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25 Aprile

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(23 Aprile 2009) Enzo Apicella
Il libro di Domenico Losurdo "Stalin.. storia e critica di una leggenda nera" scatena la polemica all'interno del Prc

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Contro il revisionismo, nel segno dell’Altra Resistenza.

(9 Febbraio 2007)

Giorno dopo giorno, i media usano ogni pretesto per riscrivere la storia del ‘900, concentrandosi in modo particolare sul fascismo e sugli eventi che hanno portato alla sua caduta. Così, il dibattito sulla esecuzione di Saddam Hussein ne ha richiamato un altro su quella di Mussolini, ormai condannata come azione arbitraria dei partigiani. Ma l’ondata revisionista arriva sin nelle scuole, dove diventa normale che a parlare degli anni ’70 e dello stragismo, vengano chiamati dei noti neofascisti. Non mancano le risposte a questo stato di cose, ma spesso – anche quando sono portate avanti da settori di movimento – risultano inadeguate, perché troppo legate a letture della storia convenzionali, come quella dell’ANPI. Dal canto nostro, riteniamo utile – per arrivare a definire un’alternativa al verbo dominante – ripercorrere il più importante dibattito degli ultimi mesi, quello svoltosi attorno La grande bugia di Giampaolo Pansa. Come è noto, l’uscita di questo libro ha ottenuto uno spazio senza precedenti sia sulla carta stampata che nei salotti televisivi .

Non c’è da stupirsi: negli ultimi anni le ricostruzioni storiche del noto giornalista hanno sempre catalizzato una vasta attenzione. Considerando il responso fornito dalle librerie, si può dire che, rispetto alle vicende più tormentate del nostro paese, le verità scritte da Pansa trionfano. A cosa è dovuto tanto successo? In parte è attribuibile proprio all’enorme campagna pubblicitaria che, puntualmente, accompagna l’uscita dei suoi lavori. Nel caso de La grande bugia, poi, anche questa volta non è mancata la contrapposizione con Giorgio Bocca. Il comandante della Decima Divisione di Giustizia e Libertà ha finito col rappresentare il rivale più acerrimo del collega dell’Espresso, in un confronto che, lungi dal suscitare seri approfondimenti sul tema, ha prodotto un incremento delle vendite di entrambi.

Ma non siamo solo di fronte ad una gigantesca operazione commerciale. I libri di Pansa sembrano cadere in un momento assai proficuo per chiunque voglia cimentarsi con il revisionismo storico, ora più che mai propiziato da una serie di circostanze favorevoli.

Negli ultimi anni è stata la pagina culturale del Corriere della Sera a proporre il superamento del discorso antifascista come valore cardine della “nostra” democrazia, attraverso la penna di editorialisti come Galli della Loggia o Mieli. Il modo in cui questi ultimi si occupano di certi problemi ne fa i campioni di quello che Habermas definì “uso pubblico della storia”, ovvero di quel processo di “travaso” del dibattito storico in ambienti diversi da quello costituito dai soli “addetti ai lavori” che porta ad un ruolo sempre più accentuato dei media nella costruzione del senso comune storico. Soprattutto in Italia, questo fenomeno il più delle volte è accompagnato dal tentativo di piegare la storia ad una spendibilità politica immediata, magari in assenza di ricerche a sostegno di questa o quella ricostruzione. Si assiste così al trionfo di una riduzione della storia a versioni sempre più semplificate. Un approccio che si adatta alla perfezione ad un pubblico di lettori/fruitori mediatici poco preoccupato di accertare la fondatezza di ciò che legge, specie se a garantirla vi è quella sorta di “legittimazione” ufficiale rappresentata dai palinsesti televisivi. E' per questa via che passano indisturbate vere e proprie falsificazioni che investono temi rilevanti per la storia del nostro paese. Sotto questo profilo, l’ultima fatica di Pansa può essere valutata come il definitivo affondo del revisionismo sulla storia della Resistenza, l’ultimo atto di un percorso avviato da molti anni e che ormai sembra essere giunto a compimento.

