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Buon compleanno Marx

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(5 Maggio 2009) Enzo Apicella
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Livorno 1921: 90 anni fa nasceva il partito di classe

(21 Gennaio 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Quasi un secolo ci distanzia da questa grande svolta storica, e per quasi tutti questa distanza cronologica si è tradotta in distanza politica. Si guarda a questo evento con lo stesso animo con cui si pensa al risorgimento, cioè un percorso politico che riguarda esclusivamente il passato, una serie di avvenimenti da analizzare solo in sede storiografica. Eppure i lavoratori e i militanti hanno tutto da guadagnare a studiare la storia di un partito che fu definito dall’Internazionale “un modello di combattività marxista”.

Per la nostra generazione, quella che giunse alla vita politica 50 anni fa e oltre, il richiamo a Livorno era costante. Spesso in forma mitica, o anche mistificata, perché lo stalinismo tendeva a fare sparire persino i nomi di protagonisti scomodi come Bordiga, Repossi, Fortichiari... Erano comunque vivi ancora molti protagonisti, sia quelli che avevano accettato lo stalinismo di buon grado – ed erano i più – o l’avevano subito obtorto collo, sia quei pochi che erano rimasti fieramente sulle posizioni del 1921. Da questi ultimi cercavamo impazientemente di avere lumi, ma anche il miglior seme non fruttifica o cresce stentatamente quando le condizioni sono avverse. L’enorme patrimonio di esperienze di quelle generazioni rivoluzionarie non poté essere trasmesso integralmente alle generazioni successive, che perciò dovettero ripetere errori già in precedenza svelati, ricavare da testi e tesi conoscenze che non fu possibile trasmettere a viva voce, se non a pochi. Quando una grande generazione scompare senza riuscire a passare il testimone a quelle successive – è questa la vera Atlantide - ci troviamo di fronte ad un passo indietro politico gigantesco. Il socialismo, che sembrava a portata di mano all’inizio degli anni venti del novecento, era rimandato di almeno un secolo.

Se, sul piano tecnico, ovviamente le generazioni più recenti sono le più avanzate, sul piano politico le generazioni che nacquero dal 1870 al 1900 furono le più rivoluzionarie e moderne, ci dettero Lenin e Rosa Luxemburg, Trotsky e Bordiga, gli spartachisti, i bolscevichi e gli uomini di Livorno.

Perciò oggi non possiamo dire che gli eventi di quell’epoca non ci riguardano e che possono essere inviati con noncuranza all’archivio della storia. Nel caso del Partito Comunista d’Italia, la frattura tra comunisti e socialdemocratici avvenne in modo particolarmente netto, su posizioni che non potevano lasciare alcun dubbio.

Livorno non nasceva come un effimero fenomeno d’imitazione dei grandi eventi russi, ma era frutto di una lotta internazionalista comune, e di una comune aderenza alla tradizione marxista, di una coerente lotta antimilitarista. I comunisti non videro nel bolscevismo una dottrina specificamente russa, ma capirono che i bolscevichi stavano lottando per gli stessi scopi e gli stessi principi che avevano sempre improntato l’estrema sinistra in Italia. “Il Soviet” scriveva: “...il bolscevismo e il socialismo sono la stessa cosa ... per combattere il pregiudizio patriottico e il sofisma della difesa nazionale noi non abbiamo atteso che Lenin e i bolsceviki (sic), nostri compagni di fede e di tendenza da lunghi anni, riuscissero a trionfare in Russia ... Il bolscevismo vive in Italia, e non come articolo d’importazione, perché il socialismo vive ovunque vi sono sfruttati che tendono alla propria emancipazione”.(1) Non si trattava di una vanteria, in realtà, a partire dal 1911, una serie di eventi aveva creato le premesse per una frattura insanabile fra rivoluzionari e riformisti. L’avventura di Libia aveva affrettato la frattura col settore di destra nazionalista, con l’espulsione degli sciovinisti Bissolati, Podrecca, Cabrini e Bonomi. Lenin, a questo proposito scriveva: “Bissolati è giunto a difendere l’attuale guerra dell’Italia contro la Turchia, benché tutto il partito l’abbia recisamente condannata come una rapina spudorata compiuta dalla borghesia e come un vile massacro degli indigeni di africani a Tripoli, per mezzo di armi micidiali e perfezionate.”(2)

Alla cacciata dei bissolatiani seguì, nel congresso di Ancona del 1914, l’espulsione dei massoni. Se si pensa al peso della massoneria nella propaganda bellicista durante la guerra mondiale, si capisce di quale pericolo sciovinista si sia liberato il partito socialista.

