">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Imperialismo e guerra    (Visualizza la Mappa del sito )

Truppe USA

Truppe USA

(22 Ottobre 2011) Enzo Apicella

Tutte le vignette di Enzo Apicella

PRIMA PAGINA

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Il nuovo ordine mondiale è guerra)

Non sottovalutare il ruolo dell'Italia negli scenari della guerra globale

La relazione della Rete dei Comunisti al Forum del Patto contro la guerra su
"Gli scenari della guerra globale e il ruolo dell'Italia", Roma, 24 maggio

(28 Maggio 2008)

Il primo problema con cui dobbiamo fare i conti è la “ragione sociale” che è alla base della nostra alleanza e della nostra azione politica – il Patto contro la guerra – e la percezione politica e pubblica della questione che solleviamo: la guerra.

Il depotenziamento della guerra come categoria politica e morale
Il tentativo di occultare la guerra non è solo una responsabilità del sistema dei mass media. I mezzi di informazione non sono autonomi ma rispondono agli input che gli giungono dalla politica e dai poteri forti che ne sono gli azionisti di maggioranza. Prendersela con i mass media è una forma di auto consolazione che non ci aiuta a collocare la nostra azione al livello possibile (e ancora meno al livello che sarebbe necessario).

L’occultamento della guerra avviene ai livelli più alti della politica e della egemonia culturale. Cito due esempi.
“Il termine guerra, sotto il profilo giuridico, è diventato desueto ed è sostituito da quello più flessibile di conflitto armato” (tesi del prof. Natalino Ronzitti, docente della Luiss)
“Serve una nuova legge che regoli la partecipazione delle Forze Armate a missioni estere che non rientrano nell’ormai desueta categoria di “guerra”. (tesi di Giovanni Gasparini, responsabile di ricerca dell’Istituto Affari Internazionali). (1)

Queste tesi, sostenute da due autorevoli membri di quei think thank italiani legati alla NATO, al Ministero della Difesa e al Ministero degli esteri, sono indicativi del progetto di depotenziare la categoria della “guerra” come fattore che da un lato inquieta – giustamente – l’opinione pubblica riducendo i consensi ai governi “di guerra”e dall’altro pone una serie di questioni giuridiche e morali (vedi l’art.11 della Costituzione e il senso comune che intorno è stato costruito) che oggi si vuole rimuovere per poter partecipare apertamente e senza ostacoli a tutta la geometria variabile di operazioni militari previste dalla guerra preventiva.

Su questo terreno, la complicità bipartizan della politica è crescente. Oggi c’è il governo Berlusconi ma ieri con il governo Prodi non era diverso.
Alla fine del 2007, l’allora ministro della Difesa Parisi partecipò ad un seminario del Centro Alti Studi per la lotta al terrorismo e alla violenza politica. In questo seminario si è discusso della tesi della “4GW” (Four Generation Warfare) avanzato dallo storico militare dell’università di Gerusalemme Martin Van Cleveld. (2)
Questa analisi delle “guerre di quarta generazione” arrivava ad un paio di conclusioni per noi molto significative:
1) Se non si può più distinguere la pace dalla guerra che cosa esattamente si ripudia con l’art.11?
2) Affrontare le nuove minacce richiederà una sempre maggiore integrazione tra mondo civile e mondo militare perché cresce l’importanza del livello “morale” dello scontro.

Parlare dunque di lotta contro la guerra in una fase in cui “non si può più distinguere la pace dalla guerra” ed in cui il coinvolgimento degli apparati civili (vedi le Ong) e il livello “morale” del conflitto crescono e diventano decisivi, ci pone seri problemi di analisi, informazione e chiarezza politica sulla funzione e gli obiettivi di una coalizione di movimento come il Patto contro la guerra, che nella sua ragione sociale ha ripreso, fatto proprio e dichiarato quel “No alla guerra senza se e senza ma” che è entrato in collisione con quei settori della sinistra e del movimento pacifista niente affatto insensibili ai ragionamenti e alle categorie denunciate poco prima.