Fino a poco tempo fa, un argine al revisionismo era rappresentato da Ciampi, il cui mandato presidenziale è stato caratterizzato dalla volontà di mantenere alla Resistenza il valore di mito fondativo della Repubblica, in una visione, di matrice azionista, che fa della pagina ’43 – ’45 quella più prossima al completamento degli ideali mazziniano/garibaldini. Si tratta di una lettura che sacrifica i contenuti più innovativi della Resistenza sull’altare di quel discorso sull’unità nazionale che risulta tanto in voga nel contesto odierno, segnato dall’aumento dell’impegno militare dell’Italia nel mondo. Un’interpretazione che rimuove il “sovversivismo” sempre presente nella storia del nostro paese dal ’43 – ’45 in poi, perseguendo due obiettivi. In primo luogo, in questo modo la Resistenza è messa al riparo dalle più dure accuse che le vengono rivolte. In secondo luogo, si fa di essa e dei suoi valori, opportunamente selezionati, una possibile fonte d’ispirazione per l’Italia finalmente pacificata che i media auspicano.

Il quadro politico attuale, invece, pare favorire l’ultimo affondo dei revisionisti: sul Colle è salito Napolitano che durante il suo discorso di insediamento ha accennato pesantemente alle cosiddette “zone d’ombra della Resistenza, mentre D’Alema è stato tra i primi a rilanciare il dibattito sulla esecuzione di Mussolini, un atto che non ha esitato a definire “inaccettabile”. Lo spazio politico/culturale a sostegno delle tesi revisioniste, dunque, si è ulteriormente allargato e Pansa ne ha preso atto, chiudendo il suo ultimo libro con un elogio a Napolitano. Ma i motivi per cui si è arrivati sin qui, e quindi anche le ragioni per le quali non si è riusciti ad imporre un discorso alternativo a quello oggi dominante, sono da ricercare nel lungo dibattito avviatosi dopo la liberazione. Da subito, infatti, la storia della Resistenza è stata usata da tutte le componenti politiche in funzione auto-legittimante, sebbene in forme diverse da partito a partito.

Tutte le formazioni politiche che costituivano il CLN e che daranno vita all’Assemblea Costituente si sono identificate, a loro modo, con la Resistenza, fornendo di essa un quadro assolutamente unitario, poco fedele al suo effettivo svolgimento, ma sulla cui base i partiti trovarono legittimità per governare. D’altra parte, proprio grazie allo slancio resistenziale l’Italia riuscì ad apparire sulla scena internazionale con un’immagine più accettabile. La Resistenza - ed è un punto su cui insiste ad esempio Giorgio Bocca - fu necessaria, dopo la pagina nera del fascismo per ridare credibilità al paese, dimostrando che era capace di governarsi da sé. Da essa, dunque, trassero spunto sia la DC che il PCI. La Democrazia Cristiana la declinò in chiave militar-patriottica, riuscendo peraltro nella brillante operazione di far dimenticare la grave compromissione cattolica col regime fascista.

Il partito di Togliatti, rivendicando per propri fini il ruolo della classe operaia nel processo di liberazione, fece dell’unità antifascista il presupposto di ogni azione politica, il che da una parte giustificò una visione edulcorata della lotta partigiana, mondata dalle sue istanze di classe più genuine ed equiparata ad un Secondo Risorgimento, dall’altra implicò la ricerca dell’accordo con la DC ad ogni costo, sino all’estromissione dal governo, avvenuta nel giugno 1947.

Alla rottura dell’unità antifascista seguì una fase in cui all’interpretazione della Resistenza unicamente intesa come Secondo Risorgimento si affiancò una pluralità di voci. Venne riconosciuto il fatto che le promesse di quella stagione erano ormai rifluite senza alcun successo e che il nuovo Stato edificato non era così diverso da quello precedente. Si affermò la lettura della “Resistenza tradita”, anche in settori di quel PCI che continuò ad imputare a De Gasperi ed ai suoi la colpa di aver rotto il patto unitario.

La storiografia di sinistra continuò comunque ad accostarsi al fenomeno resistenziale con un impianto idealistico, tutt’altro che corrispondente alle diverse spinte che lo attraversarono, tra cui quelle di chi combatteva oltre il tedesco invasore anche i fascisti, nonché la classe imprenditoriale che del fascismo si era servita per oltre vent’anni. Un esempio in tal senso è costituito dalla Storia della Resistenza Italiana di Roberto Battaglia, pubblicata nel 1953, in cui non vi è il minimo cenno alle formazioni partigiane autonome dal PCI e dal suo programma sancito a Salerno, come Bandiera Rossa. Una storia dunque privata del suo “lato cattivo”, in cui addirittura si ometteva l’esistenza di una formazione che aveva un forte radicamento nel proletariato delle borgate romane.