Il ritardo dell’ingresso dell’Italia nella guerra mondiale diede ai socialisti italiani il tempo di riflettere. Videro che il macello imperialistico in un solo anno aveva provocato due milioni di morti, e, tranne pochi che seguirono Mussolini nello storico voltafaccia, il partito si mantenne nella pilatesca posizione del “né aderire né sabotare”. Questa fu la posizione ufficiale, ma l’estrema sinistra prese una posizione inequivocabile contro la guerra. Bordiga, Fortichiari, Repossi furono in primo piano. Bordiga, d’accordo con Misiano, presentò un ordine del giorno che fu pubblicato su “Il Socialista” di Napoli del 13 agosto 1914: “La sezione napoletana del Partito Socialista dinanzi al divampare della guerra in Europa; ritenendo che i lavoratori non hanno nessun interesse e nessun ideale da difendere sulle frontiere nazionali, qualunque sia la motivazione che della guerra dà l’astuta e ipocrita diplomazia borghese; e che la responsabilità del conflitto attuale risale in ugual misura alla borghesia di tutti i paesi, la quale si è lanciata da anni nella folle gara degli armamenti, e che dall’esaltazione del militarismo si fa un mezzo, oltre che per le cupidigie imperialistiche, anche per la sua difesa contro l’avanzare delle classi proletarie; mentre si augura che i lavoratori europei si ridestino dall’ubriacatura che oggi li lancia gli uni contro gli altri verso incalcolabili stragi, e si avvalgano delle armi impugnate per la difesa della causa del proletariato internazionale; fa voti che il Partito Socialista e le organizzazioni operaie osservino una direttiva di decisa opposizione a qualsiasi guerra e conservino alla propria azione il carattere di classe e di partito, qualunque sia la situazione prospettata dal governo borghese italiano dal punto di vista dei cosiddetti interessi nazionali,”(3)

Nel maggio 1917, apparve un manifesto, firmato dalla direzione del partito, dal gruppo parlamentare e dalla Confederazione del Lavoro, che prendeva spunto dall’intervento degli Stati Uniti per modificare l’atteggiamento tenuto fino ad allora nei confronti della guerra: “Al posto di due raggruppamenti imperialistici in contrasto, il britannico-russo e il tedesco, noi troviamo un’alleanza di stati dominati dallo spirito rinnovatore e democratico russo–americano, contro un’autocrazia indebolita e vuotata, cui dovrebbe bastare un urto interiore deciso per mandarla in frantumi”. Il militarismo - replica Bordiga al manifesto - “è un prodotto modernissimo del regime borghese capitalistico e si concilia con le più progredite democrazie come con la più sviluppata ossatura economica industriale…”. “Il paese rivelatosi meno adatto alla guerra, quello che per primo si è spezzato, è stata la Russia, a cui mancavano o difettavano tutte quelle condizioni che abbiamo accennate: tecnica industriale, economia capitalistica, democrazia politica. E lo stato che più freddamente ha calcolato le sue convenienze – quelle della sua classe capitalistica – nella neutralità prima e poi nella guerra, è stata proprio la democratica ed evoluta repubblica delle stelle.”(4) Bordiga smascherò l’ipocrisia del presidente Wilson, che prima parlava di pace mentre preparava la guerra, e in seguito, entrato nel conflitto, pretendeva di combattere per dare ad ogni popolo il diritto all’autodeterminazione, trovando consensi in molti socialisti, che vedevano nei messaggi di Wilson l’equivalente dei principi di Zimmerwald. Bordiga fu uno dei primi a cogliere il pericolo imperialistico rappresentato dalle enormi possibilità degli USA, e denunciò ancor più la minaccia, nel secondo dopoguerra, quando tutti inneggiavano ai “liberatori”.

Analoga lotta contro il wilsonismo conduceva Lenin, che pochi mesi prima aveva scritto: “C’è una specie di festa nel clan dei pacifisti. Gli ottimi borghesi dei paesi neutrali giubilano… E come non giubilare se “lo stesso” Wilson “parafrasa” le dichiarazioni del Partito socialista italiano, che, or ora, ha votato a Kienthal una risoluzione solenne e ufficiale sulla completa impotenza del socialpacifismo?”(5)

Dopo Caporetto, tutta l’ala sinistra del partito riuscì a impedire al gruppo parlamentare di portare la propria solidarietà patriottica al governo, il che avrebbe comportato l’invito, ai soldati che avevano gettato le armi, di riprenderle e di tornare a immolarsi per la propria borghesia.

