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Eric Hobsbawm

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(2 Ottobre 2012) Enzo Apicella
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LE SPINE DEL NAZIONALISMO E I FIORI DEL SOCIALISMO

Lettera aperta dell’Organizzazione Socialista Israeliana ai membri del Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina (1974)

(7 Dicembre 2023)

Da https://matzpen.org/english/1974-06-01/open-letter-to-the-members-of-the-democratic-popular-front-for-the-liberation-of-palestine/. Testo pubblicato in ebraico e arabo nel numero 72 di Matzpen, dicembre 1974. Ripubblicato nell’opuscolo in arabo Dalla nostra lotta contro il sionismo e per il socialismo, marzo 1978. Traduzione dall’inglese di Rostrum.

fiori del socialismo

Il 15 maggio 1974, tre miliziani del Fronte Democratico Popolare, che avevano attraversato il confine dal Libano, presero d’assalto un appartamento nella città israeliana di Ma’alot e spararono ai membri della famiglia che lo abitava. Presero poi in ostaggio decine di adolescenti israeliani, ragazzi e ragazze, in una scuola locale, dopo averne uccisi alcuni insieme al custode scolastico. I miliziani del Fronte chiesero il rilascio di alcuni prigionieri politici detenuti nelle carceri israeliane in cambio della liberazione degli ostaggi. Il governo israeliano decise di “non rispondere alle loro richieste” e l’IDF prese d’assalto l’edificio scolastico. Tutti i sequestratori furono uccisi nell’attacco, ma non prima che essi usassero le loro armi da fuoco e i loro esplosivi contro gli ostaggi.

I militanti dell’Organizzazione Socialista Israeliana (Matzpen) rivolsero una lettera aperta agli organizzatori dell’operazione di Ma’alot in cui criticarono amaramente i mezzi adottati dal FDPLP in quanto rivelatori di una politica in aperta contraddizione con i suoi dichiarati obiettivi “socialisti”. Non possiamo non convenire sul senso generale della critica degli internazionalisti israeliani di quasi cinquanta anni fa.

Le forme di lotta non possono essere valutate in astratto, né moralisticamente. Vaccinati contro l’infantilizzazione ideologica borghese che carica di significati “buoni” o “cattivi” (a seconda dell’interesse del momento) determinate tecniche militari e forme di lotta, i marxisti valutano la natura di classe degli schieramenti in campo e i reali rapporti di forza tra questi schieramenti; quali risultati producono certe forme di lotta; se questi risultati rispondono ad un obiettivo pianificato e, sulla base del rapporto tra questo obiettivo e la lotta di classe del proletariato, stabiliscono il proprio posizionamento.

Applicando questo metodo materialistico è possibile stabilire che l’operazione “ciclone Al-Aqsa” del 7 ottobre 2023 – così come quella di Ma’alot del 1974 – 1) non è la spontanea eruzione della violenza sociale di masse oppresse; 2) è stata attentamente pianificata fin nei dettagli ed eseguita da determinate organizzazioni politico-militari che non centralizzano un moto di massa e che 3) con la sua esecuzione si sono posti determinati obiettivi ed hanno ottenuto determinati risultati inseriti in un contesto concreto.

Dati i reali rapporti di forza tra Israele e Hamas questi risultati non potevano essere certamente l’ottenimento dell’autodeterminazione nazionale palestinese né, ovviamente, l’alleanza dei lavoratori arabi ed ebrei.

Nell’epoca attuale, l’oggettiva incapacità della borghesia palestinese di autonomizzarsi dal gioco delle diverse potenze imperialiste e da quello delle medie e piccole potenze regionali operanti in Medio Oriente rende la rivendicazione della “liberazione nazionale”, da parte delle espressioni politiche di questa borghesia, una farsa reazionaria recitata sulla pelle di decine di migliaia di proletari palestinesi, e le sue operazioni militari la messa in scena di questa farsa. Una messa in scena la cui ferocia – al di là delle sadiche efferatezze riportate dai canali di informazione borghesi, che possono essere con la stessa plausibilità sia vere che false – proprio nella sua capacità “spettacolare” di richiamare l’attenzione mondiale, rivela la pianificazione (non la spontaneità, come ha bisogno di credere e di far credere chi sostiene “incondizionatamente” la cosiddetta “resistenza” di Hamas per bassi calcoli di visibilità politica o per un’irrimediabile subalternità a princìpi e richiami ideologici borghesi) e denota l’estrema debolezza di una borghesia rachitica, un sottoprodotto dell’imperialismo che vive nelle pieghe di un’economia dipendente da Israele e dalle sovvenzioni internazionali, priva di interesse ad una vasta mobilitazione sociale, incapace di condurre una guerra di popolo su larga scala.