Con l’avvento del centro sinistra negli anni ’60, la categoria di Secondo Risorgimento ebbe la definitiva consacrazione: quella della liberazione nazionale divenne l’unica chiave interpretativa, suggellata dalle celebrazioni ufficiali in cui i partigiani sfilavano con le coccarde tricolori. La categoria della guerra civile venne da allora in poi bandita a sinistra e considerata appannaggio esclusivo della destra fascista e dei suoi storici. Si pensi alla tesi di Giorgio Pisanò, secondo cui i comunisti avrebbero insanguinato il paese avviandolo alla guerra civile: essa costituisce, peraltro, la fonte principale del lavoro di Pansa, ma nessuno oggi sembra ricordarselo.

Quanto detto sopra, richiama alla necessità di superare definitivamente la lettura agiografica della Resistenza affermatasi nel dopoguerra. Da questo punto di vista, ci si può riallacciare, almeno in parte, al modo in cui la generazione del ’68 recuperò il “lato rosso” della lotta partigiana. Ma senza enfasi, nella consapevolezza dei problemi. E’ vero, proprio quella generazione dovette constatare cosa fosse in realtà la Repubblica nata dalla Resistenza, dove le stesse riforme sociali si erano dovute scontrare con un profondo conservatorismo. Ma se quei giovani seppero rompere con i cerimoniali cari all’ANPI, la loro lettura del ’43-’45 rimase in parte ancorata alla categoria del tradimento.

Ora, è evidente che il “moralismo” non poteva aiutare a capire cosa era accaduto dopo la Liberazione. In favore della conservazione, avevano giocato forze potentissime, quelle del “capitalista collettivo”, a tutela dei gangli vitali della macchina statale. Sono diversi i canali attraverso cui lo Stato ha garantito la continuità dei suoi apparati, che hanno varcato in modo indolore le diverse fasi, da quella liberale alla Repubblica, passando per il fascismo. La continuità dello Stato italiano, mentre da un punto di vista istituzionale, venne perpetuata attraverso i governi del Sud e il compromesso sulla luogotenenza (con il mantenimento formale del Regno in attesa di risolvere la questione istituzionale), fu preservata al livello degli apparati anzitutto attraverso la Repubblica Sociale Italiana, che attinse al tessuto amministrativo tradizionale e ai suoi funzionari, considerati successivamente “leali servitori dello stato”, e per questo non intaccati dal processo di epurazione intentato dopo. D’altra parte, da un punto di vista giuridico, venne riconosciuta l’efficacia di alcune norme emanate dalla stessa RSI, e ciò ebbe ripercussioni in sede giudiziaria, rispetto alle sanzioni che la magistratura applicherà nei confronti del fascismo stesso. Come scrive Claudio Pavone “la RSI impedì che gli italiani, dopo lo sconquasso seguito all’armistizio, vivessero fino in fondo l’esperienza rinnovatrice dell’assenza di poteri costituiti, che non fossero quelli troppo palesemente odiosi e provvisori dell’occupante tedesco” (C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato).

In questo senso, l’amministrazione, venne considerata essenzialmente “neutra”, cioè come organo meramente tecnico, tale da poter risultare utile anche nella fase successiva al 25 aprile, senza procedere nemmeno all’allontanamento di quanti si erano compromessi col fascismo. Il significato di queste decisioni fu molteplice. Mentre lo scontro monarchia/repubblica assorbiva l’attenzione della popolazione, la restaurazione degli apparati si compiva sotto gli occhi delle forze di sinistra, che rimasero inerti. E se degli atti burocratici “qualcuno doveva pur occuparsene”, punire coloro i quali svolsero questo doveroso compito si dimostrò praticamente impossibile. La stessa magistratura non venne minimamente toccata dall’epurazione, e quando questa dovette giudicare a sua volta, prevalse l’indulgenza. Risultarono impuniti non solo personaggi di piccolo cabotaggio, ma anche alti gerarchi responsabili delle peggiori efferatezze. In più, nel breve volgere di qualche tempo, gli stessi personaggi iniziarono ad occupare incarichi di responsabilità sotto il “nuovo corso”: nel 1960 si calcola che 62 dei 64 prefetti in servizio erano stati funzionari durante il fascismo, mentre lo erano stati tutti i 135 questori e i loro 139 vice (P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi). L’amnistia del giugno 1946, emanata dall’allora guardasigilli Togliatti diede il colpo di spugna definitivo all’epurazione dei fascisti. Come se non bastasse, l’adesione all’esercito della RSI, le cui attività furono essenzialmente di repressione dei partigiani e dei civili, non costituì reato in base ad una sentenza della Cassazione del 1946, mentre una sentenza del 1954 emessa dal Tribunale supremo militare riconobbe ai “combattenti della RSI” lo status di belligeranti, contrariamente a quanto accadde per i partigiani che non portavano “segni distintivi riconoscibili a distanza”.