In questa opposizione alla guerra la convergenza con i bolscevichi fu naturale. L’estrema sinistra socialista non era presente a Zimmerwald, eppure le sue posizioni erano assai più vicine a quelle di Lenin di quanto lo fossero quelle dei rappresentanti ufficiali del PSI. Questa vicinanza politica si tradusse in immediata identificazione. Pochi giorni prima della vittoria dell’Ottobre, Bordiga scriveva: “Mentre potrebbe sembrare che nella loro applicazione più rigorosa le linee del sistema marxistico male potessero applicarsi ad un paese ove ancora il capitalismo non aveva ancora compiuto la sua rivoluzione politica..., pure un forte partito socialista marxista – forse il più ortodosso del mondo – si formò in Russia negli ultimi decenni...” E nella stessa serie di articoli, pochi giorni dopo: “Finalmente il governo è rovesciato, ed il Soviet in cui gli estremisti sono divenuti l’enorme maggioranza assume il potere. Mentre scriviamo, fra la ridda di notizie contraddittorie e tendenziose che giungono a noi, si comprende che i socialisti lavorano all’attuazione di un programma dalle linee semplici e grandiose, quello stesso del Manifesto dei Comunisti – cioè la espropriazione dei privati detentori dei mezzi di produzione, mentre procedono logicamente e conseguentemente a liquidare la guerra”. (L’ultima colonna dell’articolo è imbiancata dalla censura).(6)

E’ qui chiarissima la posizione di Bordiga: Lenin è l’ortodosso degli ortodossi, colui che applica coerentemente alla lotta contro la guerra e alla Rivoluzione le teorie e la prassi politica del marxismo.

Pur con lo stesso entusiasmo, Gramsci ci offre un’interpretazione completamente diversa, che risente ancora della formazione idealistica. “La rivoluzione dei bolscevichi... è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua risposta, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione”. Gramsci non poteva conoscere la lettera di Marx a Vera Zazulic dell’8 marzo 1881, dove negava l’ineluttabilità dello sviluppo capitalistico in Russia. Ma la radice idealista del pensiero di Gramsci è esplicita: “Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato da in incrostazioni positivistiche e naturalistiche”.(7) Gramsci in seguito cambiò opinione, e, al congresso di Lione del 1926 , dichiarò: «Do atto alla Sinistra di aver finalmente acquisita e condivisa la sua tesi che l'aderire al comunismo marxista non importa solo aderire ad una dottrina economica e storica e ad una azione politica, ma comporta una visione ben definita, e distinta da tutte le altre, dell'intero sistema dell'universo anche materiale».

Livorno non nacque da una manovra decisa a Mosca – anche se l’Esecutivo dell’Internazionale esercitò una notevole influenza – ma dall’inconciliabilità tra tendenze che marciavano in direzioni opposte. Coesistere nello stesso partito voleva dire solo intralciarsi a vicenda. Il 1914 aveva diviso definitivamente le vie di socialdemocratici e comunisti.

I socialdemocratici italiani, che, più per particolari circostanze che per merito loro erano sfuggiti all’union sacrée, consideravano come centro della loro azione il parlamento, al quale affiancavano il lavoro nei sindacati e nelle cooperative. Per la maggior parte di loro, la politica estera era considerata secondaria. Il socialdemocratico tipico, e il più coerente, era Filippo Turati. Nel suo lavoro di parlamentare Turati era abilissimo, ma il suo sguardo raramente si dirigeva oltre i confini italiani. La sua incomprensione della politica estera era riconosciuta anche dalle persone più vicine a lui. In una lettera del marzo 1922, Anna Kuliscioff si rammaricava per il fatto che Turati non avesse accettato di far parte delle delegazione ufficiale alla conferenza di Genova, il che gli avrebbe permesso di conoscere la realtà delle rappresentanze internazionali: “... non mi sarebbe dispiaciuto che tu fossi un po’ uscito dal baraccone di Montecitorio ad osservare e conoscere il mondo politico più vasto e più serio, perché vi si debbono dibattere questioni di interesse mondiale”.(8)

Nel marzo del 1915, mentre la Kuliscioff cercava di spiegargli gli sviluppi della politica tedesca in oriente e le implicazioni politiche della ferrovia Amburgo–Bagdad, e dello scontro tra imperialismi in cui l’Italia sarebbe necessariamente entrata, Turati continuava a sostenere che il paese non sarebbe entrato in guerra, per paura delle rivolte.