Dalla concertazione alla competizione. Nascono qui i pericoli di guerra

Una seconda riflessione riguarda un’altra tentazione storica dei movimenti contro la guerra: quello che potremmo definire la “sindrome della fotografia”. Una fotografia fissa una immagine, una fase storica ma non ha la capacità di indicare le tendenze che si mettono in moto dopo che la fotografia è stata scattata.
In questo senso, l’analisi della realtà internazionale non solo molto spesso è ferma ma non riesce a cogliere i mutamenti del processo storico. Se vogliamo fare degli esempi, la storia ci aiuta.
- Nel 1900, tutte le potenze imperialiste (esattamente le stesse che oggi fanno parte del G8) intervennero insieme e di comune accordo contro la Cina dove era scoppiata la rivolta dei boxer.
Italiani, giapponesi, statunitensi, russi, inglesi, tedeschi, francesi mandarono le loro truppe a reprimere la rivolta e a spartirsi le concessioni sul territorio della Cina( Porti, ferrovie, snodi commerciali etc.). Quattordici anni dopo, le stesse potenze si sono combattute mortalmente nelle trincee della Marna o della Marmolada e in tutta la rete coloniale in cui erano presenti (Africa., Asia etc.).La concertazione imperialista del 1900 era diventata guerra interimperialista solo quattordici anni dopo ponendo fine a quel processo di globalizzazione compiuto del pianeta iniziato nella seconda metà dell’Ottocento e che aveva raggiunto il suo apice proprio nella Belle Epoque del primo decennio del Novecento.
Nel 1940, mentre le truppe naziste sfondavano al nord la linea Maginot (la linea di difesa francese), tra le aziende elettriche francesi e tedesche si continuavano a scambiare elettricità e transazioni finanziarie. Non solo. Fino a tutto il 1941 le fabbriche della Ford e della General Motors in Germania hanno costruito camion e mezzi per la Wermacht tedesca. Solo dopo fortissime pressioni del governo USA chiusero – a malincuore perché i profitti erano elevatissimi – la produzione sul suolo tedesco. Dopo pochi mesi gli USA dichiaravano guerra alla Germania. Ciò conferma che è vero che il capitale non ha confini né nazionalità ma che gli Stati (e la politica) alla fine prevalgono anche sugli interessi dei singoli capitalisti.

Questi esempi ci servono per capire che il movimento contro la guerra non può limitarsi a fotografare il passato e l’esistente ma deve cercare di individuare le tendenze per collocare dentro ed eventualmente contro di esse la propria azione politica.

Oggi le contraddizioni che portano alla guerra sono evidenti e agiscono concretamente. Non si tratta solo delle guerra asimmetriche a cui abbiamo assistito in questi anni (l’Afghanistan, l’Iraq, la Jusoglsvia somigliano molto alla spedizione contro i Boxer in Cina), ma di una escalation della competizione a tutti i livelli – incluso quello militare – tra le varie potenze.

Se cogliamo dunque la tendenza in corso, non possiamo che partire dal dato della perdita di egemonia degli USA nei rapporti di forza internazionali , un dato questo che aveva caratterizzato tutto il dopoguerra e il dopo guerra fredda. L’egemonia si fonda su tre fattori: economica, culturale, militare. Ormai gli USA possono contare solo sul fattore militare che però ne modifica lo status dalla potenza egemonica a quello della supremazia (militare appunto). Sul piano economico e culturale gli USA stanno perdendo quote crescenti di egemonia e stanno lottando con tutti i mezzi (anche e soprattutto quello della guerra e dell’economia di guerra) per cercare di mantenerla.

