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(16 Agosto 2012) Enzo Apicella

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Niger e dintorni: Africa ribelle, Occidente in panne

(9 Agosto 2023)

niger, africa ribelle

Ancora una volta un grido di lotta che si ode in tutto il mondo viene dall’Africa – questa volta dall’Africa “nera” occidentale.

Questo grido di lotta non è in nulla paragonabile, per potenza, estensione, protagonismo degli sfruttati, ai sommovimenti del 2011-2012 che percorsero in lungo e in largo come un’unica onda sismica l’intero mondo arabo, in Africa del nord e in Medio Oriente. Allora milioni di operai, sfruttati, diseredati, giovani senza futuro, donne senza diritti, riaprirono nelle piazze il processo della rivoluzione democratica ed anti-imperialista in una regione strategica del globo, dando un formidabile scossone alla stabilità del capitalismo globale a egemonia occidentale già alle prese con la più grande crisi finanziaria della storia – prima di essere sconfitti dalla reazione delle borghesie locali in combutta con le grandi potenze. E neppure è lontanamente paragonabile, quanto a diretto protagonismo proletario e a contenuti di classe, alle potenti lotte dei minatori del Sud Africa, con epicentro a Marikana, che nel 2012 diedero il via ad un biennio di scioperi “selvaggi” in agricoltura, nella metalmeccanica, nei trasporti, in edilizia, mettendo in luce la trama di interessi che lega, e subordina, il regime bianco-nero “post-apartheid” di Pretoria alle multinazionali delle vecchie potenze coloniali, e approfondendo il solco tra questo regime borghese e la sola forza che potrà portare a compimento la liberazione dell’Africa dal fardello dei vecchi e nuovi colonialisti: il suo giovane proletariato – e non si tratta solo del giovane proletariato sud-africano: al 2017 tra i primi trenta paesi al mondo per livelli di attività sindacale, dodici erano paesi africani. Non avrebbe senso neanche confondere gli avvenimenti di questi giorni in Niger e in Africa occidentale con gli ampi sommovimenti popolari degli anni 2018-2020 in Algeria e Sudan, naufragati entrambi per le loro inconseguenze, e tuttavia capaci di rimettere in campo il motto politico centrale della grande Intifada araba del 2011-2012: “il popolo vuole abbattere il regime”…

Queste grandi sollevazioni hanno spezzato la morsa della paura che per decenni ha costretto all’inattività politica e sindacale le classi lavoratrici dell’Africa, a cominciare dalla classe operaia. E hanno decretato che “il tempo della paura e dell’umiliazione in Africa è finito, e poco importa quanto durerà (di sicuro non poco) il cammino della liberazione degli oppressi” – è quanto scrivemmo un decennio fa per un libro-denuncia sul massacro di minatori a Marikana, e abbiamo ripetuto nel n. 3 del Cuneo rosso denunciando, pressoché da soli nel panorama desolante della cosiddetta “sinistra di classe”, il nuovo assalto neo-coloniale all’Africa.

Gli avvenimenti in corso in Niger, e prima ancora in Mali e Burkina Faso, le proteste giovanili e popolari dei mesi passati in Senegal, sono sulla scia dei maggiori avvenimenti appena ricordati. Il filo che li collega tra loro è la ribellione al colonialismo francese, tanto arrogante quanto decrepito, e al colonialismo occidentale in genere, quello italiano incluso – mai dimenticare che prima con Draghi e poi con Meloni l’Italietta vile profittatrice di sempre sta cercando di intrufolarsi negli spazi lasciati momentaneamente liberi dal declino dei cugini coltelli di Parigi.