Nei giorni successivi a Caporetto, Turati stilò un ordine del giorno in cui, ricordata l’avversità dei socialisti alla guerra, aggiungeva che, di fronte all’invasione avvenuta, in Italia c’era “il dovere impellente e indiscutibile di tutte le classi e di tutti i partiti – del partito socialista e del proletariato in prima linea: resistere con ogni forza all’invasione e strenuamente rintuzzarla”.(9)
Questa posizione, che rappresenta il più chiaro passaggio a posizioni social patriottiche, fu respinta dal partito. Tutta la sinistra insorse contro il gruppo parlamentare, la cui maggioranza voleva entrare in un gabinetto di difesa nazionale. Nel secondo dopoguerra Bordiga scriverà: “Durante l’ottobre e il novembre (la “rotta” famosa e il getto delle armi avvennero il 24 ottobre 1917) continuò nel partito questa vera colluttazione, che servì nel seguito a conferire un indebito merito ai nostri vacillanti destri per non essersi disonorati. Il fatto è che fummo tanto decisi e attivi, che essi non poterono liberarsi del loro...onore!”(10)

Tutto preso dal dramma nazionale, Turati, travisò il significato della rivoluzione russa, come risulta da questa valutazione assurda: “... vi è il krak (sic) di Pietrogrado colla deposizione di Kerensky, che potrebbe essere il principio della fine della rivoluzione. Salvoché avesse ragione Taverna che da certe lettere di amici di lassù... desume la ipotesi che la cosa sia un po’ concertata tra Kerensky e i massimalisti; visto che la Russia “non tiene più”, Kerensky lascerebbe volentieri il governo ai massimalisti perché facciano essi la pace, salvo riprendere il timone più tardi, basandosi sulle forze della Russia che non sono quelle limitate di Pietrogrado”.(11) (Il termine “massimalista” era ancora utilizzato per indicare i comunisti). Abituato agli accordi parlamentari, Turati vedeva persino nella rivoluzione d’ottobre il frutto di una manovra. Non era possibile che nello stesso partito coabitassero lui, i suoi seguaci, e coloro che vedevano in quella rivoluzione il primo passo verso la liberazione del proletariato.

Al congresso di Livorno, Turati espresse in pieno e senza infingimenti la fiducia nei metodi socialdemocratici: “La violenza è propria del capitalismo e delle minoranze che intendono imporsi e schiacciare le maggioranze, e non può essere il principio delle maggioranze che vogliono e possono, con le armi intellettuali, redimersi ed imporsi”. Ne derivava, quindi, che di fronte alla violenza fascista e statale, bisognava rispondere con “armi intellettuali”, e non passare dall’arma della critica alla critica delle armi, come sostenevano i comunisti, che avevano ben presente Marx. E Turati espose la sua illusione, la fede nel suffragio universale “…che vuol dire “siete i sovrani, i dominatori”, potete fare tutto quello che volete, senza versare una stilla di sangue umano, vostro o altrui, se con la violenza, che desta la reazione, non metterete il mondo intero contro di voi”. L’azione parlamentare dovrebbe essere “la più alta efflorescenza dell’azione comune di tutto il partito…”. Il marxismo, in realtà, ha sempre chiarito che l’ideologia dominante è quella della classe dominante, la borghesia ha mille modi di incanalare l’opinione pubblica, di manipolarla, attraverso il controllo dell’informazione e della scuola, il ricatto economico, la pressione dello stato, del clero. Esiste poi il passepartout della corruzione, che si può sviluppare nella maniera più aperta nella repubblica democratica.

Se l’ala dichiaratamente socialdemocratica esprimeva apertamente queste posizioni, le posizioni dei dirigenti massimalisti erano assai meno chiare, e ingannavano, non solo la base, ma anche se stessi. Questo risulta particolarmente dal discorso a Livorno del relatore della corrente unitaria, Adelchi Baratono. I massimalisti dichiaravano di accettare i 21 punti stabiliti dal II congresso dell’Internazionale, ma questo restava lettera morta, perché rifiutavano di espellere i riformisti: “La presenza e l’autorità che si dice avere nel partito socialista questa nostra destra non è una causa della mancata rivoluzione, ma ne è, se mai, un effetto; dimostra appunto che le condizioni d’Italia sono tali che questi destri sono ancor oggi compatibili, o erano ancora ieri compatibili nelle nostre file.” “ …non possiamo espellere una frazione intera, in quanto frazione; possiamo prendere provvedimenti individuali, in quanto possono essere persone che, perché alla destra, individualmente contravvengono alla disciplina del Partito”. Il grande tema della scelta politica, del programma, veniva derubricato, sostituito con una questione disciplinare. Turati, Treves e compagni erano uomini politici dignitosi ma inevitabilmente legati al gradualismo, al parlamentarismo, e s’illudevano di poter introdurre per gradi il socialismo attraverso una continua trattativa con i settori presunti progressisti della borghesia. In realtà, i massimalisti non volevano rompere con i riformisti perché questi ultimi avevano un peso preponderante nei sindacati, nelle cooperative, nelle amministrazioni comunali, nel gruppo parlamentare. Per Serrati, le amministrazioni comunali erano diventate più importanti della rivoluzione.

