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La guerra e la menzogna

Contributo della 'Redazione di Sotto le bandiere del Marxismo' all'Assemblea Nazionale Autoconvocata del 20 settembre

(20 Settembre 2008)

Il dominio della borghesia, strato relativamente ridotto, nei confronti di masse sterminate, già in tempo di pace richiede l’uso costante della menzogna accanto a quello della forza. Non dimentichiamo mai che le notizie che ci giungono attraverso i suoi media vengono dall’avversario di classe.

In caso di guerra la necessità di falsificazione si accentua, e non solo per non rivelare segreti militari al nemico. Mentono perché la popolazione odia la guerra, e deve essere ingannata e fanatizzata per accettarla. Con menzogne il governo americano ha cercato di giustificare l’intervento in Iraq, attraverso la stampa, le televisioni e gli interventi all’ONU. Asseriva che l’Iraq aveva armi di distruzioni di massa (non consentite all’Iraq, ma permesse in sovrabbondanza all’America).

L’allarmismo e la spinta al fanatismo, già intensi per i civili, raggiungono l’acme per i militari. La guerra non si basa sull’aggressività naturale, che dipende da fattori assai variabili. Bisogna abituare il soldato ad uccidere gente che non conosce, che non gli hai mai fatto nulla. Nella prima guerra mondiale, prima dell’attacco, si distribuivano grandi quantità di grappa, in modo che il soldato, in stato d’euforia, non si soffermasse a pensare che doveva uccidere o essere ucciso. Nelle guerre recenti si è ricorsi a preparati chimici o a vere e proprie droghe, il che spiega in parte i frequenti squilibri psichici nella truppa. Il soldato è trasformato in un robot killer, spara in base a riflessi condizionati, senza riflettere. E’ un’abitudine difficile da estirpare, e spiega i numerosi casi in cui i reduci uccidono la moglie o altri familiari.

La propaganda abitua la popolazione a convivere col riarmo e con la guerra. Nel dopoguerra era naturale la paura dell’atomica, date le recentissime tragedie di Hiroshima e Nagasaki. Entrò in funzione la propaganda, l’atomica fu associata a “Gilda”, il personaggio di un film di Rita Hayworth, e atomiche vennero chiamate le attrici dalla prorompente bellezza. La criminale distruzione dell’atollo di Bikini fu associata a un nuovo tipo di costume da bagno. La propaganda sortì gli effetti desiderati, complice la crassa ignoranza coltivata ad arte in materia di radiazioni. I giovani stenteranno a crederci, ma più giornalisti disputavano, in articoli al livello della demenza, se era conveniente utilizzare bombardamenti atomici per liberare i poli dai ghiacci, e nella pubblicità si vantavano le doti curative di un’acqua minerale alpina perché radioattiva. Ai soldati si raccontava che, scavando una postazione profonda un metro e rannicchiandosi sul fondo, ci si poteva salvare dall’onda d’urto atomica. Tra questi giovani, alcuni ben informati dicevano: “Ci fanno pure scavare la nostra tomba!”.

Al tempo della polemica sull’uso dell’uranio impoverito, esponenti del militarismo in televisione mostravano un pezzo di tale metallo che portavano in tasca, per attestarne l’innocuità. Anche una bomba a mano si può tenere in tasca con la sicura. Ma l’uranio impoverito, polverizzato dall’esplosione, ha effetti letali su chi colpisce, ha conseguenze a lungo termine e rende l’ambiente invivibile. Il tentativo di ingannare l’opinione pubblica in questo caso non riuscì, a causa delle malattie e delle morti di più soldati, perciò si rinunciò a questa propaganda invasiva e si è cercò di mettere a tacere le proteste dei militari colpiti e delle famiglie.

In un altro campo, la propaganda bellica ebbe successo: la corsa allo spazio, con la possibilità di un controllo del territorio impensabile fino a pochi decenni fa, fu contrabbandata come una competizione scientifico sportiva, con buona parte della popolazione mondiale che si appassionava alle meraviglie della tecnica e apprezzava il coraggio degli astronauti.