Se questa tendenza è vera, stiamo assistendo ad un cambiamento epocale: il passaggio dalla concertazione tra le grandi potenze (assicurato e dominato dagli USA come primus inter pares) alla competizione globale tra le grandi potenze.
Questa situazione è dimostrata dalla evidente crisi di tutte le istituzioni internazionali che hanno retto questo squilibrio/equilibrio tra le maggiori potenze e ne hanno assicurato la concertazione sia nella guerra fredda contro l’Urss sia nella gestione della globalizzazione dagli anni Ottanta fino ai primi anni del XXI° Secolo. Oggi queste istituzioni – niente affatto autonome dagli Stati – sono in crisi. E’ in crisi la WTO, il FMI, la Banca Mondiale, l’ONU, la Commissione Trilateral e persino la NATO. Sono dunque in crisi la maggioranza dei vecchi bersagli contro cui i movimenti altermondialisti si sono accaniti per anni ritenendole i “nemici principali”, espressione di un capitale collettivo senza volto e senza Stati. Oggi non è più così. Le vecchie camere di compensazione tra gli interessi delle varie potenze non funzionano più sia per le contraddizioni interne sia per l’affermarsi di nuove potenze (Cina, India, Brasile, Russia etc.). Questo nuovo scenario impone o una rinegoziazione generale – malvista dagli USA perché ne ratificherebbe il declino – o la paralisi delle istituzioni della concertazione multilaterale. (3)

Infine, ma non certo per importanza, oggi stiamo vivendo ben quattro crisi strutturali in una sola.
- la crisi finanziaria dovuta ai buchi in bilancio delle banche
- la crisi monetaria dovuta alla modifica del rapporto di cambio tra euro e dollaro (se la Finmeccanica avesse acquisito la statunitense DRS cinque anni fa avrebbe speso 5,2 miliardi di euro invece di 3,4 miliardi di euro)
- la crisi energetica con il boom dei prezzi degli idrocarburi e la consapevolezza di aver raggiunto e superato il “picco” produttivo
- la crisi alimentare scatenata dall’introduzione degli agrocombustibili che hanno fatto schizzare i prezzi delle materie prime agricole

Queste ovviamente sono tendenze e dinamiche di una realtà internazionale in movimento di cui non è facile prevedere gli sbocchi. Possiamo solo essere certi di due cose: che la fotografia delle relazioni internazionali valida fino al 2000 è sbiadita e che sulla base della storia, le contraddizioni che abbiamo preso in esame hanno sempre portato ad una guerra di carattere globale. E’ un quadro inquietante, ma un Patto contro la guerra non può assumersi la responsabilità di denunciare e agire per impedire che la realtà in cui opera precipiti lungo il piano inclinato della storia.

Esiste o no un “imperialismo italiano”?
Se è vero che la fase storica sta cambiando, non si capisce perché la fotografia sbiadita della realtà internazionale dovrebbe invece rimanere identica quando si passa ad analizzare il ruolo della “Azienda Italia” nei rapporti internazionali e negli scenari della guerra globale.
L’aumento delle spese militari, la crescita di un complesso militare-industriale intorno a Finmeccanica, l’invio di contingenti militari negli scenari di crisi, sono solo alcuni degli effetti di un mutamento del ruolo dell’Italia dagli anni Novanta a oggi.

Da un punto di vista delle categorie classiche, l’Italia è un paese compiutamente imperialista. Lo è dal punto di vista economico, finanziario e dell’integrazione nel cuore di uno dei poli imperialisti come l’Europa. Il fatto che sia un sistema più debole rispetto a quelli più forti, non deve trarre in inganno né deve continuare ad alimentare il luogo comune degli “italiani brava gente”. L’Italia è stata una potenza coloniale come le altre e le atrocità e i saccheggi compiuti in Libia, in Africa orientale, nei Balcani non sono stati diversi da quelli compiuti da altre potenze.