In apparenza, i massimalisti facevano proprie le indicazioni di Lenin e dei comunisti in generale, proclamando la prevalenza del partito sui sindacati. Baratono diceva: “…regoliamo il rapporto tra il Partito politico e l’organizzazione del lavoro in tal modo che d’ora in poi l’Organizzazione del lavoro sia subordinata, sia dipendente dal Partito socialista … Impadroniamoci dell’Organizzazione del lavoro, obblighiamo tutti gli organizzatori ad essere tesserati, e quindi ad essere disciplinati alle direttive del nostro Partito”. In realtà, così non veniva fatta alcuna selezione politica, e l’organizzatore non entrava nel partito perché ne condividesse il programma, ma perché costretto. Mentre prima l’influenza dei sindacalisti sul partito era prevalentemente indiretta, così diventava interna e diretta.

L’opportunismo nelle questioni organizzative, proprio come presso i menscevichi, si manifestava nella concezione larga del partito, aperto a tutti: “Ah, sì; apriamo le porte, allarghiamo le mura delle nostre sezioni e il Partito socialista meglio si unifichi con la massa lavoratrice… le nostre sezioni, in generale, non sono e non possono essere quel manipoli di scelti, di esaminati che vi entrino con una chiara coscienza politica, perché nelle nostre sezioni entrano tutti quelli che domandano di entrare…” Chi ha letto il “Che fare” e “un passo avanti e due indietro” di Lenin, sa che questo amorfismo organizzativo era la bestia nera che i bolscevichi combattevano.

Baratono riprese la vecchia geremiade dei riformisti sulla dittatura di una minoranza: “…se voi volete accaparrarvi il diritto ad una dittatura proletaria in Italia, nel senso di dare l’assoluto potere a una piccola minoranza, non poteste mantenere questo potere in Italia come in Russia… anche perché la psiche italiana è diversa da quella russa, anche perché noi non siamo orientali…” Fa sorridere l’inclusione dei russi tra gli orientali, e fa capire quanto assurda sia questa classificazione, che ammassa popoli diversissimi fra loro, cinesi e marocchini, indiani e giapponesi, afgani e vietnamiti, tibetani e filippini. Comunque, queste ridicole considerazioni avevano il solo scopo di sostenere che la situazione italiana era un caso a sé, non era possibile in Italia “un partito di selezione”, in altre parole un partito con un programma, principi, soluzioni tattiche precise. I riformisti italiani, secondo i massimalisti, erano diversi dai riformisti di oltreconfine, le ventun condizioni di ammissione potevano essere interpretate “all’italiana”.

Non si trattava solo di dichiarazioni. Nel periodo delle grandi lotte (moti contro il carovita, sciopero delle lancette, occupazione delle fabbriche), il partito aveva dimostrato la sua incapacità di dirigere le lotte, il suo essere, non alla testa, ma alla coda delle masse (codismo). In seguito, il suo legalitarismo impedì di dare una risposta reale alle aggressioni fasciste.