La base nazionale ed etnica dell’identificazione del “nemico” da colpire è un parametro della guerra borghese, non di quella di classe del proletariato, perché nel suo interclassismo colpisce prevalentemente la classe operaia – maggiormente diffusa nella popolazione e meno protetta –, perché approfondisce il solco della divisione nazionale e ricompatta le società in conflitto sotto il rispettivo dominio borghese. Anche il criterio secondo il quale il 7 ottobre sono stati catturati gli ostaggi è etnico e nazionale. Rientra pienamente nella logica della guerra borghese, dunque, che i proletari israeliani o i lavoratori stranieri siano presi in ostaggio (senza che la loro prigionia susciti particolari perplessità o richieste di liberazione da parte di certi “internazionalisti” presso i quali la questione nazionale ha dimostrato ancora una volta la sua priorità rispetto al principio secondo il quale chi tocca un proletario li tocca tutti): i primi rappresentano il “nemico nazionale” allo stesso modo dei funzionari, dei politici borghesi o dei militari israeliani – con la differenza che questi ultimi sono assai più difficili da catturare –, mentre i prigionieri stranieri richiamano l’attenzione dei Governi dei loro Paesi di provenienza. La violenza efferata è una pratica pianificata dalle borghesie deboli per disumanizzare le vittime nel campo avversario, infondere un senso di superiorità nei propri combattenti e di raccapriccio nei nemici, trattati come maiali da sgozzare. Dal canto loro, le borghesie più forti, come quella di Israele, disumanizzano i propri “nemici nazionali” sotto il peso impersonale dei bombardamenti indiscriminati su scala industriale, trattando i palestinesi come cimici da schiacciare, lasciando la crudeltà alla libera iniziativa – deresponsabilizzata e perlopiù impunita – degli individui.

Dopo poche settimane, gli pseudo-internazionalisti che inneggiavano entusiasti al massacro per la santa causa nazionale palestinese e che per poter sostenere in tutta coscienza la politica reazionaria di Hamas hanno bisogno di chiamarla “resistenza”, rivelano una certa ansia di negare recisamente le vere o presunte atrocità del 7 ottobre, scaricando tutta la ferocia esclusivamente nel campo israeliano e dimostrando in questo modo tutta la loro subalternità allo schema ideologico borghese “buono-cattivo” di cui si limitano a rovesciare i termini.

In passato, forme di lotta particolarmente brutali e a volte indiscriminate sono state impiegate anche nelle lotte di decolonizzazione, ad esempio in Vietnam, Algeria, Cina, Irlanda ecc., o, se vogliamo andare più indietro nel tempo, anche nel corso della Rivoluzione francese, nella rivoluzione antischiavista di Haiti del 1791 o nella rivolta di Nat Turner del 1831. Il marxismo ha riconosciuto a queste lotte un contenuto storicamente progressivo, ma non ha mai sentito il bisogno di negare, nascondere o nascondersi la disumanità di certe forme di lotta imposte da un contesto disumanizzante, nemmeno nel caso della rivoluzione proletaria. Chi è sinceramente convinto del significato della propria causa non ha bisogno di nascondere gli eccessi che possono essere commessi anche nel proprio campo, perché, da un punto di vista materialista, questi eccessi non muterebbero il significato della causa stessa. Sono coloro che percepiscono – senza ammetterlo nemmeno a sé stessi – che la pianificazione di determinate azioni qualifica innegabilmente come reazionaria borghese la causa che si ostinano ad appoggiare “incondizionatamente”, nella misura in cui si tratta di azioni che colpiscono fisicamente la nostra classe alimentando la sua divisione e che sono dunque in stridente contrasto con tante sbandierate pretese di “internazionalismo”, a sentire l’urgenza di togliersi dall’imbarazzo negandole a priori.

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Riteniamo nostro dovere politico rivolgerci a voi pubblicamente e dire la nostra sull’operazione dei vostri uomini a Ma’alot; un’operazione che, più di ogni altra precedentemente compiuta in Israele, nei Territori Occupati e nel mondo, ha suscitato numerosi commenti politici, sia per quanto riguarda il suo carattere che i suoi autori.

Perché?

Perché per circa cinque anni, dalla scissione del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, la vostra organizzazione è stata vista da molti come il fulcro di sinistra del movimento palestinese, come il polo in cui si concentrano le forze rivoluzionarie delle organizzazioni della resistenza.

