaci per unificare i lavoratori, è stata quella della riduzione dell’orario di lavoro. Occorre esaminare se ancora oggi può avere una simile funzione.
Senza sottovalutare nessuna lotta settoriale che s’impegni in tale campo, bisogna considerare che alcune categorie sono forti, ma molte altre sono deboli e non in grado di ottenere risultati apprezzabili. Ci sono settori, specie nella piccola industria, dove il sindacato neppure riesce ad arrivare, e l’arbitrio dei padroni è totale. La soluzione dei padroni per indebolire i lavoratori è di puntare sulle scelte individuali, per questo i singoli lavoratori possono prendere impegni in deroga, per lavorare di più. La borghesia è sempre per la “libertà”, libertà di accettare i ricatti del padrone, libertà del crumiro di varcare i cancelli della fabbrica, libertà del cittadino di non essere infastidito dagli scioperi, tutto tranne la libertà dei lavoratori di lottare conseguentemente per i loro interessi. In questo caso non si parla più di libertà, ma di “licenza”, di “egoismo corporativo”. La scelta di classe è esattamente quella opposta: bisogna concentrare tutte le forze sull’ottenimento di una legge, ossia su una misura che costringa tutti ad accettare un limite preciso dell’orario.

Marx spiega che, quando l’operaio vende la sua forza lavoro in cambio di un salario, ha solo l’illusione di essere un “libero agente”, e scopre che l’imprenditore “il suo vampiro non lascia la presa finché c’è un muscolo, un tendine, una goccia di sangue da sfruttare.
A “protezione” contro il serpente dei loro tormenti gli operai devono assembrare le loro teste e ottenere a viva forza, come classe, una legge dello stato, una barriera sociale potentissima, che impedisca a loro stessi di vendere sé e la loro schiatta alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un volontario contratto col capitale”.[9]

Ci furono e ci sono obiezioni riguardanti l’impiego di una legge per ridurre l’orario, dalla preoccupazione arcaica dei proudhoniani, che non volevano “fare politica”, a chi sostiene che si tratta di un settore riservato alla contrattazione, e persino rivoluzionari un po’ confusi che dicono: “Se lo stato non è neutrale, ma è uno strumento della borghesia, perché dovremmo usarlo nelle lotte per la riduzione dell’orario di lavoro?”. La risposta è vecchia di quasi 140 anni, ed è sempre valida: nel 1866 Marx diede istruzioni scritte ai delegati per il Congresso di Ginevra dell’Internazionale. Dopo aver parlato degli effetti distruttori del lavoro in fabbrica su bambini e adolescenti, aggiunse che la difesa era possibile soltanto “attraverso la trasformazione della ragione sociale in forza sociale, e, nella circostanze presenti, non possiamo fare ciò se non mediante leggi generali, che vengono dettate mediante il potere dello stato. Facendo introdurre tali leggi, la classe operaia non accrescerà la forza del potere governativo: come ci sono leggi per difendere i privilegi della proprietà, perché non ne dovrebbero esistere per impedirne gli abusi? Al contrario, tali leggi trasformerebbero il potere diretto contro di esse in loro proprio agente. La classe operaia, allora, tramite una misura generale, farà quanto essa tenterebbe invano di compiere con un numero altissimo di sforzi individuali”.[10]
E’ proprio la debolezza del movimento operaio attuale che richiede di concentrare gli sforzi su una legge, ogni altra via fallirebbe. Naturalmente, non si tratta di far presentare una proposta di legge da un deputato, e attendere l’iter parlamentare (Montecitorio e Palazzo Madama e persino il più giovane Parlamento Europeo hanno tonnellate di leggi scomode lasciate ad invecchiare), ma di cominciare una lotta con scioperi e manifestazioni di piazza.