Ma la menzogna più grande, puramente politica, è che il colonialismo e l’imperialismo sono problemi del passato, che vanno studiati a scuola, mentre oggi saremmo nel periodo della democrazia, che lotta contro il terrorismo e gli “stati canaglia”. Non è forse colonialismo occupare un paese, instaurare un governo fantoccio, e costringerlo a vendere i diritti sui propri pozzi petroliferi a compagnie straniere? L’occupazione dell’Afghanistan da parte della Nato non ricorda forse, pur in un diversissimo contesto, la spedizione imperialista delle potenze al tempo della rivolta dei boxer, tendente a trasformare la Cina in una colonia del mondo?

Grandi colpe in quest’opera di mistificazione ha pure la sinistra. Già negli anni ’60 edulcorava il marxismo con l’espediente di aggiungere il prefisso “neo” a capitalismo. Neocapitalismo, a suo dire, significava che il capitale aveva imparato ad evitare le crisi economiche, perciò non occorreva più la lotta di classe, ma l’ingresso nella stanza dei bottoni. Parlava di neo-imperialismo e neocolonialismo, perché, a suo insindacabile giudizio, i metodi militari erano sostituiti da una dominazione puramente economica. Chi non accettava queste analisi fasulle, era definito “vetero-comunista” e invitato a adeguarsi alle nuove dottrine. In realtà il capitale non ha mai interrotto gli interventi repressivi, dall’immane strage indonesiana al Sudamerica, dal golpe dei colonnelli in Grecia al Vietnam, e, negli ultimi anni, abbiamo visto in primo piano il volto assassino del capitale, e assistito a una violenza senza limiti. Guernica sembra un lavoro da dilettanti rispetto al genocidio al fosforo bianco di Fallujah, e non c’è più un Picasso ad immortalarne la memoria. Ci troviamo di fronte al capitalismo di sempre, l’unico assente è il partito dei lavoratori, corroso e infine distrutto dall’opportunismo.

Un tempo, i colonialisti tracciavano col righello sulla carta geografica i confini delle colonie. Recentemente, la presentazione della mappa del “Nuovo Medio Oriente”, del Luogotenente Colonnello Ralph Peters, approvata dall'Accademia di Guerra Nazionale Statunitense, ha creato un incidente diplomatico. Secondo rassegne stampa turche del 15 Settembre 2006, al Military College della NATO a Roma, gli ufficiali Turchi vedendo che la mappa prevedeva una Turchia divisa e frammentata, si sentirono oltraggiati. (“Progetto per un “nuovo Medio Oriente”, di Mahdi Darius Nazemroaya, ComeDonchisciotte, 29 novembre 2006).

Nel libro “La Grande Scacchiera: la supremazia Americana ed i suoi imperativi geo-strategici”, Brzezinski definisce Balcani Euroasiatici il Caucaso (Georgia, la Repubblica dell'Azerbaigian, e l'Armenia) e l'Asia Centrale (Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Afghanistan) e per un certo verso anche Iran e Turchia. L’autore propone di accentuare la balcanizzazione. Brzezinski è il consigliere scelto di Barack Obama, questo sarebbe il rinnovamento della politica estera americana! Si tratta del vecchio criterio del “Divide et impera”, usato da tutti gli imperialismi del passato e del presente.

Nel passato, c’erano meno mistificazioni. Verso la fine della Iª guerra mondiale, Lord Curzon dichiarò pubblicamente che non gli importava niente se Londra era accusata di essere capitalista, monopolista, imperialista, bisognava occupare i giacimenti petroliferi iracheni e infischiarsene delle accuse. Oggi, le ipocrite dichiarazioni aggiungono ulteriori colpe e vergogne alle malefatte dell’imperialismo.

Gli Stati Uniti hanno il controllo del mare e dell’aria, e potrebbero impedire il rifornimento di petrolio a qualsiasi paese che si ribellasse alle loro decisioni. Con la guerra in Afghanistan e l’avventura georgiana hanno cercato di completare il controllo delle rotte terrestri, ma hanno trovato ostacoli al momento insormontabili.

L’imperialismo non è solo un danno per i popoli occupati, ma anche per il popolo della madrepatria, che deve subire le conseguenze del militarismo sotto forma di repressione interna. Marx diceva che nessun popolo che ne domina un altro può essere libero.