Al Congresso di Bologna (1919), persino Lenin, che aveva allora informazioni limitate sulla situazione italiana, credette che la vittoria dei massimalisti fosse un successo del comunismo. L’adesione alla III Internazionale, la sostituzione del vecchio programma del 1892, ispirato a quello di Erfurt, con un altro che prevedeva la conquista del potere con l’uso della violenza, la dichiarazione di voler condurre la campagna elettorale ai fini della propaganda dei principi comunisti, avevano convinto i bolscevichi che il PSI, pur con notevoli elementi di confusione, fosse nella sua maggioranza conquistabile al comunismo. L’arrivo di Serrati a Mosca, per il II congresso dell’Internazionale comunista, fu un trionfo, con gli applausi dei lavoratori nelle strade, e la nomina alla presidenza del Congresso. Ma, come nel Conclave chi entra papa esce cardinale, Serrati, in disaccordo sulla questione nazionale e coloniale, sui rapporti con i contadini e soprattutto, sull’espulsione dei riformisti, rivelò la sua lontananza dal bolscevismo. E anche il tono di Lenin cambiò. Ne “L’estremismo, malattia infantile del comunismo”, scrisse: “…il compagno Bordiga e la sua frazione hanno ragione nei loro attacchi a Turati e a coloro che la pensano come lui, i quali rimangono in un partito che ha riconosciuto il regime dei soviet e la dittatura del proletariato, restano membri del parlamento e seguono la loro vecchia e dannosissima politica opportunista… Il compagno Serrati ha evidentemente torto, quando (Comunismo, n.3), accusa il deputato Turati di “incoerenza”, mentre è incoerente il Partito socialista italiano, che tollera dei deputati opportunisti come Turati e compagni.”

Dal congresso di Bologna a quello di Livorno, la marcia verso destra fu evidente. Mentre nel primo caso avevano attinto più punti dal programma della sinistra, ora prendevano a piene mani argomenti propri dei riformisti, come la specificità della situazione italiana, il carattere “russo” del bolscevismo, ecc.

La terza corrente, quella comunista, aveva avuto un lungo periodo di gestazione. I primi a porre il problema della divisione dei riformisti furono i militanti della corrente del Soviet, guidata da Bordiga, e, come abbiamo visto, questa impostazione non derivava da uno scimmiottamento delle posizioni bolsceviche, ma era il risultato di una battaglia che continuava da anni.

Nell’articolo “Tendenze rivoluzionarie e possibilità rivoluzionarie” del 2 febbraio 1919 (Bordiga, Scritti, op. cit., vol.III) si legge: “Gli elementi evoluzionisti e riformisti del Partito pongono oggi la questione sul terreno equivoco su cui l’hanno sempre posto nel Maggio 1917 e dopo Caporetto: essi vogliono evitare la discussione di massima che condurrebbe alla loro incompatibilità col partito, mediante un’accorta pregiudiziale: oggi una rivoluzione politica in Italia non è possibile, dunque è inutile decidere se bisogna o no essere per l’azione rivoluzionaria, e bisogna continuare la pratica minimalista e riformista, non essendovi di meglio da fare. Alcuni dei massimalisti, sedotti dal luogo comune col quale si esalta la realtà e il realismo contro le elucubrazioni teoriche, accettano il gioco, e così il problema non viene mai risolto, e si rinnova e si ripresenta eternamente”. “Il metodo rivoluzionario, l’impiego di quella violenza che tanto fa raccapricciare i vari Zibordi (quando non è votata alla difesa della patria borghese) deve essere dichiarato una buona volta patrimonio del Partito; e chi non l’accetta deve andarsene.”

Nel Congresso di Bologna, la Sinistra, presentatasi col nome di Frazione Comunista Astensionista, nella mozione dichiarava l’incompatibilità della presenza dei riformisti nel partito. I militanti dell’Ordine Nuovo non erano ancora giunti a tale conclusione, appoggiavano la mozione massimalista. Luigi Cortesi nota che, ancora nell’agosto 1919, Gramsci sosteneva che “la sola modificazione da apportare nel prossimo congresso al programma del ‘92” fosse “la organizzazione per comitati di fabbrica, e non per mestieri”.(12) Le sconfitte dei lavoratori nelle lotte del 1919/20, rese possibili dall’incapacità del partito socialista di compiere un’azione di direzione rivoluzionaria anche solo difensiva, nonché le decisioni del II Congresso dell’Internazionale Comunista, convinceranno gli ordinovisti della necessità di scindere il vecchio partito: “Il partito deve acquistare una sua figura precisa e distinta, da partito parlamentare piccolo-borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l’avvenire della società comunista attraverso lo Stato operaio, un partito omogeneo, coeso, con una sua propria dottrina, una sua tattica, una disciplina rigida e implacabile. I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal partito e la Direzione, liberata dalla preoccupazione di conservare l’unità e l’equilibrio tra le diverse tendenze … deve rivolgere tutta la sua energia per organizzare le forze operaie sul piede di guerra.”(13)