In un simile contesto, segnato da una parte dalla volontà di cambiamento espressa da chi il fascismo lo aveva subito per un ventennio sulla sua pelle, e dall’altra dall’efficacia del disegno restauratore, non deve meravigliare se in alcune zone quella “resa dei conti” attesa da anni nei confronti dei fascisti e di qualche padrone colluso, avvenne comunque. Il cosiddetto “triangolo della morte”, che racchiude l’area tra Castelfranco, Manzolino e Piumazzo in Emilia, è balzato agli onori delle cronache proprio a seguito degli “scoop” revisionisti. Ma pochi si sono ricordati del fatto che proprio in quella zona imperversarono, negli anni ’20, le squadracce fasciste, portando morte e distruzione al soldo degli agrari, il cui unico scopo era sbarazzarsi del pericolo “rosso”.

Ciò per dire che stabilire quello che accadde va bene, a patto però di non attardarsi nel martirologio di qualche repubblichino o di qualche padrone doppiogiochista, cogliendo invece l’espressione di un odio di classe covato due decenni e vissuto da molti nel segno di una sana aspirazione, quella di voltar pagina davvero. La Resistenza è stata vissuta anche come guerra di classe e non poteva essere che così, dato il ruolo del padronato italiano nell’avvento al potere di Mussolini. E non vi è certo bisogno di Pansa per sapere come sono andate alcune cose. Semmai la ricostruzione di quest’ultimo è foriera anzitutto di nuove falsificazioni. Si pensi al fatto che le istanze rivoluzionarie appartenute ad alcuni settori della Resistenza, restii a far propria la politica dei due tempi dettata dal PCI, nella ricostruzione del giornalista sembrano ascritte proprio al progetto del gruppo dirigente di quella forza politica, intento invece ad imbrigliarle.

Ma il punto è un altro: in definitiva, alcune “scomode” verità tirate in ballo da Pansa, sono tutt’altro che tali ai nostri occhi, e soprattutto già note. Risale al 1977 (fu pubblicato su Primo Maggio), il primo saggio di Cesare Bermani dedicato all’attività della Volante Rossa, struttura militare organizzata composta da attivisti di base della Resistenza, operante a Milano nell’immediato dopoguerra e decisa a contrastare l’assetto sociale che si andava nuovamente profilando. Quella che si potrebbe tracciare per quegli anni è la storia della risposta proletaria alla sensazione di aver perso un’occasione per cambiare veramente le cose. Ci si trovava di fronte ad una realtà che vedeva nuovamente i fascisti inseriti nella vita politica, pronti per essere riutilizzati in funzione antioperaia. Ora, non sorprende che tale lettura non venga accolta a livello ufficiale. Ma rimane sconfortante constatare che la revisione della storia in atto, nel suo tentativo di creare un senso comune ribaltato (ha ragione Angelo D’Orsi a parlare di “rovescismo”), riesca a far dimenticare i crimini commessi dai fascisti. Le brigate nere di Pavolini, per esempio, introdussero la pratica dell’esposizione dei corpi dei partigiani uccisi, lasciati penzolare per giorni dalle forche, dai lampioni, dagli alberi. Secondo lo storico Mario Isnenghi, tali atti erano funzionali al duplice obiettivo di rescindere il legame tra resistenti e popolazione civile e di auto-confermare una potenza che aveva bisogno di quelle visioni, in quanto l’autorità degli uccisori sui civili coincideva con la paura della morte (Mario Isnenghi, L’esposizione della morte, nel volume curato da G. Ranzato: Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea). Da questo punto di vista, ai fascisti di Salò, calzano male persino quei valori patriottici, già detestabili nella loro variante più democratica, coi quali oggi li si vorrebbe riabilitare.