Oggi, l’Italia oscilla tra la fedeltà/subalternità alle alleanze storiche come la NATO e l’Unione Europea (e che vede i governi che si succedono accentuare più o meno la fedeltà atlantica rispetto alle ambizioni autonome dell’Unione Europea) e la costruzione di una propria area di influenza e presenza economica e diplomatica.
Dalla metà degli anni Novanta, l’Italia ha partecipato ampiamente all’assalto verso l’Europa dell’Est con una gigantesca esportazione di capitali che ha superato ampiamente l’export di merci.
Con il primo Governo Prodi e Fassino sottosegretario agli Esteri, abbiamo visto definire nero su bianco l’ambizione dell’Italia a conquistarsi la sua fetta di bottino nei Balcani e nell’Europa dell’Est. (4)
Oggi in Romania ci sono 800.000 lavoratori rumeni alle dipendenze di 24.000 imprese italiane
La delocalizzazione produttiva è stata impetuosa anche in Albania dove l’Italia controlla anche la formazione delle forze di sicurezza e vorrebbe addirittura localizzare le centrali nucleari per la produzione di energia destinata all’Italia. Lo stesso meccanismo è avvenuto anche nel resto dei Balcani, mentre le grandi banche come Unicredit e Intesa-S.Paolo hanno fatto un notevolissimo shopping in tutta l’Europa l’Est. Lo stesso si può dire dell’Enel.
Due anni fa, a Forlì si tenne un convegno tra Confindustria e NATO organizzato dall’università, in cui i funzionari e i militari della NATO invitavano gli imprenditori a investire tranquillamente nei Balcani perché la presenza dei contingenti NATO assicurava il massimo di stabilità e garanzia per gli investimenti esteri.

Un discorso particolare merita poi il Maghreb dove l’Italia opera soprattutto nello spirito del neocolonialismo (conquista della forza lavoro più che delle risorse come avveniva per il colonialismo) e punta a conquistarsi un serbatoio di forza lavoro a buon mercato sia attraverso la delocalizzazione produttiva sia attraverso flussi migratori controllati. Su questo il ragionamento più organico è stato fatto proprio da Romano Prodi ed è alla base del grande interesse dell’Italia per il Mercato Unito Euro Mediterraneo del 2010 o – in subordine se questo processo fallisse – dell’Unione Mediterranea avanzata dalla Francia di Sarkozy per superare le recalcitranze degli altri paesi europei verso il Mediterraneo. (5)

Alla luce di questi dati – ampiamente documentati e documentabili ma completamente trascurati dall’analisi e dal dibattito – si capisce meglio perché l’Italia è il sesto paese per numero di soldati impegnati in missioni militari all’estero, perché mantiene contingenti militari in Libano e nei Balcani, perché vuole dotarsi di un complesso militare-industriale e di risorse economiche per la difesa adeguate alle proprie ambizioni. Uno studio recente fissa il minimo delle spese militari necessarie per essere adeguati a 20 miliardi di euro (circa 30 miliardi di dollari).
Secondo questo studio l’esercito deve essere completamente “expeditionary” (cioè proiettato e proiettabile al 100% all’estero entro i prossimi cinque anni), tagliando organici inutili (20.000 marescialli e 3.000 ufficiali) (6)
A questa dimensione offensiva della politica militare italiana dovremo abituarci, anzi, dovremo attrezzarci per ostacolarla in ogni modo nei prossimi anni. Non solo, l’Italia incrementerà in ogni scenario regole d’ingaggio più intrusive e aggressive. A fronte di questa realtà, i ragionamenti sulla “riduzione del danno” che abbiamo sentito dai gruppi parlamentari della sinistra nei due anni di governo Prodi, appaiono decisamente irritanti quanto miopi.