La riduzione dell’orario non deve comportare tagli salariali. Si devono rifiutare soluzioni che, solo apparentemente, si avvicinano alla riduzione d’orario:
1) Il part time, forma di semidisoccupazione mascherata, in cui la riduzione della paga è reale, quella del tempo di lavoro non sempre, dati gli straordinari, le chiamate urgenti, ecc.
2) I contratti cosiddetti di solidarietà (solidarietà col capitale). Bisogna distruggere l’aura di sacrificio altruista che li circonda (per salvare il posto ad altri operai, per dare un posto ai figli! E’ ciò che promette il capitale). Ci si può fidare dei capitalisti? Soltanto se si recita con Baudelaire: “Dio mio! Signore, mio Dio! Fate che il diavolo mantenga la parola!”.[11]
3) L’assunzione di giovani in cambio del prepensionamento degli anziani. Si allontanano dal lavoro militanti temprati, con una grande bagaglio d’esperienze e di lotte, senza dare garanzie ai giovani, che sono “gratificati” con un salario incerto e decurtato.
4) Rifiuto di tutte le soluzioni “atipiche” che spezzano il proletariato in mille sottocategorie, illudendo donne e giovani di poter ottenere tempo libero, mentre in realtà avranno un salario dimezzato.
5) Rifiuto degli incentivi per le aziende, perciò si danno soldi alle aziende che promettono di accorciare gli orari. E’ una vecchia storia, tutte le leggine per “aiutare i lavoratori” comportano sovvenzioni alle aziende. Se lo stato ha soldi che avanzano, li dia ai disoccupati, e non cerchi pretesti per fare assistenzialismo alle imprese.

La riduzione dell’orario di lavoro non sarebbe una cosa seria senza un corpo d’ispettori, pagati dallo stato, ma eletti dai lavoratori. La legge 30 va proprio in senso opposto, perché tende ad assegnare agli ispettori un compito di conciliazione, più che di sorveglianza. Se questa legge fosse stata fatta dagli imprenditori e dai banchieri, non potrebbe essere più sfavorevole ai lavoratori. E’ fatta ad immagine e somiglianza dello strato più meschino dell’imprenditoria italiana.
E’ evidente che occorre anche una continua denuncia degli imprenditori che impiegano lavoro nero, rivendicando sanzioni che arrivino, nei casi più sfacciati, all’esproprio senza indennizzo.

In genere, quando si parla dei benefici legati alla riduzione dell’orario di lavoro, si pensa all’aumento dell’occupazione. Questo è reale dove non è facile introdurre grosse novità tecniche (uffici, settori commerciali), mentre nelle fabbriche l’intensificazione del lavoro e un’organizzazione più scientifica della produzione possono riassorbire in un tempo relativamente breve i benefici in termine di occupazione, rendendo necessaria la lotta per un’ulteriore riduzione d’orario.
Gli effetti benefici di maggior durata sono altri: un maggior tempo libero, strappato al capitale, una tendenza verso miglioramenti salariali. Marx scrisse: “E’ un fatto universalmente noto che, quanto più lunga è la giornata lavorativa, tanto più basso è il salario”, e citava uno studio dell’ispettore di fabbrica A. Redgrave, dal quale risultava che, tra il 1839 e il 1859, nelle fabbriche soggette alla legge delle 10 ore il salario era aumentato, mentre in quelle in cui lavoro durava 14/15 ore era diminuito.[12]

