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La fabbrica della paura

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(5 Gennaio 2010) Enzo Apicella

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Colpi di Stato contro l'imperialismo o nell'imperialismo

(3 Settembre 2023)

Condividiamo la riflessione a proposito dei recenti sviluppi in Africa pubblicata sul sito di Prospettiva Marxista.

africa, imperialismi

Il conflitto scoppiato in Sudan in aprile sta producendo effetti devastanti su gran parte della popolazione. Le condizioni di vita si sono drasticamente aggravate e le ripercussioni dell’instabilità e degli scontri sulle coltivazioni e i raccolti, la scarsità di forniture mediche, preannunciano scenari sempre più drammatici. Il Financial Times del 17 agosto ha riportato alcune stime dell’ONU. Oltre 6 milioni di persone sono «ad un passo» dalla fame. L’insicurezza alimentare è quasi raddoppiata da maggio e ora coinvolge oltre 20 milioni di persone. La guerra ha distrutto case, ospedali e altri servizi essenziali. Quasi un milione di persone sono fuggite nei Paesi confinanti mentre il numero degli sfollati all’interno del Paese ha superato i 3,2 milioni. Oltre 14 milioni di bambini sono bisognosi di aiuti alimentari.

I signori della guerra che stanno insanguinando il Sudan non sono né il parto di una dimensione “altra”, separata dal “normale” mondo capitalistico, né scollegati dal sistema di relazioni tra potenze regionali e dal gioco imperialistico che, anche attraverso i rapporti e i nessi con le potenze regionali, attraversa e avvelena in profondità ampi spazi del Sahel e dell’Africa subsahariana. Questi signori della guerra sono storicamente prodotti dell’imperialismo. I milioni di esseri umani che subiscono sulla propria pelle gli effetti delle guerre, dei massacri, delle distruzioni che comporta il continuo confronto per le sfere di influenza, la continua gara per aggiudicarsi mercati e materie prime – confronto che si traduce nelle dispute tra ras locali sostenuti dai rispettivi padrini, in una perenne instabilità – sono a tutti gli effetti vittime dell’imperialismo.

Il colpo di Stato che si è verificato in Niger il 26 luglio può essere il segnale dell’emergere di una significativa, reale, spinta a contrastare questa cappa di subordinazione e ad uscire dalla ammorbante rete di interessi, di influenze, di legami con cui la dinamica imperialistica ha avvolto la regione, imbrigliandone anche le locali classi dominanti? O costituisce di fatto un ennesimo sviluppo, un passaggio interno a questa condizione complessiva, magari la manifestazione di un mutamento di rapporti di forza e di aree di influenza ma sempre funzionale e interno alle sue logiche e alle sue dinamiche?

Cercare di fornire una risposta a queste importanti domande richiede un impegno preliminare. Occorre evitare con cura, con rigore, di confinarsi sul terreno delle aspirazioni slegate dalla realtà, delle congetture metafisiche che trovano riscontro solo nell’autoreferenzialità di schemi di processi storici immaginati, auspicati, desiderati. È necessario conferire alla giusta e indispensabile tensione ideale di una scelta politica anticapitalista la dimensione di un criterio politico, di una concezione politica che sappia misurarsi con il reale, con i suoi elementi favorevoli allo sviluppo della lotta e della coscienza di classe, le sue contraddizioni e i fattori che ostacolano e contrastano la nostra azione, con la questione dei tempi di una maturazione della situazione rivoluzionaria che non possono mai dipendere dalle ansie di chi intende avere un ruolo consapevole in questo processo. Il marxismo si è dimostrato come la manifestazione storica più evoluta e coerente, più adeguata agli sviluppi globali del capitalismo, di questa dimensione della soggettività rivoluzionaria. È necessario sforzarsi costantemente di riportare con i piedi per terra gli eventi, i fatti che ci vengono inevitabilmente veicolati dalla multiforme e prevalente rielaborazione ideologica borghese. Ricondurli ad una lettura più esatta possibile delle forze in azione, dei loro rapporti, dei possibili margini del loro agire, delle condizioni di fondo su cui prendono forma gli sviluppi concreti di una situazione sociale e politica.