Quanto alle mistificazioni italiane, il governo D’Alema parlava di operazioni di ricognizione condotte dai nostri aerei, che in realtà partecipavano al bombardamento della Jugoslavia. E’ di pubblico dominio che le truppe italiane in Afghanistan combattono da un anno, come da tempo documentava PeaceReporter, ma abbiamo dovuto apprenderlo in forma ufficiale da un ministro ex fascista, perché i ministri “democratici” si guardavano bene dal darci notizia. Non solo: l’eliminazione dei caveat, ormai lettera morta, e lo spostamento di truppe a sud indicano un intervento sempre più diretto nella guerra, anche per la costante presenza dei “Mangusta”, che partecipano al bombardamento dei villaggi. Ora che la notizia della partecipazione alle operazioni belliche è ufficiale, si sono forse viste le autorità preposte insorgere contro la violazione dell’articolo 11? Abbiamo sentito condanne storiche della repubblica di Salò, e delle leggi razziali degli ebrei, ma non dell’intervento in Afghanistan e delle leggi antirom. Forse l’agenda delle alte cariche dello stato non è stata debitamente aggiornata. Una cosa emerge chiarissima: non ci sarà nessun freno, da parte delle istituzioni, contro l’imperialismo e il rinato colonialismo. Sappiamo da che parte stanno. Da parte loro verranno orazioni in lode del valore dei “nostri ragazzi”, e, all’occorrenza, sontuosi funerali di stato.

La borghesia italiana, con i suoi rappresentanti politici, pretende di condurre un’azione liberatoria in Afghanistan. Ma una borghesia porta liberazione quando è giovane, nella fase giacobina. Quella italiana ha fatto le sue sporche guerre coloniali, ha dato origine al fascismo e trascinato l’Italia in guerra al fianco di Hitler, affrettandosi, subito dopo la catastrofe, a gettare l’orbace per vestire panni democratici. Ha permesso e spesso favorito lo sviluppo delle organizzazioni della malavita organizzata, ha trescato con la P2, e con Gladio. Ha rovinato il territorio con la speculazione edilizia, seminando ovunque edifici, fatti con soldi pubblici, non finiti e abbandonati. Con truffe gigantesche (Parmalat, Cirio, Bond argentini, ecc.) ha depredato vastissime fasce di risparmiatori. Può essere credibile, questa borghesia, quando, attraverso i suoi giornali e i suoi politici, dichiara di portare la libertà in Afghanistan?

Una classe dirigente che mantiene la donna in condizioni di continua difficoltà, discriminandola sul posto di lavoro, ricorrendo al licenziamento nel caso di gravidanza, lesinandole persino l’accesso a quelle strutture (asili nido, scuole a tempo pieno, servizi di assistenza agli anziani, ecc.) che potrebbero alleviare il suo doppio lavoro, fuori e dentro casa, come può pretendere di l’emancipazione la donna afgana?

La borghesia italiana può solo lucrare sulle commesse militari, manovrare per ottenere da chi comanda, cioè dal governo USA, appalti per la “ricostruzione”, mentre le truppe Nato preparano questa “riedificazione” con giganteschi bombardamenti, sterminando bambini, donne e vecchi, sbrigativamente classificati come talebani.

Una classe dirigente che ostenta una falsa religiosità, contraddetta da comportamenti privati scandalosi, con episodi boccacceschi che riguardano deputati, principi rimbambiti, cavalieri e giovani arrampicatrici sociali, può portare la libertà religiosa in un lontano paese asiatico? Non a caso, l’Afghanistan è tornato ad essere uno stato confessionale, dove vige la Sharia, e chi si converte ad un’altra religione rischia la pena capitale.

Una borghesia, che in Italia sfrutta sempre più i lavoratori, precarizza masse crescenti, aumenta l’età pensionabile, forgia catene per il nostro popolo con continui provvedimenti polizieschi, discrimina i bambini rom e in generale gli extracomunitari, non può far altro che appoggiare in Afghanistan un regime fantoccio, che a livello internazionale si è distinto solo per il fiume crescente di droga che lascia passare.

