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(estratto da «Il Lato Cattivo», Elementi di teoria del comunismo, n. 2)

(27 Giugno 2016)

(...) La mondializzazione del capitale è stata in primo luogo una ridefinizione delle aree di livellamento del saggio di profitto medio. In luogo dei monopoli fortemente ancorati ai relativi Stati-nazione, tipici del periodo «fordista», abbiamo oggi un doppio livellamento del saggio di profitto medio, che resta prevalentemente nazionale per le piccole e medie imprese, per le start-up etc., ed è invece mondiale per i grandi capitali dell'automobile, dell'informatica, del petrolio, e così via. Lo sganciamento di questi ultimi dalle realtà nazionali, ha da un lato dato impulso all'attacco al Welfare State post-bellico, e dall'altro condotto ad una destabilizzazione dello Stato-nazione (che non vuole assolutamente dire sparizione o declino irreversibile) – «dall'alto», tramite l'integrazione internazionale; «dal basso», mettendo in concorrenza crescenti porzioni delle diverse classi operaie «nazionali» sul mercato mondiale (delocalizzazioni, migrazioni di massa etc.). Sulla base di questi elementi, possiamo cogliere come stia mutando la logica della rappresentanza politica del proletariato e delle classi medie. Con l'imporsi della mondializzazione, abbiamo assistito da una parte alla sparizione dei grandi partiti di massa socialdemocratici e stalinisti d'Europa, dall'altra all'inizio del ciclo politico dell'altermondialismo, il quale ambiva ad esserne l'erede. In Italia, ad esempio, in concomitanza con la dissoluzione del PCI (1991), sono il movimento studentesco della Pantera (1990), unitamente allo sviluppo dei Centri Sociali e del sindacalismo di base (soprattutto i Cobas), a preparare la questione dello sbocco politico, della «alternativa globale al neo-liberismo». Con tutte le differenze e sfumature proprie di una nebulosa che predilige le maniere gentili del mondo associativo alla vecchia forma-partito, l'estrema sinistra parlamentare o extra-parlamentare che si definisce «altermondialista», voleva riportare in vita lo Stato sociale dei «Trenta gloriosi» («le conquiste sociali»), e allo stesso tempo spingere oltre i suoi limiti la de-nazionalizzazione «neo-liberista» dello Stato, promuovendo da un lato una ulteriore perdita di sovranità in favore di una governance transnazionale «dal basso», e dall'altro l'abbattimento di tutti gli ostacoli alla libera circolazione individuale. Un simile programma politico poteva avere una qualche attrattiva in corrispondenza dei punti alti del ciclo di accumulazione; ma si vede bene come l'ingresso in una fase recessiva metta in contraddizione il primo punto col secondo, lasciando i residui margini di rappresentanza politica degli strati della popolazione nazionale più duramente colpiti dalla crisi (frazioni «privilegiate» della classe operaia, settore parasubordinato, piccoli imprenditori, piccoli commercianti) in mano ai movimenti populisti e alla nuova destra sociale e/o movimentista che – anch'essi – vogliono restaurare lo Stato sociale dei «Trenta gloriosi» ma, molto più coerentemente, intendono anche ri-nazionalizzare lo Stato – ovvero ridargli sovranità di contro ai processi di integrazione europea e/o internazionale – e scoraggiare l'immigrazione, instaurando delle forme di preferenza nazionale il cui criterio di discriminazione non sarebbe necessariamente razziale o biologistico. (...)

Oggi, la situazione in Europa vede il vecchio ruolo del riformismo parlamentare essere sempre più spesso assolto da partiti e movimenti che rivendicano un «ricentramento» nazionale (ad esempio, i movimenti anti-euro o anti-UE), fungendo da controtendenza al diffuso astensionismo operaio; questo fatto non è di per sé in contraddizione con l'aumento constatabile delle lotte immediate sul salario e sulle condizioni di lavoro. Ci si può girare intorno finché si vuole, ma la ragione è in fin dei conti semplice: sul terreno del sistema rappresentativo, il solo interesse che i proletari possano oggi tradurre nel voto, è quello ad una protezione, orientata tanto ad ostacolare le delocalizzazioni, quanto a cercare di porre un freno alla concorrenza dei non occupati nei confronti degli occupati. (...) I sinistroidi che piacciono ormai solo alla classe media acculturata, sognano di poter manipolare a proprio piacimento le leggi del capitale: ripartizione delle ore di lavoro sull'insieme della forza-lavoro disponibile, livellamento dei salari, settimana lavorativa di 32 ore, tassa patrimoniale, blocco dei licenziamenti, reddito universale di cittadinanza etc. Populisti e destrorsi non sono generalmente meno velleitari, ma i loro programmi appaiono più realistici perché, tra le altre cose, non fanno astrazione da certi meccanismi necessari della riproduzione del capitale (concorrenza fra i lavoratori, disparità salariali etc.) e questo basta a garantire il loro successo. (...)


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«Il Lato Cattivo»

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