Non staremo certo a questionare sulla democraticità o anti-democraticità dei “colpi di stato” che hanno portato al potere in questi paesi delle giunte militari. E con chi, poi? Con gli architetti dei più infami e sanguinari colpi di stato della storia recente, che per limitarci all’America centro-meridionale hanno riguardato Venezuela, Paraguay, Guatemala, Repubblica dominicana, Brasile, Argentina, Bolivia, Uruguay, Cile, El Salvador, Panama, Perù, Haiti, Honduras? Vogliamo forse parlare del Congo 1960, quando fu assassinato Lumumba? o dell’Algeria 1990-’92 quando fu rovesciato con la violenza il responso delle elezioni vinte dal FIS (Fronte islamico di salvezza)? o dell’Egitto-2013 e di come è salito al potere al Sisi? Osserviamo solo che nella storia dell’Africa non è la prima volta che svolte di tipo almeno potenzialmente anti-coloniale vedono protagonisti dei militari – Nasser, Gheddafi, Sankara per citarne alcuni, guardandoci però dal mettere questi tre personaggi sullo stesso piano, sarebbe un insulto a Thomas Sankara. In tutti questi casi, a differenza dei golpe a stelle e strisce, non è quasi mai mancato il sostegno popolare, più o meno attivo. Nel Niger di oggi è certamente attivo, non soltanto nella capitale. E la defenestrazione di Bazoum è avvenuta, dopotutto, in modo molto… democratico, se è vero che ha avuto perfino l’agio, per giorni, di sentirsi al telefono con i suoi padrini di Washington e di Parigi. Quindi, chiudiamola qui.

Ciò che attribuisce una speciale importanza internazionale agli avvenimenti attuali in Niger è che l’Africa è oggi al centro di un furioso scontro di influenze tra le declinanti potenze occidentali e la Cina. Nella sua travolgente cavalcata, la Cina è diventata ormai l’indiscussa primatista per investimenti nel continente; si è radicata in tanti paesi con la rete delle proprie imprese operanti in tutti i campi, dal settore manifatturiero alle infrastrutture ferroviarie e digitali, dal commercio al land grabbing. Nella partita c’è evidentemente anche la Russia, che sta conquistando fette di mercato e terreno politico-diplomatico con le sue forniture agricole, nucleari (il nucleare civile) e militari (è il primo esportatore di armi in Africa per un decennio – ad Algeria ed Egitto la parte del leone), puntando come i suoi concorrenti, con le sue multinazionali e il volonteroso, e tutt’altro che disinteressato, aiuto della Wagner, sull’accesso privilegiato alle immense risorse minerarie del continente: petrolio, oro, gas, uranio, coltan, silicio, diamanti e tutto il resto. E c’è l’Italia, ovviamente, che rivendica dei diritti speciali sullo sfruttamento dell’Africa in nome della sua prossimità geografica: “L’Italia è il paese più vicino all’Africa, che non è un continente povero ma è pieno di risorse, la metà di quelle mondiali”, così Meloni all’ultimo convegno della Fao.