L’economia del Niger, secondo i dati riportati nel marzo di quest’anno dalla Banca Mondiale, avrebbe dovuto proseguire in una fase di sostenuta crescita, avviata nel 2022 e legata in gran parte allo sviluppo della produzione petrolifera. Ma il Paese rimane tra i più poveri al mondo. Con un territorio pari a oltre quattro volte l’Italia, ha una popolazione (giovane e in forte crescita) di circa 25 milioni di abitanti. Sempre secondo la Banca Mondiale, il 40% del suo Pil è costituito dall’agricoltura e oltre 10 milioni di abitanti (41,8% della popolazione) vive in condizioni di estrema povertà. Secondo i dati del World Factbook Cia, la popolazione urbana rappresenta il 17,1% del totale (in Italia risulta il 72%). Nel 2019 i bambini di età inferiore ai 5 anni sottopeso risultavano il 31,3%. Secondo i dati della Banca Mondiale citati dal quotidiano online il Post (8 agosto), la quota della popolazione che ha accesso all’elettricità non arriva al 20%. Una voce importante dell’economia è costituita dal settore minerario, in particolare l’estrazione di uranio, ma la bilancia commerciale è sistematicamente in passivo anche a causa della difficoltà delle comunicazioni e dei trasporti: il Paese, privo di accesso al mare, è – riporta ancora il Post – privo di ferrovie e appena ¼ della rete stradale risulta asfaltato e percorribile in ogni periodo dell’anno. Secondo il The New York Times (international edition, 7 agosto), il Niger fornisce circa il 10% delle forniture di uranio per le centrali nucleari della Francia. Il gruppo francese Orano, è stato accusato di aver contaminato l’ambiente circostante le miniere. Marco Montanari (ex consigliere politico della missione UE EUCAP Sahel Niger, incaricata di formare le forze di polizia locali) ha fornito su il manifesto (edizione online, 29 luglio) un quadro ancora più impietoso delle condizioni dell’economia nigerina: «L’economia del Niger, all’epoca della mia permanenza il più povero paese del mondo, è costituita dal traffico di droga e migranti, dagli aiuti internazionali e da un rimasuglio di economia legale soffocato dall’euro. Già, perché il succedaneo del franco Cfa è pur sempre agganciato alla nostra moneta: nemmeno l’Italia riesce a gestirne la sopravvalutazione, figuriamoci il Niger. Il paese, così, perde l’unico, triste vantaggio competitivo che potrebbe vantare, il basso “costo” dei propri lavoratori. I nigerini, peraltro, non emigrano: troppo poveri per poterlo prendere in considerazione. Ci sarebbe il settore minerario – uranio e oro, essenzialmente – ma il primo è gestito dal monopolista francese Orano (ex Areva), che ha i propri aeroporti e costituisce uno Stato nello Stato, e il secondo è attività di banditi, come e peggio del Klondike».

