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(4 Novembre 2009) Enzo Apicella
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Appello per la mobilitazione del 2 giugno

(10 Maggio 2006)

I bombardamenti, le torture, le migliaia e migliaia di civili morti in Iraq o Afganistan, sono solo un aspetto, tragico ed assurdo, del dispiegarsi della guerra permanente in ogni angolo del pianeta. E’ come se i fumi di morte che si levano dalle città occupate dagli eserciti, fossero arrivati a coprire ogni paese, quasi a disegnare un orizzonte, buio ed irrespirabile, per tutti. Che cosa lascia dietro di sé questa guerra, alla quale anche l’esercito italiano partecipa? Di sicuro i morti appunto, le tragedie, il vizio di misurare la qualità della vita con il prezzo dei barili di petrolio. Ma lascia anche, tra le macerie delle case distrutte in nome della democrazia dei carri armati, la certezza per ora che il piano dei neocolonizzatori globali, non ha funzionato.
Il “ritiro delle truppe”, che è stato da subito l’obiettivo dei movimenti che hanno cercato di opporsi alla guerra, non può diventare oggi la scusa per non riconoscere che in Iraq, la “cacciata delle truppe”, (incluse quelle italiane che fanno da scorta alle concessioni petrolifere dell’Eni a Nassiriya) è avvenuta ad opera di dinamiche di resistenza armata e sociale. Al di là di ogni “tifo” o denigrazione, questo è un dato di fatto. Ma continuare a battersi qui da noi per imporre che carabinieri, militari, mercenari nostrani se ne vadano da ogni paese occupato, Afganistan compreso, a meno che non si creda bufala del “peacekeping” con i mitra, non può nemmeno non farci vedere come la guerra stia condizionando ogni aspetto della nostra vita, stia militarizzando la società.
Le truppe verranno ritirate secondo quella che viene definita “exit strategy”, che tradotto significa che gli è andata male, ma noi come faremo a smettere di sentirci ripetere a sproposito di eroi con stellette, bara e tricolore? Per quanto ancora ci racconteranno che la nazione, il popolo, la patria, gli eserciti, i servizi segreti sono tutte cose di cui andare fieri? Quanto ancora durerà la definizione di “lavoratori” e per di più “della pace”, riferita a tutti coloro che per mestiere vengono pagati per fare la guerra, per ammazzare o farsi ammazzare a pagamento in giro per il mondo? Quanti altri aerei, bombe, soldati statunitensi o della NATO partiranno dalle basi militari installate nel nostro paese per andare a bombardare altri paesi?

Una volta che le truppe, cacciate, fossero ritirate, cosa resta? La più grande ondata retorica dal dopoguerra ad oggi che ha come oggetto un nazionalismo artificioso basato sull’esercito, sui corpi di polizia, sul controllo. E’ un caso che ormai fischiare un potente di turno in una manifestazione, oppure gridare uno slogan non gradito all’establishment, significhi scatenare la caccia al terrorista? E’ un caso che la mano pesante di polizia e magistratura nei confronti di comportamenti sociali considerati devianti, conflitti, vertenze, pratiche di autorganizzazione, ormai sia una costante? Se occupi le case sfitte vai sotto processo per associazione a delinquere, se fai l’autoriduzione in una mensa universitaria potresti trovarti accusato di eversione, se organizzi manifestazioni ti accusano di associazione sovversiva.

La militarizzazione della società è in atto e tocca tutti gli aspetti: da quello culturale e di pensiero, dove la critica non si può più esercitare liberamente (guai a mettere in dubbio il carattere bellicista della missione in Iraq o Afganistan) a quello legislativo ( dalla legge Fini-Giovanardi contro i consumatori di sostanze illegali, ai CPT con cui si è introdotta la detenzione amministrativa per motivi razziali ), da quello economico ( ormai le spese militari sono una voce che aumenta ogni anno nei bilanci dello stato, insieme alle spese per la “sicurezza”, ovvero polizia, carabinieri, telecamere, intercettazioni…) a quello informativo (con giornali e telegiornali praticamente arruolati nel diffondere veline che legittimano la guerra).

La guerra globale permanente è anche e soprattutto questo: una dinamica invasiva che mira ad ordinare, secondo dei precisi criteri di comando, la vita sociale. Dovremmo sentirci tutti militarizzati e arruolati, insomma, come dei militari in caserma. Ed è quest’ultimo un fenomeno realmente bipartisan che fa propria una retorica patriottarda e militarista, , nonostante tutti gli impegni assunti dal centrosinistra nella recente campagna elettorale..

Per questo pensiamo che il 2 Giugno, festa di una Repubblica nata dalla Resistenza e che “ripudia la guerra”, trasformata ormai in un giorno in cui saranno celebrate in pompa magna le glorie delle forze armate, in un giorno in cui fare la guerra sarà un attributo eroico ed un valore positivo, devono invece prendere voce con forza i disertori, quelli che non ci stanno a farsi arruolare.
Il 2 Giugno può essere una giornata di lotta contro la guerra per ciò che essa significa e cosa lascia dietro le cannonate. Può essere il giorno in cui migliaia di uomini e donne che si battono contro la guerra annunciano al nuovo governo che il 30 giugno il decreto di finanziamento delle missioni militari in Iraq, Afganistan, Balcani etc. non deve essere rinnovato. Può essere il momento in cui i palchi delle autorità – ieri di destra e oggi di “sinistra” - saranno pieni di “autorità” che parlano di pace salutando le sfilate di chi fa la guerra, vengano disturbati, contestati, osteggiati da chi crede che un’altra società è possibile.

Il 2 Giugno può essere l’occasione per combattere la militarizzazione della società, può essere e deve diventare un giorno di libertà contro la guerra.

Mentre in ogni città deve avviarsi da subito la discussione sulla mobilitazione per il 2 Giugno, proponiamo un incontro nazionale per sabato 20 maggio a Roma (ore 11.00 via Giolitti 231, va fianco della Stazione Termini) per discutere insieme le caratteristiche centrali e locali delle iniziative del 2 giugno.


per adesioni: cpiano@tiscali.it

Sabato 20 maggio incontro nazionale a roma (ore 11.00 Via giolitti 231)

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