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Palestina, un sogno oltre il sionismo

(30 Novembre 2009)

Nel dibattito sul sionismo presente al convegno di “Forum Palestina” balzava agli occhi la diversa interpretazione di storia, geopolitica e visione se non teologica sicuramente socio-filosofica della voce ebraica e di quella palestinese. Anche quando entrambe sono schierate sullo stesso terreno. Il terreno è quello della solidarietà al popolo di Palestina espropriato di terra ed esistenza, dell’avversione alla politica d’Israele incarnata da Labur o Likud, dell’opposizione al programma sionista laico o religioso e al fondamentalismo ultraortodosso. Però taluni attivisti d’origine ebraica sottolineavano come la nascita dello Stato d’Israele in epoca moderna, dalle teorizzazioni di Herzl sino alla realizzazione di Ben Gurion, non fosse un’operazione ascrivibile al tradizionale colonialismo. Nella sua accezione politico-economica il colonialismo ha rappresentato l’occupazione di terre abitate da altri popoli per sfruttarne risorse e ricavarne profitti. Cosa che non è avvenuta in Palestina.

Secondo gli attivisti ebrei contrari all’occupazione ciò che ha mosso, e può tuttora muovere, un ebreo che va a vivere in quel luogo del Medio Oriente è il legame millenario con la terra dei padri. Desiderio che può affermare ciascun giudeo laico, ortodosso, sionista, sinceramente democratico o di sinistra. Un concetto ovviamente estraneo al modo di vedere e sentire delle popolazioni arabe che su quelle terre hanno egualmente vissuto per millenni e che, dalle vicende del Novecento e soprattutto dal 1947, si sono trovati a vivere la propria diaspora e continuano a subire un’odiosa persecuzione. Così nel suo intervento l’attivista palestinese, ancor più se laico e d’orientamento marxista, valuta invece colonialista l’iniziativa descritta. O più precisamente imperialista, secondo i caratteri che vedono l’imperialismo del XX secolo puntare al controllo di aree non necessariamente per sfruttarne risorse primarie. Esso attua un dominio strategico-militare, che in base all’interpretazione roosveltiana della dottrina di Monroe, ha portato chi s’ergeva a “gendarme del mondo” a interessarsi di ogni regione considerata utile all’intento.

Il Medio Oriente è sicuramente fra queste aree. Una porta fra Est e Ovest del globo, dove le potenze coloniali del vecchio continente (Gran Bretagna e Francia) con la spartizione operata a Yalta ne cedevano la supervisione a Stati Uniti e Unione Sovietica, i colossi della “pace armata”. Introdurre lì una nazione che avrebbe rappresentato un contraltare a quella parte del mondo arabo solo da vent’anni svincolata dal disfacimento del secolare impero ottomano, poteva apparire una mossa adeguata. Lo fu per il Risiko della strategia politico-militare, non certo per le condizioni di vita dei popoli autoctoni. Ma appunto ancor’oggi un attivista palestinese giudica quella scelta un’iniziativa colonialista. Mentre il suo corrispettivo ebreo no perché sottolinea come, al di là dell’aspetto riparatorio verso il popolo colpito dalla Shoah, la maggioranza della sua comunità di qualsiasi orientamento politico non avrebbe accettato che lo Stato di Israel – il religioso Eretz o il nazionalista Haslema – potesse sorgere nell’Uganda o in Argentina, come per un momento aveva ipotizzato la Comunità Internazionale.

Il ritorno nella terra d’origine era ed è per ogni ebreo l’unica soluzione. Questo bisogno s’è trasformato sotto il sionismo – laico, semireligioso o aperto alle mai sopite velleità di creare la Grande Israele – in desiderio d’esprimere solo il principio dell’esclusività, scacciando un altro popolo e ampliando progressivamente e inesorabilmente un unico potere e un unico controllo del territorio. I propri. Ne è un segnale inequivocabile quella mappa bicolore che mostra efficacemente le tragiche tappe temporali che hanno segnato, dal 1948 al 2000, la trasformazione della millenaria Palestina nelle due nazioni chiamate Israele e Cisgiordania. Simili eventi possono far superare alle due tipologie di militati schierati sul medesimo fronte la diatriba finora descritta. Poiché catalogare come colonialista o meno la nascita dello Stato d’Israele non cambia la sostanza di ciò che per sessant’anni l’establishment di questa nazione, da sinistra a destra, ha compiuto contro un’altra popolazione. Alla stregua di come oggi si può considerare inapplicato e impraticabile il progetto d’uno Stato autonomo in cui poter far vivere almeno una parte della sua gente che la leadership palestinese ha inseguito pur a prezzo di rinunce e svendite.

Il cammino di trattative e accordi mediati dagli Stati Uniti, che non ricoprono affatto un ruolo super partes, è da tempo un ramo secco per i troppi risvolti beffardi e umilianti subiti dalla componente più debole. Se il piano “due popoli, due Stati” non ha più gambe su cui procedere, il ritorno all’idea di un’unica nazione per popoli e fedi diverse può far uscire i palestinesi da una prigionia lunga sessant’anni ? All’interno di un’ipotetica de-sionistizzaizione dello Stato d’Israele un’altra via potrebbe essere l’utopico unico Paese dove i due ceppi etnici provano a convivere. Piano attualmente più irreale di quando fu pensato perché da oltre trent’anni Israele esalta ancor più della nascita la sua essenza di nazione mono confessionale e mono razziale. La legge sulla fedeltà allo Stato, studiata e momentaneamente messa in disparte da un Likud forte di alleanze pragmatiche con gli “avversari“ laburisti e i partiti del sostegno ai coloni (sia i laici di Israel Beiteinu, sia gli ultraortodossi dello Shas), enfatizza i tratti d’una democrazia a senso unico su base razziale e religiosa che amalgama ebraismo e sionismo. E non vuol sentire altro.

La mutazione di questo stato di cose sembrerebbe poter avvenire solo per evoluzione interna della collettività israeliana, mentre il sionismo maturato nei decenni dell’estasi di sé come potenza politico-militare regionale sembra rendere inesistente una diversa visione di società e nazione. Se questa collettività, che fra le due è la più protetta dal sistema economico e diplomatico internazionale e che in un quadro di pacificazione dovrebbe operare le maggiori concessioni, perpetua esistenze come quelle dei teorici della morte Begin e Sharon di fatto più devastanti di Herzl o Jabotinsky, il panorama è oggettivamente nero. I robotizzati uomini della guerra perenne e dell’omicidio a freddo di cui i criminali e raffinati Halutz o Kochavi sono solo l’ultimo volto, non sono le eccezioni ma i figli che una generazione via l’altra Israele crea e affina. Elementi che lasciano poche speranze a qualsiasi forza di confronto, idee, coscienza, umanità finché la politica se ne serve e gran parte dell’intellighenzia li giustifica. Un’altra Israele deve ancora nascere. Forse potrebbe diventare addirittura più facile (sic) il sogno della nascita d’una Palestina multietnica.

30 novembre 2009

Enrico Campofreda

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