In base alla ricostruzione del New York Times, uno dei pochi aspetti che appaiono definiti e avvalorati nella situazione politica fluida e instabile della regione sono le pressioni che stanno minacciando l’influenza di Parigi in quella che è tradizionalmente definita come Françafrique. I recenti colpi di Stato nell’Africa occidentale non sembrano poter colpire a fondo i rapporti commerciali della Francia nel continente, che si imperniano su Egitto, Nigeria e Sudafrica, lo sfruttamento delle risorse energetiche da parte di compagnie francesi si irradia ancora attraverso l’Africa, milioni di abitanti della parte occidentale del continente si collegano ancora ai canali francesi della televisione satellitare, ma le aziende francesi della telefonia mobile sono ormai sottoposte alla concorrenza di start-up americane, banche africane stanno rimpiazzando quelle francesi, aziende di costruzioni turche e cinesi si aggiudicano contratti un tempo appannaggio di imprese transalpine. Le aziende francesi hanno perso la loro posizione di monopolio in Africa occidentale. Secondo una fonte riportata dal quotidiano newyorkese, la Francia rappresentava nel 2000 il 10% del commercio internazionale dell’Africa, da allora questa quota è scesa al di sotto del 5%. Diverse migliaia di truppe straniere si sono insediate in Niger, tra cui 1.100 soldati statunitensi, 1.500 francesi e contingenti minori di altri Paesi (tra cui l’Italia). La Francia ha già dovuto ritirare le truppe da Mali e Burkina Faso – oggi indicati dalla stampa internazionale come vicini alla Russia – e, nota il New York Times, se Parigi dovesse spostare le proprie truppe dal Niger, il Ciad rimarrebbe l’unico Paese del Sahel in cui sia nota la presenza di una base francese. Il colpo di Stato in Nigeria ha diviso i Paesi della regione, quelli che sono tuttora appartenenti a pieno titolo alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas), tra cui figura la Nigeria che potrebbe essere considerata sotto diversi aspetti una potenza regionale, hanno varato sanzioni volte a indebolire la giunta e minacciato un intervento armato, mentre Burkina Faso e Mali si sono schierati a difesa dei nuovi governanti nigerini. I servizi di intelligence di questi due Paesi, secondo The Wall Street Journal (Internazionale, 18/24 agosto), avrebbero concordato una posizione comune all’ombra del vertice Russia-Africa a San Pietroburgo il 27 luglio. Che la suddivisione tra regimi democratici e golpisti nella zona sia in genere più una demarcazione di facciata, e ben infarcita di ipocrisia, lo dimostrano non solo i legami di prossimità politica se non addirittura famigliare, sicuramente in termini di condizioni di privilegio, tra governanti detronizzati e nuove autorità. Ma anche la continuità di pratiche di potere che non viene disturbata dall’avvicendarsi di poteri eletti o golpisti. Secondo l’ex consigliere politico della missione europea in Niger, giunto nel Paese nel 2015, a controllare i traffici di migranti e il loro lucroso taglieggiamento sarebbe stata la famiglia del deposto presidente, proprietaria della linea di autobus che trasporta queste vittime dell’imperialismo e dei suoi tirapiedi locali in territorio nigerino. Il golpe a Niamey sarebbe maturato, secondo diverse fonti, anche da un complesso intreccio di divisioni etniche, di spartizione di cariche e di piani di riorganizzazione delle forze armate, con annessa redistribuzione dei fondi internazionali. Secondo il Wall Street Journal, gli Stati Uniti hanno speso oltre 500 milioni di dollari per l’armamento e l’equipaggiamento dell’esercito nigerino (e Washington ha evitato di ricorrere al termine “colpo di Stato” per sfuggire alle limitazioni che, in casi definiti esplicitamente in questo modo, la legislazione americana impone alla prosecuzione del finanziamento delle forze armate dei Paesi interessati). I nuovi governanti nigerini sono stati definiti dalla rivista Nigrizia «una casta golpista, pasciuta da una dozzina di anni di security assistance occidentale» (edizione online, 30 agosto).

Il nuovo capo della giunta militare che ha preso il potere in Gabon (spodestando una dinastia famigliare che, sostenuta dalla Francia, aveva monopolizzato il potere), ultimo golpe ad oggi in ordine di tempo prodottosi nell’area dell’ex Africa coloniale francese (ma questa volta al di fuori del Sahel), avrebbe, secondo le ricostruzioni apparse sui siti di Rai News, dell’agenzia Agi e dell’emittente pubblica francese RFI, legami con la famiglia del presidente deposto e un patrimonio milionario investito in immobili negli Stati Uniti. Occorre molta attenzione, occorre riflettere bene su ciò che si può apprendere di affidabile e credibile circa questi sviluppi politici e le condizioni sociali su cui si basano, prima di benedirli come oggettivamente progressivi e intestarli alla prospettiva rivoluzionaria. Il ricambio tra varie leadership locali, tra élite avvezze a ritagliarsi lucrosi margini di potere nelle pieghe del gioco imperialistico, nella negoziazione subalterna rispetto alle varie centrali impegnate in questo confronto, tende a servirsi di una base di massa. La distanza ci consente e insieme ci obbliga alla ponderazione, alla lucidità, non ci autorizza a giocare al profeta guerriero sulla pelle dei proletari e sottoproletari africani.