L’Africa, quindi, è più che mai un vaso di miele per questi contendenti e per le affluenti petrolmonarchie arabe. Lo è per gli incalcolabili tesori del suo sottosuolo, ancora largamente inesplorati, e come ricchissimo, inesauribile bacino di giovani braccia-menti per il mercato mondiale. Una forza-lavoro giovane e sempre più istruita, nonostante i ferali colpi inferti dal FMI alla scuola e alle università africane, che fa gola, e quanto, al capitale europeo e globale. Dopotutto è questa la gallina dalle uova d’oro per il capitale, o no? “L’Africa – scrive il quotidiano della Confindustria italiana – non è solo un giacimento a cielo aperto, ma è ricca di risorse umane, di giovani, che sono anche risorse demografiche. Bisogna guardare non solo alle risorse della terra africana, ma anche agli africani come risorsa. Si tratta di un valore immateriale [?!?] che conta. I giovani sono tanti”. E così utili per le imprese italiane che la Meloni, invece di fare il blocco navale per impedire ad un solo africano di numero di arrivare in Italia come aveva giurato, ha varato il decreto-flussi più ampio degli ultimi dieci anni! “Al 2040 – nota a sua volta il McKinsey Global Institute – in Africa ci sarà un quinto dei giovani dell’intero globo e la più ampia popolazione in età da lavoro del mondo. I dirigenti delle imprese globali e gli investitori globali non possono permettersi di ignorare l’immenso potenziale di questo continente. Una strategia di lungo periodo per l’Africa deve essere parte della loro pianificazione a lungo termine. All’oggi infatti il saggio di profitto degli investimenti stranieri in Africa è più alto che in ogni altra area in via di sviluppo”. Proiettandosi ancora un po’ più avanti l’ISPI (l’Istituto per gli studi di politica internazionale, che opera sotto la vigilanza del ministero degli Esteri italiano) si lecca i baffi, forse prematuramente, osservando che “al 2050, l’Africa subsahariana conterà all’incirca il 57% della crescita demografica globale, e il 23% circa della popolazione mondiale sarà subsahariana, dal 15% circa attuale e il 10% nel 1990. In confronto, la quota di popolazione globale dell’Unione Europea si aggira oggi intorno al 6% e scenderà al 4%, secondo le stime, entro il 2050. Tra 30 anni, circa 2,3 miliardi di persone vivranno in Africa subsahariana, a fronte di 1,1 miliardo oggi. Tassi di fertilità elevati e migliori aspettative di vita sorreggono il ritmo straordinario di crescita demografica, che produrrà un drastico incremento della domanda di servizi pubblici.” Per quanto da secoli e tutt’oggi spogliata e martirizzata, l’Africa resta viva e promettente.

Quello che la lingua padronale chiama “dividendo demografico” (con un inconscio riconoscimento alla marxiana teoria del valore) è a sua volta legato ad un complessivo processo di sviluppo capitalistico dell’Africa, quanto mai sperequato, instabile, diseguale, dipendente, a macchia di leopardo, e tuttavia reale, specie nei paesi a maggior consistenza demografica. E rende molto appetibile come mercato di sbocco un continente che, producendo ancora pochi prodotti finiti e avendo infrastrutture sotto ogni aspetto deficitarie, ha bisogno di macchine per produrre, di ogni tipo di tecnologie, di ferrovie, strade, porti, aeroporti, sistemi di comunicazione, e nella sua dinamica di sviluppo ritardato sogna di potersi affrancare dalla posizione che attualmente occupa nella divisione internazionale del lavoro. Al recente vertice Russia-Africa di san Pietroburgo un capo di stato quale l’ugandese Museveni, non proprio un fior di “anti-imperialista”, prendendo come esempio la produzione del caffè, si è spinto ad affermare: “un problema che ha rallentato la crescita dell’Africa” è che il valore aggiunto per i prodotti finiti viene realizzato e incamerato “al di fuori del territorio africano”. Non è il solo governante africano a sentire scottare il terreno sotto i piedi, e ad essere spinto a scostarsi dalle sue vecchie frequentazioni britanniche per cercare di utilizzare le tensioni crescenti tra campo dell’imperialismo occidentale e campo delle potenze capitalistiche ascendenti per provare a “risalire la catena della produzione di valore”. Anche gli ufficiali nigerini del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria provano a muoversi in questa direzione. Il paradosso – per noi assai divertente – è che si tratta di militari formati alle scuole-quadri statunitensi…