Il Manifesto–programma della Frazione comunista del PSI fu elaborato a Milano, presenti Bordiga, Gramsci, Terracini, Repossi, Fortichiari, Polano per la maggioranza della Federazione giovanile, Bombacci e Misiano. Il solo gruppo che avesse un’organizzazione a livello nazionale era quello de “Il Soviet”. Repossi e Fortichiari avevano un forte seguito operaio sul piano locale, ed erano in contatto con Ljubarsky (pseudonimo Carlo Nicolini). Si stabilì di cambiare il nome del partito, di escludere tutti gli iscritti che dichiarassero contro il programma comunista, modificare gli statuti sulla base di criteri di omogeneità, centralizzazione e disciplina, completa disciplina d’azione verso i Congressi internazionali e nazionali. Partecipazioni alle elezioni, con lo scopo di svolgere propaganda e agitazione rivoluzionarie, e affrettare la disgregazione degli organi borghesi della democrazia rappresentativa.

Poiché Bologna stava subendo una grande offensiva fascista, il convegno nazionale della frazione comunista si tenne ad Imola il 28/29 novembre 1920, con la partecipazione di numerosi massimalisti di sinistra. Si chiarì che l’esclusione non doveva solo toccare i social sciovinisti, ma anche i socialdemocratici. L’esperienza delle sezioni estere dimostrava che i socialdemocratici, nel momento decisivo, si rivelavano complici della reazione borghese. La frazione del Soviet dichiarò che si sarebbe sciolta a Livorno.

A Livorno, a nome della Frazione comunista, Terracini fece un ultimo tentativo per convincere i massimalisti a non rompere con l’Internazionale Comunista: “Io sono convinto che se i compagni unitari accettando i 21 punti di Mosca in questa forma resteranno con noi, io sono convinto che nessuno più dei compagni comunisti ne avrà gioia…”

Bordiga, ai massimalisti che asserivano che le 21 condizioni erano troppo russe, rispondeva che proprio in Russia non servivano. Faceva notare, ad esempio, che l’azione illegale valeva solo per i paesi borghesi, mentre non aveva senso in Russia, dove vigeva la legalità socialista. Il parlamentarismo rivoluzionario valeva per l’occidente, visto che il Russia il parlamento non c’era più e c’erano i soviet. E più oltre osservava: “…nel nostro partito si era iniziata la lotta tra la sinistra marxista e l’insidia socialdemocratica, non in quella forma precisa in cui teoricamente il problema era stato posto nel seno del partito socialdemocratico russo, perché non avevamo avuto una situazione rivoluzionaria come quella del 1905 in Russia, ma si era iniziato il dibattito tra le due tendenze, si era iniziata la demolizione dell’insidia democratica, il disincrostamento di quella ideologia piccolo borghese che aveva addormentato il proletariato adagiandosi su quel meccanismo di attività elettorale e sindacale che era anche qui giunto all’apogeo” Le correnti di sinistra trionfarono nei congressi, cacciarono sciovinisti e massoni, dichiararono di tornare al marxismo rivoluzionario, ma non ebbero il tempo di tradurre tutto ciò in prassi quotidiana. Il partito fu sorpreso dalla guerra quando ancora aveva la vecchia struttura e il vecchio meccanismo, i vecchi metodi parlamentari e sindacali. Alla fine della guerra il partito inneggiò ai soviet, alla rivoluzione, alla Russia, ma il vecchio meccanismo continuava a girare.

“Se ieri intransigenza voleva dire buttar fuori chi voleva andare al Governo, il mettersi la feluca del regio servitore, oggi intransigenza vuol dire liberarsi di chiunque non comprende che la lotta deve essere contro le istituzioni politiche borghesi, che la lotta deve essere per la conquista integrale, rivoluzionaria del potere, da parte del proletariato, secondo le previsioni e la dottrina di Marx.”

La frattura era inevitabile. Se qualcuno desidera una controprova del fatto che il PSI era ormai perduto per la lotta di classe, eccola: il 3 agosto 1921, nel gabinetto del presidente della Camera, si firmò il patto di pacificazione con i fascisti. Firmatari furono Mussolini, De Vecchi, Giuriati, Rossi, Pasella, Polverelli, Sansanelli per i fascisti. Per i socialisti, Bacci, Zannerini, Musatti e Morgari. Per la Confederazione del lavoro, Baldesi, Galli e Caporali. Tale patto fu infranto dai fascisti a fine settembre. In un accordo locale, intercorso nel lodigiano il 23 settembre 1921 tra socialisti e fascisti, si concordava: “il rispetto ad ogni azione fascista ed obbligo di non pubblicare e non permettere frasi antipatriottiche e sovversive. Espulsione dalle leghe dei comunisti, scissione diretta delle responsabilità e obbligo di denunciare l’opera dei comunisti (citazione in “Comunismo, n.8, Ottobre 1981, gennaio 1982).