Le soggettività politiche che hanno in sé oggettive connessioni con l’esperienza della lotta proletaria nelle realtà di più antico sviluppo capitalistico, con il complesso divenire della scuola marxista in un percorso che ha coinvolto generazioni di militanti nelle tensioni e nei conflitti della maturazione imperialistica, hanno una responsabilità storica. Hanno una responsabilità nei confronti delle masse proletarie delle realtà sociali a più giovane sviluppo capitalistico, delle popolazioni sfruttate in realtà che hanno conosciuto il passaggio al mondo capitalistico nella subordinazione, nella dominazione del vincolo dell’imperialismo. Raffigurare l’assunzione di questa responsabilità come manifestazione di presunzione eurocentrica, di incapacità di comprendere la ricchezza della lotta sociale oltre gli steccati di schemi prodotti dall’assolutizzazione di un’appartenenza “occidentale”, significa in realtà abbandonarsi ad una infida e comoda deresponsabilizzazione (quando addirittura non si ricorre a questa rappresentazione come espressione di un paternalismo stimolato da un irrisolto senso di colpa in realtà ignaro delle differenti responsabilità delle varie classi del capitalismo “occidentale”). Troppo comodo ergersi ad araldi della nuova ondata rivoluzionaria, delle nuove e poderose forme di contestazione dei legami imperialistici, salvo poi, esaurita la fiammata ideologica e mediatica degli apparati di informazione borghesi, dimenticarsi di queste realtà, dimenticarsi dell’esigenza di trarre un bilancio di quelle veementi profezie (con annesse scomuniche per gli infedeli che non si fossero uniti prontamente alla crociata a distanza di sicurezza) alla prova degli sviluppi storici. Uno dei tanti, tristi, esempi di questa deresponsabilizzazione spacciata per autonomia e spregiudicatezza di pensiero, di questo autoassolutorio eclettismo raffigurato come superiore stadio e più coerente applicazione di una concezione autenticamente dialettica, di questa subordinazione di fatto ai parametri e ai miti dell’ideologia borghese presentata come massima espressione di una vocazione rivoluzionaria definitivamente emancipatasi dalle scorie e dai condizionamenti della classe dominante, è stato l’Afghanistan. Salutato nell’estate 2021 come teatro di una fantasiosa vittoria sul campo militare delle milizie talebane contro le forze armate dell’imperialismo statunitense, come emblema del rovinoso crollo della potenza americana e come snodo decisivo di una ripresa della spinta a incrinare l’assetto imperialistico globale, è poi puntualmente scomparso dai radar di quelle stesse entità politiche che avevano celebrato la grandiosa avanzata di forze antimperialistiche. Un’avanzata di cui solo l’ottusa e “occidentalista” ’interpretazione offerta da un marxismo scolastico aveva sentito il bisogno di comprendere la reale portata e l’effettivo significato alla luce di nessi e condizionamenti rispetto ad una più vasta dinamica di potenze e di andamenti economici e politici, in ragione dell’esigenza di una ricognizione dei presupposti materiali di gerarchie e determinazioni. Sono passati più di due anni dalla presunta sconfitta militare americana per mano talebana, punta di lancia dell’antimperialismo contemporaneo, fattore di ripresa di una dinamicità sovvertitrice degli equilibri imperialistici e i problemi, gli sviluppi, le contraddizioni di quello spazio che doveva costituire il crocevia di enormi processi di ridefinizione dei rapporti di forza globali hanno evidentemente perso ogni rilevanza. Quali mosse stanno intraprendendo gli odierni governanti afghani? Quali nessi si sono stabiliti o rafforzati con potenze alternative o avverse all’egemonia statunitense? Quali trasformazioni e cambiamenti sta attraversando la società afghana? In che condizioni versano le sue classi subalterne e che ruolo stanno assumendo nell’insieme dei rapporti sociali e politici in Afghanistan? Per quanto riguarda quegli stessi ambiti che avevano stabilito come verità di fede la centralità antimperialista dell’Afghanistan, si potrebbe rispondere leopardianamente: «Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e più di lor non si ragiona».

Questo non è un atteggiamento serio e realmente costruttivo per minoranze rivoluzionarie insediate nelle metropoli imperialistiche e che intendano fornire un apporto utile, umile e reale ad esperienze di lotta e di organizzazione della nostra classe in altre realtà della condizione imperialistica globale.

I colpi di Stato che stanno moltiplicandosi nell’Africa subsahariana, le élite sociali, in genere militari, che li stanno guidando possono assolvere un compito diverso da quello di tutelare interessi borghesi attraverso una negoziazione o uno spostamento interni agli assetti, alle dinamiche, alle logiche dell’imperialismo? L’appoggio di massa che questi golpe sembrano ottenere è qualcosa che può determinare un significato antimperialistico all’azione delle varie giunte, alla loro gestione del potere locale? O siamo di fronte a piazze mobilitate da forze sociali e politiche reazionarie, come è già successo in molteplici realtà nazionali, dal Brasile agli Stati Uniti? Senza contare che una delle grandi lezioni del Novecento, rapidamente e precocemente appresa da Lenin, è la maturazione delle possibilità sociali di un movimento reazionario di massa, dato che rende superficiale e fallace l’identificazione delle piazze piene e in subbuglio con una indiscutibile conferma del carattere progressivo del movimento di cui queste piazze sono parte. La risposta a queste domande così significative va cercata nello sforzo di analisi, nella verifica delle proprie ipotesi con i fatti in divenire, nell’impegno rigoroso ad applicare una lettura di classe fondata sul metodo marxista. Non può essere postulata come esito aprioristico volto a soddisfare i propri impazienti aneliti.

