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Il processo per i “fatti del 6 novembre”: un processo politico.

Intervista all’avvocato Marco Lucentini

(18 Ottobre 2006)

Il 6 novembre di due anni, una invasione del supermercato Panorama a Roma (zona Tiburtina) portava alla luce tutto il disagio sociale per il carovita. Centinaia di attivisti e sindacalisti bloccarono le casse per un'ora mentre una delegazione si incontrava con la direzione del supermercato per convincerla ad una politica di prezzi popolari. Il carovita esplodeva come questione urgente dell'agenda politica e sociale. Ma la magistratura e il governo Berlusconi hanno letto quell'iniziativa in modo completamente diverso spiccando decine di denunce per "rapina pluriaggravata" su cui il 18 ottobre si apre il processo al Tribunale di Roma. Radio Città Aperta di Roma ha intervistato su questo Marco Lucentini, uno degli avvocati del collegio di difesa degli imputati

Partiamo dalla situazione degli imputati. C’è stato un passaggio indicativo: il 23 marzo scorso la Cassazione ha respinto il ricorso contro la richiesta del Pubblico Ministero Vitello di applicazione di misure cautelari a carico di 15 attivisti (tra cui 5 arresti domiciliari e 10 obblighi di firma). Queste misure sarebbero state giustificate secondo il P.M. dalla pericolosità sociale degli attivisti in questione e dal rischio di reiterazione del reato. Qual è a questo punto la situazione di questi 15 attivisti e anche degli altri 90 accusati di rapina pluriaggravata?

Per quello che riguarda le persone che sono state attinte dalla misura cautelare che era stata richiesta dal P.M., dalla pronuncia della Cassazione del 23 marzo ad oggi sono intervenute delle modifiche sia pure parziali, nel senso che i militanti che erano stati sottoposti alla misura degli arresti domiciliari hanno usufruito della cosiddetta “sostituzione della misura”, e sono attualmente all’obbligo di firma, cioè devono recarsi tre volte a settimana presso un Commissariato di Polizia per firmare in quanto questa misura viene ritenuta idonea a contenere la loro presunta pericolosità sociale; gli altri, che erano già stati sottoposti originariamente alla misura dell’obbligo di firma, hanno vista ridotta la frequenza con la quale devono recarsi presso gli uffici di Polizia per questi controlli. Questi militanti insieme a tutti gli altri che sono inquisiti per rapina aggravata dovranno comparire il 18 ottobre davanti al Giudice per l’ udienza preliminare perché, in relazione ai fatti accaduti il 6 novembre del 2004 la Procura della Repubblica di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di 105 persone per concorso in rapina aggravata. Queste rapine si sarebbero verificate nella mattina presso il supermercato Panorama sulla Tiburtina e nel pomeriggio nel corso di una manifestazione che, secondo l’accusa, si sarebbe risolta poi in una “violenta sottrazione di libri” presso la libreria Feltrinelli.

Quel giorno, il 6 novembre 2004, si stavano portando avanti azioni dimostrative con carattere di denuncia sociale e politica; eppure sono stati presi provvedimenti penali quasi a depoliticizzare quelle iniziative per scopi repressivi. Possiamo parlare di un processo politico?

Sicuramente questa è una lettura criminalizzante di una vasta esperienza di lotte politico-sociali che individuavano in quella giornata, ma non solo, un terreno di propaganda e di azione diretta per la critica della precarietà e del carovita. L’iniziativa che fu svolta la mattina presso il supermercato Panorama fu in realtà un’iniziativa ampiamente pubblicizzata, nell’ambito della quale alcuni tra i manifestanti cercarono di contrattare con il direttore del supermercato una tariffazione sociale per beni di prima necessità. L’episodio del pomeriggio è ancora più chiaro in quanto alle sue finalità perché è un episodio che portò alcuni studenti universitari a dimostrare davanti alla libreria Feltrinelli per garantire il diritto al libero accesso, indipendentemente dalle condizioni di censo, alla cultura e a beni di primaria importanza come possono essere appunto libri e altri materiali utili nel processo formativo di studenti e non solo.

Ma qual’ è il confine previsto dalla giurisprudenza tra un reato di criminalità comune e invece un’azione dimostrativa di denuncia sociale?

E’ sicuramente il cosiddetto “elemento soggettivo”, cioè l’elemento psicologico, nel senso che dal punto di vista della dottrina e della giurisprudenza la rapina commessa per finalità cosiddette “comuni” deve essere caratterizzata dall’animo di chi compie quell’atto diretto a garantirsi un profitto ingiusto mediante un’azione violenta o minacciosa. E’ evidente che in questi casi, sia per quanto riguarda l’iniziativa di protesta nel supermercato Panorama che per quanto accaduto poi nel pomeriggio, questo animo non sussisteva. Il problema è che la Procura della Repubblica, che fino ad oggi ha trovato udienza anche al Tribunale della Libertà di Roma e successivamente, parzialmente, davanti alla Suprema Corte di Cassazione, estende l’ambito di applicabilità di questa norma attraverso il ricorso a una applicazione abnorme dell’istituto del concorso materiale e morale.