Dunque le verità dei Pansa coincidono col totale rovesciamento della storia. Ma constatato questo, ancora non abbiamo colto il vero obiettivo di certi libri, la portata del pericolo che rappresentano.

E’ vero, negli ultimi anni, in molti, tra uomini politici e intellettuali, si sono soffermati su questi temi, ravvisando l’urgenza di una “riconciliazione nazionale” e spingendo al riconoscimento dell’onore delle armi ai repubblichini, fiancheggiatori degli occupanti e sconfitti dalla guerra di liberazione ma in fondo anch’essi combattenti per un ideale da salvaguardare, la patria. Le dichiarazioni di Violante alla Camera dei deputati risalgono ormai a 10 anni fa. Da allora, però, si è andati avanti: dalla ostentazione della pietas nei confronti dei repubblichini, si è passati ad altro. Nel febbraio 2005 Alleanza Nazionale ha presentato un ddl che punta al riconoscimento dello status di belligeranti per i reduci di Salò, sulla base della citata sentenza del 1954, provvedimento che ha ottenuto l’appoggio di liberali, ex-DC e socialisti del centro-destra. Si tratta di una proposta per il momento congelata, ma i tempi per una sua approvazione non sono così lontani. Il pieno di vendite ottenuto da Pansa è certamente un motivo in più a sostegno di questa esigenza, la cui portata è tutt’altro che relativa. La vera posta in gioco è rappresentata dal valore dell’antifascismo, che in molti reputano ormai superato. Non sono stati altri, secondo l’attuale vulgata, i grandi crimini del ‘900? Antinazismo e soprattutto anticomunismo sono i nuovi valori ispiratori della democrazia, raggruppati sotto l’etichetta di quel generico “antitotalitarismo” che è destinato a diventare il nuovo mito fondativo della Repubblica, peraltro assai debole perché non ancorato a nessuna esperienza collettiva delle masse di questo paese. In questo quadro, si creano le condizioni affinché famiglie politico-culturali estranee all’antifascismo si riconoscano nella Repubblica stessa. Perciò è radicale il mutamento di giudizio rispetto al ventennio, di cui si deplorano gli anni dello squadrismo incontrollato - prima cioè che Mussolini istituzionalizzasse le sue milizie - e quelli che seguono alla promulgazione delle leggi razziali del 1938. Tutto ciò che vi è in mezzo farebbe parte della storia di un fascismo autoritario ma sostanzialmente benevolo. Quindi si sorvola sulla politica colonialista in Africa: sui massacri e sui campi di concentramento in Libia, sull’impiego di gas tossici in Etiopia. Così come si dimenticano le nefandezze sul piano interno: dall’imbrigliamento del conflitto sociale attraverso il corporativismo, all’emarginazione proletaria attraverso la politica urbanistica, per non dire del confino per gli oppositori politici e per i “diversi” (omosessuali, zingari, testimoni di Geova), rigorosamente classificati, secondo un metodo che il nazismo trasformerà in scienza.

La storia che vogliono propinarci non è semplicemente inverosimile, non siamo di fronte a semplici falsificazioni che, una volta scovate si possono respingere come tali, risolvendo il problema.

Cosa si può fare allora? Anzitutto contrapporre a ciò la nostra memoria “di parte”; sottraendola all’oblio. Alcune delle spinte che hanno attraversato il ’43-’45 non sono mai state del tutto sopite. E la stessa categoria di guerra civile, utile a leggere la Resistenza non solo in quanto liberazione nazionale, può esserci d’aiuto pure nella comprensione di quasi 40 anni di lotta di classe, segnata dal fatto che le più radicali istanze di trasformazione sociale erano state accantonate nel definire l’assetto e i valori della Repubblica. Una specificità italiana, questa, della quale ancor oggi occorre “fare la storia”, affinché i soggetti sociali subalterni possano riappropriarsene, in una rielaborazione autonoma.