Questo vergognoso cedimento dimostra, forse meglio di ogni altro argomento, il livello di decadimento a cui era arrivato il PSI, e spiega perché Bordiga aveva usato a Livorno questa espressione così dura : “Noi rivendichiamo la nostra linea di principio, la nostra linea storica con quella sinistra marxista che nel Partito socialista italiano con onore, prima che altrove, seppe combattere i riformisti. Noi ci sentiamo eredi di quell’insegnamento che venne da uomini al cui fianco abbiamo compiuto i primi passi e che oggi non sono più con noi. Noi, se dovremo andarcene, vi porteremo via l’onore del vostro passato, o compagni!”

Michele Basso

21 gennaio 2011

Note

1) Amadeo Bordiga, “Il bolscevismo, pianta di ogni clima”, “Il Soviet”, anno II, n. 10, 23 febbraio 1919.

2) Lenin, Il Congresso dei socialisti italiani”, Pravda, 28(15) luglio 1912.

3) “I socialisti di Napoli e la guerra”, in “Amadeo Bordiga, Scritti 1911 -1926”, vol. II.
Il 16 agosto, apparve sull’Avanti un altro articolo di Bordiga, “Al nostro posto”, dove si diceva: “Corre vento di guerra all’Austria. La borghesia italiana la desidera, la incoraggia… Questa tendenza cova nell’ombra. Scoppierà nelle piazze se il governo vorrà fare la guerra contro i tedeschi, e forse assisteremo alle scene del settembre 1911, specie se ci faremo disorientare da sentimentalismi francofili…Il governo potrebbe sentirsi le mani libere, inventare una provocazione tedesca… Domani, sotto il peso dello stato d’assedio, noi vedremo spargere pel mondo l’altra menzogna ufficiale che anche in Italia non ci sono più partiti nell’unanimità guerrafondaia.”
Bruno Fortichiari scriveva, a dicembre, su “La Battaglia Socialista” di Milano, contro Mussolini e seguaci: “Raglieranno i nostri ex compagni, trasportati dalla furia dei rinnegati, raglieranno che la nostra opera è ispirata dall’oro tedesco, ci crocifiggeranno tedeschi d’Italia. Ma non fecero altrettanto i guerraioli, durante l’impresa di Libia, quando combattemmo la nostra lotta noncuranti delle false ondate di entusiasmo, dello scherno, delle diffamazioni dei pennivendoli?”
Luigi Cortesi riporta una dichiarazione, sul tradimento di Mussolini, di Repossi al Congresso di Roma del 1918 : “I militanti di base “avrebbero voluto cacciarlo a pedate, senza discutere” e solo per deferenza al segretario del partito si attese che la proposta di espulsione partisse da lui: “… quella sera costringemmo a piangere Mussolini, e migliaia di compagni gli sputarono in faccia e gli gridarono: traditore”.

4) Amadeo Bordiga, “ Nulla da rettificare”, 23 maggio 1917, In“Scritti 1911-1926”, vol. II, a cura di Luigi Gerosa.

5) Lenin, “Una svolta nella politica mondiale”, 31 gennaio 1917.

6) Amadeo Bordiga, “La rivoluzione russa nell’interpretazione socialista”, “Scritti” op. cit. vol. II.

7) Antonio Gramsci, “La rivoluzione contro il “Capitale”, Avanti, edizione milanese, 24 novembre 1917 e su “Il Grido del popolo”, 5 gennaio 1918.

8) Filippo Turati, Anna Kuliscioff, “Carteggio”, vol. V, 18/3/1922.

9) Ivi, vol. IV, 2 novembre 1917.

10) Storia della Sinistra Comunista, cap. 20 “Caporetto e la riunione di Firenze”.

11) Turati - Kuliscioff, op. cit., 9 novembre 1917.

12) Luigi Cortesi, le origini del PCI, cap. V “Nascita della Frazione Comunista Astensionista”.

13) Citato da Giorgio Galli, in “Storia del partito comunista italiano”, parte prima, cap.1, ”Confluenza di tendenze”.

- Altri testi o riviste utilizzati:

Resoconto stenografico del XVII Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano

Storia della Sinistra comunista, vol. I, II, III, IV.

Archivio della Sinistra in “Comunismo”, del Partito Comunista Internazionale.

2000 pagine di Gramsci, vol. I.

Michele Basso

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