Cos’hanno da offrire l’UE e gli Stati Uniti a questo moto capitalistico ascendente dell’Africa, ed in particolare alle classi sfruttate di questo continente uscite da più di un decennio dal letargo prodotto dal fallimento dei nazionalismi arabi e africani? Lo si è visto chiaramente nella risposta che hanno dato all’Intifada araba del 2011-2012: restaurazione o puntellamento dei regimi messi in crisi dalle sollevazioni (Egitto, Tunisia, Bahrein); guerre devastanti (Libia, Yemen, Siria); rafforzamento della presenza militare diretta sotto la copertura demagogica della “guerra al terrorismo islamico” (in Niger ci sono migliaia di militari statunitensi, francesi e italiani); moltiplicazione delle pressioni per accaparrarsi terre fertili o fertilizzabili a quattro spiccioli. Spettacolare, al confronto, è il vantaggio competitivo e di immagine della Cina e di altri paesi asiatici che non fomentano guerre (almeno apertamente), non si immischiano negli scontri sociali (almeno apertamente), e si segnalano invece per la fornitura di mezzi di produzione e infrastrutture al 30-40% di costo in meno rispetto alla media europea, per non parlare di quella statunitense. Un’attività che anche per la sua velocità di realizzazione è percepita come un “aiuto allo sviluppo” dell’Africa, laddove stati e imprese occidentali non sono in grado di reggere alla nuova concorrenza né sui prezzi, né sull’efficienza di realizzazione delle opere loro affidate (benché da 15 anni si stiano via via infittendo gli episodi di lotta e di rivolta contro i capitalisti cinesi, anche con esecuzioni sul posto). Il risultato complessivo di tutto ciò, specie se si mette tra i passivi dell’Occidente l’incessante azione usuraia di FMI e Banca mondiale, è la semina di massa di un odio anti-occidentale crescente, attivo che chiede l’espulsione da tutti gli angoli dell’Africa delle ex potenze coloniali che non vogliono mollare la presa neocoloniale. Sull’onda di questo sentimento e risentimento popolare, gli ufficiali che hanno preso il potere, o almeno il governo, in Mali, Burkina Faso e Niger, facendo le veci di una borghesia autoctona ancora troppo fragile, intendono affermare il diritto dei loro paesi di scegliere i propri interlocutori economici e politici internazionali. Ma dubitiamo fortemente che acconsentiranno ad armare le masse sfruttate che li sostengono per combattere un’eventuale “guerra di indipendenza” – ricordiamo bene il comportamento che tenne l’intrepido Saddam davanti alla richiesta che salì da tante parti del mondo arabo di costituire una brigata internazionale che combattesse le armate occidentali: più allarmato che lusingato, non mosse un solo dito per favorirne la nascita. Anzi.

La proterva Francia di Macron minaccia sfracelli se sarà torto un capello ai suoi militi e colpiti gli interessi francesi. Ma per intanto, pagliaccio di un Macron, ti hanno semi-distrutto l’ambasciata, ci hanno issato sopra la bandiera russa, hanno deposto un tuo lacchè, e non sei stato in grado di far nulla. Hai migliaia di soldati in Niger: perché non li hai schierati? Perché insisti che sia l’Ecowas (la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) ad andare all’attacco di Niamey con i suoi ascari? Questo spettacolo di arroganza verbale e impotenza reale è il segno inequivocabile dell’affanno della Francia e, in generale, dell’Occidente nel mantenere il loro predominio manu militari, e la conferma di come le grandi potenze alla guerra aperta preferiscano le guerre “per procura”, meno dispendiose e pericolose. Intanto il senato della Nigeria boccia il bellicismo del presidente Tinubu, mentre all’interno di Ecowas si rafforzano le voci discordi o dubbiose sull’intervento militare per procura. Il forte vicino settentrionale, l’Algeria, si dichiara decisamente contrario. Si fanno prove di cooperazione tra gli eserciti di Mali, Burkina Faso e Niger. Si mette male, al momento, per i gangster occidentali. Evviva! Si metterebbe anche peggio se, fallita la carta Ecowas, dovessero lanciare le proprie truppe all’attacco del Consiglio nazionale presieduto da Tchiani. Potrebbero anche sbaragliare momentaneamente le sue truppe, al prezzo, però, di creare un nuovo Vietnam o un nuovo Afghanistan nel cuore dell’Africa. Non a caso il doppiogiochista governo Meloni, con Crosetto, si dichiara contrario alla soluzione militare, e con Tajani fa sapere che i generali nigerini non sono ostili all’Italia. Meglio, quindi, gli intrighi, i ricatti, la corruzione dietro le quinte, chi sa che l’Italietta non riesca a trarne profitto. E se queste manovre non dovessero avere esito? In ogni caso, per i gangster occidentali non si mette bene. Evviva!