La percezione nella società degli scenari di guerra che coinvolgono l’Italia
A cavallo tra febbraio e marzo di quest’anno, il Laps (Laboratorio per l’Analisi Politica e Sociale) dell’università do Siena, ha realizzato un sondaggio commissionato dal Ministero degli Esteri (c’era ancora D’Alema) e allegato al rapporto redatto dal Gruppo di Riflessione Strategica sulla politica internazionale dell’Italia (7).
In questo sondaggio emergono alcuni dati interessanti sia per comprendere la percezione sociale degli scenari internazionali che coinvolgono l’Italia sia per avere un’idea dello spazio politico per l’iniziativa e i contenuti del movimento No War nel nostro paese.
Dai dati viene fuori ad esempio che la richiesta di fuoriuscita dalla NATO è ancora minoritaria e che lo sono anche le ambizioni ad autonomizzarsi dando vita all’esercito europeo. Gli USA perdono importanza ma anche un certo un certo “appeal” sociale.
Le missioni militari godono di consenso se non producono vittime tra i soldati italiani. Più perdite ci sono e meno ci sarebbero consensi. La missione meno popolare è quella in Afghanistan anche perché è percepita come quella più rischiosa.
Infine c’è una forte opposizione all’aumento delle spese militari e una congrua richiesta che vengano diminuite. In assenza di informazioni sulla quantità delle spese militari c’è uno zoccolo duro maggioritario che ritiene debbano rimanere invariate. Ma –e questo è interessante – se gli intervistati dispongono di informazioni cresce il numero di coloro che sono favorevoli alla riduzione e diminuisce il numero di coloro che ritengano debbano rimanere invariate.
Ciò significa che la missione militare in Afghanistan è il punto più debole del sistema di consenso alla guerra e che le spese militari – in presenza di una iniziativa e di informazioni – possono essere un altro punto debole del consenso alla politica militare dei governi italiani.
Ad una domanda del sondaggio se gli USA rimangono il paese più importante per l’Italia, Nel 2002 la risposta affermativa veniva da parte del 15% degli intervistati, nel 2008 questa percentuale è scesa al 9%. Questa maggiore disaffezione degli italiani verso l’importanza degli USA viene però compensata da quello che viene definito il “sentiment” e che – in una scala da 0 a 10 – vede gli USA passare dal 6,38 del 2002 al 6,71 del 2008, superati però dalla Germania. Un discorso diverso riguarda invece la NATO.

La fedeltà alla NATO

2002 2008
L’Italia deve rimanere nella NATO così com’è 32 35
Rimanere nella NATO ma con forza e comando europei 47 32
Ritirarsi dalla NATO e istituire un esercito europeo 5 11
Scegliere la neutralità 10 14

Le missioni militari all’estero

Contrari Favorevoli
Missione in Kosovo 27 68
Missione in Libano 33 60
Missione in Darfur 14 81
Afghanistan (nel quadro degli sforzi internazionali) 32 62
Afghanistan (con la partecipazione combattimenti) 57 37

La specificità della missione militare in Afghanistan

Favorevoli (senza perdite di soldati italiani) 61
Contrari (senza perdite di soldati italiani) 33
Favorevoli (anche con altri 20 morti italiani) 40
Contrari (anche con altri 20 morti italiani) 52
Favorevoli (con altri 100 morti italiani) 27
Contrari (con altri 100 morti italiani) 64

Le spese militari

Gli intervistati non dispongono di informazioni sulla quantità di spese militari dell’Italia

2002 2008
Le spese militari dovrebbero aumentare 21 13
Le spese militari dovrebbero diminuire 25 38
Le spese militari dovrebbero rimanere uguali 42 42

Gli intervistati dispongono di informazioni sulla quantità di spese militari dell’Italia

2002 2008
Le spese militari dovrebbero aumentare -- 12
Le spese militari dovrebbero diminuire -- 41
Le spese militari dovrebbero rimanere uguali -- 34

Fonti e note:

(1) Da Affari Internazionali, pagina web dell’Istituto Affari Internazionali
(2) Vedi Carlo Buzzi in Pagine di Difesa, 3 dicembre 2007
(3) Vedi AAVV “Il piano inclinato del capitale”, Jaka Book
(4) Vedi “L’Italia s’è desta” (AAVV, edizioni Laboratorio Politico, 1997) e No/made Italy (AAVV,edizioni Mediaprint, 1999)
(5) Vedi Romano Prodi “Un’idea di Europa”, Il Mulino 1998
(6) Vedi Giovanni Gasparini in “Affari Internazionali”, maggio 2008
(7) Il sondaggio del Laps e il Rapporto curato dal Gruppo di Riflessione Strategica (di cui fanno parte diversi centri studi, Confindustria, Banca d’Italia, banche, giornalisti, docenti universitari, comandi militari e istituzioni ) sono del marzo 2008

La Rete dei Comunisti

4447