Possiamo parlare di uso distorto della giurisprudenza visto che anche per esempio l’ azione di occupazione di un’aula universitaria per fotocopiare libri gratis, oppure la temporanea occupazione di un cinema per denunciare l’alto costo dell’accesso alla cultura possono essere accusati come “estorsione”, “associazione a delinquere”, “rapina aggravata”, “devastazione”…non c’è un accanimento che, appunto, tradisce un uso distorto della giustizia?

C’è sicuramente un utilizzo per finalità estranee alla tutela della legalità delle fattispecie incriminatrici che in questo caso sono dirette quantomeno a mettere in chiaro il discorso che chi lotta, e lotta con finalità che sono evidentemente diverse dal sistema dei partiti e delle istituzioni, corre il rischio di andare incontro a processi con imputazioni piuttosto gravi.

Questo atteggiamento ha avuto inizio da un certo momento in poi? Possiamo per esempio fare riferimento a Napoli e Genova 2001…

Questo è un criterio di applicazione delle norme incriminatrici che sicuramente ha trovato nei processi che sono scaturiti dalle giornate di mobilitazione intorno al G8 del 2001 un elemento fortissimo di sperimentazione; basti ricordare che a Genova ancora oggi pende un processo con imputazioni molto gravi, come quella di “devastazione e saccheggio”, a carico di 23, se non ricordo male, militanti e attivisti individuati quali presunti autori di attività così rilevanti dal punto di vista penale. Parliamo di fattispecie incriminatrici che per esempio a Genova riguardano trattamenti sanzionatori che vanno da un minimo di 8 a un massimo di 15 anni di reclusione. A Roma addirittura è ancora superiore il carico sanzionatorio che deriverebbe da un’eventuale pronuncia di condanna perché la rapina aggravata, secondo l’art. 628 del Codice Penale, è punita con una pena che va da 4 anni e mezzo a 20 anni di reclusione.

Sono quindi pesantissime accuse che poi vanno anche a porre sotto una cortina di silenzio i contenuti di queste iniziative di lotta e di conflitto sociale.

Certamente. Il problema è che a fronte di un carico giudiziario che nel corso degli ultimi anni è aumentato in maniera esponenziale (basti considerare che sono pendenti, allo stato, un numero di procedimenti addirittura superiori a quelli che si verificarono in esito al cosiddetto “Biennio Rosso”, cioè al ciclo di lotte ’68-’69) ad oggi questo carico giudiziario non trova assolutamente una risposta di carattere politico per sottrarre le lotte militanti al ricatto dell’applicazione della sanzione penale. Il provvedimento d’indulto, che noi abbiamo utilizzato per esempio per giustificare la richiesta di revoca della misura cautelare a carico dei militanti che erano stati attinti dalla stessa misura per le lotte appunto del 6 novembre 2004, è semplicemente un palliativo perché il discorso sarebbe di ben altro spessore se fosse accolta l’indicazione, il tipo di dibattito che si sta sviluppando nell’ambito delle reti di movimento, tra giuristi comunque impegnati anche nella difesa di questi militanti, in relazione alla depenalizzazione di alcune fattispecie di reato e al riconoscimento di alcune “esimenti”, cioè di cause di giustificazione che sottraggano le lotte e gli episodi collegati alle lotte all’applicazione della sanzione penale.

Sanzioni penali che non possono non portare a un clima anche di allarme politico-sociale, per cui -punisco chi ha portato avanti una serie di iniziative, e metto in guardia anche chi ha l’intenzione di organizzarne di nuove-…

Certo, questi sono processi che hanno un chiaro contenuto di deterrenza, quindi sono processi attraverso i quali si realizza un passaggio di pressione nei confronti di settori, forze sociali, forze politiche più o meno organizzate, con cui si mette un paletto oltre il quale scatta la minaccia dell’applicazione della sanzione penale.

Possiamo parlare, per usare termini giuridici, quasi di “uso della giustizia a scopo intimidatorio”?

Possiamo parlare di un uso della giustizia che presenta in questa situazione dei profili di grande allarme sociale, perché in una condizione in cui comunque, a prescindere dalla lettura inquisitoria che viene proposta dai diversi uffici della Procura di Roma e di altre città, vi sono episodi, lotte che si sviluppano e si articolano, queste sono soggette al ricatto dell’applicazione della sanzione penale.

Non so se sa che in occasione dell’apertura del processo, mercoledì 18 ottobre, ci sarà anche una manifestazione a Piazzale Clodio…

Credo che sia un segnale necessario in questa situazione.

intervista raccolta da Mila Pernice

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