Ma, a differenza di altri meschinelli, non ci esaltiamo certo per lo sventolio di bandiere russe, assunte dai dimostranti come simbolo di uno stato che osa sfidare gli imperialismi occidentali, e da cui si aspettano aiuto militare e solidarietà. Senonché Putin, lo stratega accorto e lungimirante della partnership attentamente coltivata con le borghesie africane, si è mostrato prudentissimo, favorevole, come la Cina, al mantenimento dello status quo. Si è ben guardato dal flirtare con le piazze nigerine e africane in genere, lasciando, semmai, allo spericolato Prigozhin il compito di avere rapporti con i militari ribelli. Sa benissimo che un incendio sociale generale in Africa occidentale e, tanto più, nell’intera Africa, si abbatterebbe come un uragano non solo sui regimi infeudati agli imperialisti occidentali, ma anche su quelli dialoganti con la Russia. La prospettiva di un capitalismo multipolare sostenuta da Mosca e da Pechino non prevede feste per gli sfruttati! Prima lo comprendono i nostri fratelli di classe africani, prima depongono le attuali illusioni, meglio sarà per loro e per noi.

Quanto a noi internazionalisti rivoluzionari, non possiamo che ribadire quanto abbiamo detto poche settimane fa a Venezia ai nostri fratelli di classe senegalesi: in questa riaccensione della lotta per la liberazione dell’Africa dal colonialismo sarà decisivo il protagonismo degli sfruttati, che debbono prendere nelle proprie mani il loro destino. E possono farlo solo scendendo in campo in maniera ancora più massiccia, mobilitandosi, organizzandosi con proprie organizzazioni autonome dalle altre classi sociali. Possono esserci un Senegal, un Niger, un Mali liberi dal colonialismo, dalla dipendenza, dalla povertà, dalla corruzione, solo all’interno di una ripresa generale della lotta per liberare l’intera Africa dal neo-colonialismo e dai regimi asserviti – dal colonialismo francese così come dal colonialismo di tutti i paesi europei che cercano, vedi appunto l’Italia, di profittare della crisi del colonialismo francese, senza farsi incantare dalle lusinghe di Cina e di Russia interessate entrambe ad una rispartizione dell’Africa, non certo alla sua liberazione.

Quanto alle rivendicazioni di lotta immediate e di prospettiva nei confronti dei nostri governi, dell’Italia ed Europa, ecco le nostre:

1. immediato ritiro dal Niger e dall’Africa delle truppe di stato e private, dei consiglieri e degli istruttori militari e di polizia italiani, europei, occidentali e dell’ONU;

2. azzerare definitivamente il debito estero dei paesi africani, contratto dai loro governi borghesi, e che viene fatto pagare a proletari e contadini poveri;

3. restituire le terre razziate con il land grabbing;

4. cessare di inondare l’Africa con i prodotti agricoli sovvenzionati europei che distruggono l’agricoltura locale;

5. finirla di appropriarsi del pescato dei mari africani;

6. ridiscutere su basi paritarie e di effettiva utilità reciproca i commerci in atto;

7. avviare un processo di restituzione del plurisecolare maltolto.

E prima di tutto spezzare il silenzio sulle lotte operaie e popolari, sulle resistenze al neocolonialismo in corso in Africa, sostenendo con ogni mezzo questo secondo tempo di una rivoluzione democratica, anti-imperialista che è rimasta incompiuta. In prospettiva la lotta contro il colonialismo e il capitalismo in Africa e nei paesi dominati dovrà unirsi alla lotta contro il capitalismo e il colonialismo nei paesi dominanti, in cui la dittatura degli sfruttatori è sempre più palese e dura da sopportare: solo allora i due capi della rivoluzione anti-capitalista verranno a ricongiungersi. Affermarlo oggi suona visionario. Ma cesserà di esserlo quando il proletariato occidentale si sarà finalmente risvegliato dal torpore che tutt’oggi l’attanaglia e lo rende complice delle efferatezze dei propri padroni.

7 agosto

Tendenza internazionalista rivoluzionaria

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