E’ chiaro che la riduzione della giornata lavorativa condiziona tutta la vita del lavoratore. Il capitalista acquista la forza lavoro in cambio del salario, e la consuma. Se questo consumo si estende oltre certi limiti, la stessa durata della vita sarà accorciata. Coloro che vogliono spostare l’età pensionistica, speculano molto sull’aumento della durata media della vita, ma questo è dovuto soprattutto alla fine delle lunghissime giornate lavorative dell’Ottocento, e potrebbe andare in buona parte perduto, se si tornasse indietro in questo campo.
Se effettivamente si riuscisse a ridurre l’orario senza tagli salariali, la sconfitta degli imprenditori sarebbe grande, perché si ridurrebbe la massa del plusvalore, e con ciò si diminuirebbe il potere di comprare giornali, coscienze e partiti politici. Perderebbe il posto qualche sociologo compiacente, qualche spia aziendale, qualche sindacalista giallo. Sarebbe un colpo alla corruzione ben più forte di quello inferto dai giudici a tangentopoli.
Gli ultimi anni hanno dimostrato che, come è in via di scomparsa la figura del borghese laico, ancor più lo è quella dell' “industriale illuminato”. Figure alla Olivetti, che si circondavano di studiosi, cercavano di sostituire le catene ferree per i lavoratori con catene d’oro, favorendo la formazione tecnica e la cultura sociologica, concedendo salari relativamente alti, sono scomparsi. Gli operai hanno capito che lo sfruttamento restava, e la statua di Olivetti è rotolata a terra. Oggi, questi “missionari del capitale” non sono più di moda, il capitale, nonostante l’Himalaia di chiacchiere con cui si cerca di mascherare i rapporti sociali, appare sempre più col suo vero volto di negriero.
Se i lavoratori, invece di combattere queste decisioni delle autorità europee e nazionali e di passare al contrattacco, cedessero, i risultati sarebbero un accresciuto sfruttamento, salari bassi, disoccupazione, miseria diffusa.
Queste direttive vengono da molto in alto, ma non sono il destino. Per combatterle non bisogna chiudersi nella prigione dei confini nazionali, come l’idiotismo (non è un insulto, vuol dire particolarismo) leghista pretende. Occorre invece risvegliare un gigante, il proletariato europeo, l’unico che può affrontare questo cartello di interessi finanziarie industriali che pretende di rappresentare l’Europa.
Se qualcuno pensasse che i rapporti di forza sono troppo a favore del capitalismo, potremmo rispondergli con le considerazioni di Marx: Tutto lo sviluppo dell’industria fa pendere la bilancia a favore del capitalista, per cui l’operaio deve attendersi attacchi ai salari e all’orario di lavoro:
“Se tale è in questo sistema la tendenza delle cose, significa forse ciò che la classe operaia deve rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni che le si presentano tutto ciò che può servire a migliorare temporaneamente la sua situazione? Se essa lo facesse, essa si ridurrebbe al livello di una massa amorfa di affamati e di disperati, a cui non si potrebbe più dare nessun aiuto. (….) Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande”.[13]

Si dice che questi aumenti d’orario servirebbero ad affrontare la concorrenza cinese, ma questo cavallo di battaglia di tanti industriali era già zoppo nell’Ottocento. Il parlamentare Stapleton dichiarava, come riportava il Times nel 1873: “se la Cina diventa un grande paese industriale, non vedo come la popolazione operaia europea possa sostenere la lotta senza scendere al livello dei suoi concorrenti”. E Marx commentava: “Il fine auspicato del capitale inglese non è più il salario continentale, ma il salario cinese”.
Gianni Agnelli, molti anni fa, creò un trambusto perché disse che i lavoratori italiani, in futuro, avrebbero dovuto accontentarsi di salari polacchi. Oggi, per il capitale, questo non basta più. Non chiedono, ovviamente, che in Cina vengano tolti quegli enormi ostacoli che impediscono di costituire sindacati indipendenti e di lottare per salari e orari europei, vogliono portare in Europa i salari e gli orari cinesi. Come tutti i reazionari, vogliono far girare all’indietro la ruota della storia.


1) Giorgio Cremaschi, Lavorare di più, col beneplacito della sinistra moderata. La direttiva europea sugli orari di lavoro.
2) Paolo Andruccioli, Manifesto 23 marzo 2005.
3) Marx, Il Capitale, vol. I° cap. 15
4) Il Capitale, vol. I°, cap. 8 par. 2
5) Il Capitale, vol. I° cap. 8 par. 3
6) Ugo Baghetta, Morire di lavoro, Liberazione 29 aprile 2003
7) Malati di lavoro, Pietro Basso
8) Luciano Gallino, Lavorare di più o lavorare meglio? Luglio 2004
9) Il Capitale, vol. I° cap. 8 par. 7
10) Marx, Istruzioni per i delegati del Consiglio centrale provvisorio sulle singole questioni (1866), in “La Prima Internazionale” a cura di GM Bravo.
11) Charles Baudelaire. Lo spleen di Parigi
12) il Capitale, cap. 18
13) Marx, Salario, prezzo, profitto, cap. 14


05 luglio 2005

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