Ma per andare in questa direzione occorre essere chiari fino in fondo. Intanto va precisato che alla partita tra i Pansa e i Bocca non partecipiamo. Si tratta di uno scontro attorno al mito fondativo della Repubblica, che non può che essere vinto, in questo contesto, da chi propone di abbandonare l’antifascismo. Il nostro punto di vista continua a coincidere con quello di chi nella Repubblica italiana non si è mai pienamente riconosciuto. In tal senso, riteniamo impropria anche l’idea del tradimento della Resistenza. Il problema è un altro: non c’è stata una sola Resistenza. C’è stata la lotta partigiana di Carlo Azeglio Ciampi che – prima Governatore di Bankitalia e poi Presidente della Repubblica – ha avuto modo di attuare direttamente la propria visione del mondo. Ma c’è stata pure la Resistenza di Augusta Farvo, partigiana anarchica delle Brigate Bruzzi-Malatesta, che negli anni ’70 lottò per la liberazione di Pietro Valpreda. Noi non abbiamo dubbi su quale parte scegliere!
Non solo, riteniamo necessario sciogliere pure dei nodi attinenti al metodo storiografico ed ai luoghi di produzione del sapere storico. S’è detto che l’ultimo libro di Pansa, nel polemizzare contro le “bugie” della sinistra sulla Resistenza, puntando semplicemente a far diventare senso comune le tesi revisioniste, è completamente privo di note a piè di pagina. In questo modo risulta impossibile verificarne le fonti e farne un uso critico. Ora, ha ragione D’Orsi a polemizzare contro questo modo di fare, che si colloca al di fuori di ogni metodologia (e moralità) scientifica. Ciò va ribadito con forza, anche di fronte a discorsi come quello svolto da Edmondo Berselli, che ha peraltro adombrato una gelosia di D’Orsi nei confronti di Pansa. In un suo articolo apparentemente pensoso (Questa è tutta un’altra storia, L’Espresso 2 novembre 2006), dopo aver fatto finta di valutare i pro e i contro della tendenza dei media a riscrivere la storia, Berselli concludeva che bisogna rassegnarsi ad una presunta “selvaggia democrazia della cultura”. E’ evidente che il modo di fare storia in questione si adatta perfettamente ad uno dei campioni del generico culturalismo dominante sui settimanali italiani, dove si svolazza su questo o su quell’argomento senza sviscerare niente.

Ma, schierandoci , sul punto, con D’Orsi, non possiamo non intravedere il limite implicito nella sua impostazione. E cioè l’idea che i peccati di Pansa siano legati al suo non essere uno storico di professione. Per contrapporsi ad una “selvaggia democrazia” che in realtà non include punti di vista che non siano quelli dei settori sociali dominanti, va invece ribadito che il sapere storico non si produce solo nelle accademie. L’impegno nella ricerca e la serietà metodologica possono fondare un progetto che veda i soggetti sociali tornare a ridefinire un proprio punto di vista autonomo sulla storia del paese. Negli anni ’60 e ’70 vi sono stati diversi esempi di storiografia militante, che hanno ampliato gli orizzonti della ricerca storica, restituendo voce a chi non era considerato in narrazioni che contemplavano solo i grandi condottieri. Anche oggi, pur in un contesto culturalmente molto povero, non mancano esperienze di storiografia alternativa. Facciamo due esempi. Nell’aprile del 2006 a Roma, il Cesp ed il Comitato di Quartiere Alberone, hanno organizzato un convengo intitolato “L’altra resistenza”, concentrando l’attenzione su quelle formazioni che si esprimevano al di fuori del CLN e convogliando, in un progetto indipendente, anche energie provenienti dall’università. Nel nord Italia, Pagine Marxiste ha pubblicato interessanti ricerche sulla conflittualità nella provincia di Varese nell’immediato dopoguerra (con l’occhio rivolto a ciò che si muoveva al di fuori del PCI) e su diversi episodi della lotta di classe nell’Italia del ‘900. Si tratta di indicazioni di lavoro che vanno raccolte ed i cui risultati, intanto, debbono essere fatti conoscere a settori sempre più ampi di movimento. Così da fondare su basi nuove le future contestazioni ai Pansa di turno e da evitare che il prossimo 25 aprile si riduca ad un ennesimo, inutile rituale.

Corrispondenze Metropolitane – Collettivo di controinformazione e d’inchiesta

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