Continuiamo a pensare, e i fatti succedutisi nel corso degli anni – dall’Iraq all’Afghanistan, dalle “Primavere arabe” ai moti iraniani, dalle turbolenze del Sud Est Asiatico ai conflitti in Ucraina – ci hanno fornito abbondanti conferme, che le indubbie tensioni, le sempre più evidenti frizioni, le esplosive contraddizioni che stanno concentrandosi lungo le linee di faglia, i punti nevralgici dell’assetto imperialistico globale, pongano con forza e gravità all’analisi, alla riflessione e all’azione rivoluzionarie, la questione del nesso tra gli spazi, le condizioni, i tempi del maturare di una crisi capitalistica che possa diventare momento di accelerazione per la lotta e la crescita politica della classe operaia internazionale. Le dinamiche sociali di realtà capitalistiche magari in ascesa, in fase di rafforzamento rispetto alle loro passate condizioni, ma ancora lontane dal livello di maturazione imperialistica delle metropoli, ancora nettamente subordinate ai movimenti e all’interazione di queste potenze, possono diventare il fattore che innesca una crisi di tenuta dell’assetto imperialistico se nei suoi storici gangli, nelle sue metropoli, la lotta di classe del proletariato, unica classe rivoluzionaria, non si connette ad esse? Le aspirazioni e le oggettive spinte delle masse proletarie dell’Africa, dell’Asia centrale, o di altre aree connesse in maniera subordinata al gioco imperialistico, a mettere in discussione una condizione di sottomissione vissuta e percepita, potranno sfuggire oggi al destino di risultare funzionali a cambi di potere ai vertici nella continuità dell’appartenenza a più vasti processi imperialistici? Lo potranno fare senza il collegamento con una ripresa della lotta di classe nelle metropoli imperialistiche? È davvero ipotizzabile un procedere risolutivo della storia della lotta di classe rivoluzionaria che veda le centrali dell’imperialismo accerchiate e assediate da un moto che parte e si diffonde dalle periferie del quadro mondiale imperialistico (questo sono oggi, per quanto possano registrare elevati tassi di crescita economica e per una complessità di fattori che vanno oltre il mero andamento degli indicatori economici, realtà come il Niger, il Mali, il Gabon etc.)? Di questo continuiamo a dubitare fortemente. E l’azione della nostra classe o è autonoma o è funzionale all’azione di determinate componenti borghesi. Inneggiare all’azione di “popolo” senza averne messo in chiaro le linee di demarcazione attraverso gli interessi di classe differenti e divergenti in esso, significa solo accettare e veicolare ideologie borghesi, contribuire a consegnare il proletariato alla subordinazione. Ciò non toglie che queste mobilitazioni emergano da contraddizioni reali del quadro imperialistico e che forniscano al nostro processo di formazione come minoranze rivoluzionarie nelle metropoli imperialistiche elementi, motivi, materiale di ulteriore crescita, persino lezioni per raggiungere un maggiore, più preciso grado di consapevolezza e di maturità nella nostra militanza. Ma la tesi che da queste aree possa partire un moto internazionale capace di innescare una ripresa delle lotte di classe nelle metropoli o che possa scuotere gli essenziali equilibri imperialistici non può essere il frutto dell’ennesima profezia roboante, da lasciare scivolare nell’oblio o da ripescare per nuovi utilizzi a seconda del procedere degli eventi e del livello di copertura mediatica. Affermare che queste aree stiano conoscendo uno sviluppo capitalistico tale da poter sorreggere oggi un’azione borghese, nazionale, “indipendentista”, capace di rendersi autonoma e perseguire autonomamente i propri interessi all’interno del gioco imperialistico nel suo insieme, non può essere una verità che trova nel succedersi di golpe, al di là del loro effettivo, dimostrato, significato sociale, politico, storico, una sufficiente conferma. Deve essere il risultato di un serio, rigoroso, scrupoloso lavoro di analisi e di verifica, condotto con la più severa onestà intellettuale e militante. Nulla di meno dobbiamo alla mobilitazione, alla coraggiosa capacità di reazione dimostrata dalle vittime dell’imperialismo e soprattutto alle componenti proletarie che in questa mobilitazione stanno avanzando nel loro difficile e cruciale cammino di classe.

Da coalizioneoperaia.com

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