Per questo motivo la vostra operazione ha suscitato reazioni tanto vivaci in Israele, sia tra i vari settori del campo sionista che tra le organizzazioni rivoluzionarie e l’opinione pubblica di sinistra. Non è un caso che Golda Meir, a capo proprio del governo che per anni ha espropriato, oppresso e massacrato i palestinesi, abbia reagito in modo diverso dal suo solito e non si sia accontentata dei suoi soliti epiteti, “assassini”, ecc., ma abbia aggiunto: «Questo è lo stesso Hawatmeh[1] che cerca di attirarci verso una convivenza tra ebrei e arabi». Lo ha fatto, a nostro avviso, per il timore, seppure celato, che le forze rivoluzionarie palestinesi possiedano un’arma estremamente pericolosa per il sionismo: l’alternativa internazionalista che i rivoluzionari palestinesi potrebbero presentare alle masse ebraiche israeliane; il programma socialista rivoluzionario che potrebbe unire le masse di entrambi i popoli: arabi palestinesi ed ebrei israeliani.

Il Primo Ministro israeliano ha fatto queste osservazioni poche ore dopo la carneficina di Ma’alot, in una trasmissione televisiva rivolta ad un pubblico di massa. Il suo volto era severo, come se quella carneficina fosse stata decretata da una inesorabile forza maggiore, come se lei non avesse nulla a che fare con questo evento, come se non fosse tra coloro che hanno condannato a morte le decine di vittime di Ma’alot. Ma sotto la sua maschera c’era la soddisfazione per il fatto che gli eventi di quel giorno rafforzavano la sua tesi fondamentale: «Gli arabi sono tutti uguali… vogliono tutti sterminarci…» ecc. ecc.

Dobbiamo essere sinceri: la vostra operazione a Ma’alot ha intensificato e approfondito l’inimicizia tra le masse dei due popoli e – come sappiamo bene dalla nostra esperienza quotidiana – è servita al sionismo. L’operazione a Ma’alot ha suscitato una forte opposizione e aspre critiche non soltanto da parte di membri della nostra organizzazione, ma anche di membri di altre organizzazioni rivoluzionarie. Possiamo anche attestare che la vostra operazione ha inferto un duro colpo a molti militanti di base nel campo della sinistra sionista. Gli eventi recenti – la Guerra d’Ottobre[2] e lo shock che l’ha seguita – li avevano condotti ad una migliore comprensione e ad una maggiore disponibilità a cercare alleati tra il popolo arabo palestinese. Erano pronti a prestare ascolto a diverse voci nel mondo arabo in generale e tra il popolo arabo palestinese in particolare, e alcuni di loro si stavano orientando verso posizioni rivoluzionarie, mostrandosi disposti ad abbandonare le posizioni sioniste. La vostra esistenza ha avuto un ruolo in questo sviluppo. Pertanto, sapere che la vostra organizzazione è responsabile dell’operazione a Ma’alot è stato per loro un sonoro schiaffo in faccia.

Ma non è tutto.

La storia della nostra epoca è ricca di esempi di eruzioni spontanee di masse oppresse, che si sollevano e uccidono i loro oppressori. L’operazione di Ma’alot non è di questo tipo. Non è stata spontanea. È stata pianificata e calcolata. Perciò non possiamo dire, come spesso fanno in molti, che questa è la logica della lotta e che le emozioni umane devono esserne tenute fuori. Nella vostra operazione di Ma’alot avete disatteso princìpi morali elementari[3]. Questa inosservanza non può nascondersi dietro l’affermazione – peraltro comune – che si tratta di princìpi borghesi. Non possiamo accettare questa affermazione, perché gli standard che si applicano allo scoppio spontaneo di una massa oppressa, o ai combattenti per la liberazione nazionale, non sono appropriati per dei combattenti che impugnano le armi in nome della rivoluzione socialista.

Ecco cosa avete detto nella vostra dichiarazione all’ambasciatore francese (Ha’olam Haze, n. 1917): «Non siamo assassini. Siamo soldati di un movimento di liberazione… Crediamo nel marxismo-leninismo e nel diritto all’autodeterminazione dei popoli nel loro Paese, ed è per questo che combattiamo…».

Dovete risolvere questa contraddizione, di fronte alle masse palestinesi e alle masse israeliane.

L’operazione a Ma’alot presenta un ulteriore aspetto. Gli abitanti di questa città sono per la maggior parte lavoratori poveri, tra i più sfruttati e oppressi della società israeliana; carne da macello della politica israeliana, essi non ne sono responsabili e non ne beneficiano. Per i residenti di Ma’alot la vostra operazione implica che il sionismo è il loro ultimo rifugio. Se il movimento palestinese non offre loro un’alternativa di vita senza sionismo, essi preferiranno sempre il sionismo, nonostante tutti i suoi pericoli e nonostante il pesante prezzo da pagare per esso. Preferiranno l'”unità nazionale” interclassista con i loro sfruttatori interni, se rimarranno senza un’alternativa di lotta comune e di convivenza tra ebrei e arabi.