La guida della lotta contro la guerra spetta esclusivamente ai lavoratori e alle masse sfruttate. Possono affrontare questo compito, perché hanno un’antica tradizione di antimilitarismo. Fin dal 3 febbraio 1887, quando, contro le imprese coloniali italiane in Africa, Andrea Costa lanciò il famoso grido “né un uomo né un soldo” alla Camera dei Deputati. E quando, al tempo della guerra libica, le donne proletarie si stesero sui binari per impedire la partenza dei soldati. O nel 1914, quando la sezione milanese del PSI espulse Mussolini, passato dall’antimilitarismo alla propaganda sciovinista, “per indegnità politica e morale”, e compagne e compagni si offrirono di andargli a sparare. E i militanti di Forlì, avendo sentito che annunciava un comizio in città, gli gridarono tutto il loro disprezzo, sfidandolo a farlo. Il futuro duce trovò più igienico restare a Milano, e rispose con un articolo pieno di insulti volgari. O nei moti di Torino dell’agosto 1917, quando le donne, più coraggiose degli uomini, assalirono le autoblinde.

I parlamentari della sinistra, che nel luglio 2006 e nei periodi successivi hanno votato per il rifinanziamento delle spedizioni militari, hanno completamente dimenticato e tradito queste gloriose lotte. E ci fu chi cercò di illudere le masse asserendo che le operazioni militari si potevano monitorare, controllare attraverso il parlamento, e che era possibile una “riduzione del danno”.

I lavoratori devono ritrovare la capacità di compiere azioni contro la guerra, in particolare con la pratica dello sciopero politico. Questo è più efficace quanto è più esteso, perciò richiede un collegamento con i lavoratori e gli antimilitaristi dei paesi impegnati in queste guerre; necessita la discesa in campo di forze che per ora non sono disponibili, e bisogna preparare le condizioni perché sorga questa disponibilità. La CGIL ha oltre 5 milioni d’iscritti, ma contro la guerra si è limitata a scioperi simbolici di pochi minuti, e non c’è stata neppure una forte pressione della base per un impegno più serio. L’esposizione massiccia di bandiere della pace è il segno che una potenziale disposizione alla lotta di vasti settori non ha trovato una guida e un’organizzazione che li potesse portare dalla protesta simbolica alla lotta reale.

Noi avversiamo la guerra per motivi classisti, ma occorre coinvolgere anche strati meno avanzati. Bisogna spiegare pazientemente che le spese militari sono incompatibili con quelle sociali, che ci troviamo di fronte alla classica alternativa “O burro o cannoni”. I tagli alla scuola, alla Sanità, il crescente abbandono d’ogni politica di costruzioni di case popolari, l’incuria colpevole nei confronti delle ferrovie, la cui pericolosità si accentua continuamente, servono soprattutto a finanziare i costi crescenti, ufficiali o non dichiarati, del settore militare. Anche chi non è politicizzato deve capire che il suo tenore di vita n’è costantemente colpito. L’Italia è il terzo paese nel mondo quanto a spedizioni “di pace”all’estero.

Dallo stato borghese bisogna esigere con le pressioni e la lotta una posizione neutrale in politica estera, genericamente pacifista – la politica borghese non può andare oltre – ma noi non possiamo essere neutrali, siamo schierati con i lavoratori e le masse sfruttate dei paesi che lottano per liberarsi dall’imperialismo.

Bisogna:
combattere la disinformazione, diffusa ad arte, e costituire una sorta di tam-tam informatico; ogni sito che ha notizie su fatti bellici, ai quali partecipano le forze NATO, li renda immediatamente noti, ed entri in crisi quella cortina fumogena messa in atto dai governi e dalla stampa cosiddetta libera;
costituire gruppi di lavoro che seguano attentamente i giornali, i telegiornali, e le altre fonti d’informazione, denunciando costantemente le menzogne, le omissioni, i silenzi colpevoli con i quali giustificano gli interventi militari, e pubblicarli su tutti i siti a nostra disposizione;
far conoscere al pubblico quali imprese collaborano alla guerra e ne traggono lucro. L’opera d’informazione e di demistificazione di per sé non può fermare le guerre, ma può renderle sempre più impopolari, e preparare il terreno per lotte radicali.

16 settembre 2008

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