Con la vostra operazione di Ma’alot avete tradito il compito che vi siete assunti: sviluppare questa alternativa e presentarla alle masse in Israele. L’intervista a Naif Hawatmeh[4], pubblicata su Yedioth Ahronoth, e l’operazione a Ma’alot si contraddicono chiaramente l’un l’altra. E come è noto, quando c’è una contraddizione tra parole e azione, la seconda annulla le prime. Ne prendiamo atto con rammarico, a prescindere dalle divergenze tra noi e l’intervistato, sorte prima dell’operazione di Ma’alot ma che non è il caso di approfondire in questa sede.

Sappiamo che, naturalmente, l’operazione di Ma’alot non è passata senza che nessuno la contestasse nella sinistra rivoluzionaria palestinese. Per questo motivo rendiamo pubblici alcuni dei nostri sentimenti, per incoraggiare e contribuire a promuovere un dibattito tra tutti i rivoluzionari della nostra regione, un dibattito che crediamo debba trascendere questa questione specifica e comprendere tutte le questioni teoriche, politiche, strategiche e tattiche che le forze rivoluzionarie del mondo arabo e di Israele devono affrontare.

Siamo ovviamente consapevoli di molti argomenti che verranno sollevati contro di noi, come lo stato attuale del movimento palestinese, sullo sfondo degli “accordi” attualmente in corso di elaborazione da parte delle grandi potenze e dei governi della regione; e il fatto che il campo rivoluzionario in Israele è piccolo e debole, incapace di incoraggiare lo sviluppo e l’avanzata delle forze rivoluzionarie internazionaliste nel mondo arabo.

Non abbiamo toccato queste questioni in questa sede; le affrontiamo in un altro documento, che sarà pubblicato anche sulla nostra rivista Matzpen. Le presenti righe sono state scritte per un solo scopo: chiarire pubblicamente e inequivocabilmente la nostra opinione che l’operazione Ma’alot danneggia la lotta rivoluzionaria e trasforma ogni buon terreno in un deserto arido, dove abbondano le spine del nazionalismo e appassiscono i fiori del socialismo.

L’Organizzazione Socialista Israeliana (Matzpen)


1° giugno 1974

NOTE

[1] Nayef Hawatmeh (Al-Salt, Giordania, 17 novembre 1935). Originario di una tribù beduina greco-ortodossa, nel 1954 frequenta il corso di studi superiori in Medicina al Cairo e aderisce al Movimento Nazionalista Arabo, di cui rappresenta l’ala sinistra. Obbligato a sospendere gli studi a causa di problemi economici, nel 1956 torna in Giordania dove diventa professore in una scuola cattolica. Condannato a morte in contumacia dal governo giordano per le sue attività politiche, nel 1958 si rifugia in Libano, poi in Iraq, dove per cinque anni dirige la branca locale del Movimento Nazionalista Arabo. Dopo la caduta di Abd al-Karim Qasim in Iraq, combatte i britannici in Yemen del Sud dal 1963 al 1967. Nel 1967 torna in Giordania, dopo aver beneficiato di un’amnistia e si unisce ai ranghi del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP). È fondatore e segretario generale del maoista Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP), creato nel 1969 in seguito a una scissione con il FPLP. Negli anni Settanta dirige violente operazioni contro civili israeliani, dirottamenti e azioni di fuoco. È il primo dirigente palestinese a sostenere la necessità della creazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato israeliano. Si è opposto agli accordi di Oslo del 1993, ma verso la fine degli anni Novanta ha assunto un atteggiamento meno oltranzista. Nel 2004 è stato per un breve periodo parte attiva nell’ambito di un tentativo non-governativo congiunto palestinese-israeliano per dar vita a un gruppo palestinese favorevole al progetto dei “due Stati”, e si è espresso a favore della cessazione delle ostilità nella cosiddetta Seconda Intifada.

[2] La Guerra del Kippur, combattuta dal 6 al 25 ottobre 1973 tra Israele e una coalizione araba composta principalmente da Egitto e Siria.

[3] I compagni dell’Organizzazione Socialista Israeliana cinquanta anni fa usarono il termine “immorale” per indicare il risultato di un’operazione che andava nella direzione opposta al socialismo, se, come affermava Lenin, può considerarsi morale ciò che favorisce e fa avanzare la rivoluzione del proletariato.

[4] A metà del 1974, Hawatmeh rivolse un appello alla sinistra israeliana, tramite un giornalista americano, invitandola ad avviare un dialogo tra le due parti. L’appello fu pubblicato all’epoca sul quotidiano israeliano Yediot Aharonot. Poco dopo è stata effettuata l’operazione Ma’alot.

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