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Bentornata età della pietra

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(27 Gennaio 2011) Enzo Apicella
Dopo l'Algeria e la Tunisia, anche l'Egitto in rivolta

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Cairo, la fatica di vivere

Nell'Egitto post-rivoluzionario orgoglioso di aver mandato alla sbarra dell'ex presidente Mubarak, la giustizia sociale resta un miraggio. Milioni di poveri nella capitale e nel resto del Paese attendono che venga redistribuita la ricchezza che rimane nella mani di pochi

(9 Agosto 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.nena-news.com

Cairo, la fatica di vivere

foto: www.nena-news.com

Il Cairo, 08 agosto 2011, Nena News - Abu Mohsen, con i suoi larghi baffi, lo conoscono tutti dalle parti di via Aziz Abasa. E' sempre nella sua bottega. Al mattino, di pomeriggio e a tarda sera. Avvolto in una nuvola di vapore caldo, muove avanti e indietro un vecchio ferro da stiro sugli abiti dei «signori» della zona. In verità non sono ricchi i suoi clienti, anzi. Ma possono permettersi di pagare quei due pound egiziani (circa 20 centesimi di euro) che Abu Mohsen chiede per stirare un paio pantaloni o una camicia. Meno dei cinque che pretendono alla lavanderia più vicina. A tenergli compagnia è un ragazzino che per poche piastre fa le consegne a domicilio. Non guadagna tanto Abu Mohsen, tolte le spese riesce a mettersi in tasca ogni mese un migliaio pound (120-130 euro), qualche volta anche 1.500, come in questo mese di Ramadan in cui i clienti sono più generosi. Al Cairo bastano appena per non morire di fame ma sono tanti di più del salario di una operaia in una fabbrica tessile del Delta dove un imprenditore riesce ad imporre stipendi ben sotto il salario minimo. «Zamalek è un quartiere abitato da impiegati, commercianti, da tanti signori e così un pochino di quella ricchezza riesco a farla scivolare nelle mie tasche, sto meglio qui che nella mia città di origine, Tanta, dove non potrei guadagnarmi il pane», spiega Abu Mohsen prima di esplodere in una risata. Come lui vive, o meglio sopravvive, una larga porzione degli abitanti della capitale. Persone che la rivoluzione del 25 gennaio l’hanno seguita in tv più che farla in piazza Tahrir, a differenza della classe media più istruita e i giovani senza lavoro. «(L’ex presidente Hosni) Mubarak non c’è più ma per noi poveri non è cambiato nulla – dice Abu Mohsen – dobbiamo sudare 10-12 ore ogni giorno, tutti i giorni dell’anno, anche di Ramadan, per tirare avanti. Speriamo che il governo pensi anche a noi».

In Egitto, paese dalle forti sperequazioni sociali che ha visto, a causa anche del programma di privatizzazioni sponsorizzate dal liberista Gamal Mubarak, figlio e «delfino» del raìs, svendere importanti industrie nazionali (e con esse decine di migliaia di lavoratori) a imprenditori internazionali e locali senza scrupoli, da tempo si registra il progressivo impoverimento degli impiegati non qualificati e degli operai. Milioni di persone finite nel baratro della miseria a far compagnia ai più poveri. L’adala igtimaaiyyah (giustizia sociale) perciò è stata una delle richieste fondamentali della rivolta anti-Mubarak. Gli scioperi continui di un po’ tutte le categorie di lavoratori sono stati il segnale fin troppo chiaro del limite di sopportazione (e di sofferenza) raggiunto da tanti egiziani che chiedono, accanto alla libertà e ai diritti, anche una nuova politica economica in grado di redistribuire la ricchezza nazionale. La ritrovata (ma non ancora piena) libertà di stampa ha fatto conoscere la fortuna accumulata in trent’anni da Mubarak e dai componenti dell’entourage dell’ex presidente. L’Autorità del Controllo Amministrativo e dell’Autorità di Indagine sui Fondi Pubblici ha accertato che solo nella sede di Heliopolis della Banca Nazionale d’Egitto i Mubarak avevano accumulato 29 milioni di euro. La first lady Suzanne Mubarak aveva sei conti bancari, uno dei quali presso la Banca della Biblioteca Alessandrina con oltre 100 milioni di euro. Alaa Mubarak, figlio «businessman» del raìs, possedeva più di 11 milioni di euro presso la Banca Nazionale d’Egitto e suo fratello Gamal otto conti in altrettante banche. Senza dimenticare le proprietà immobiliari e le fortune accumulate dalla famiglia del «faraone» in giro per il mondo. Immense anche le ricchezze scoperte e, soprattutto, quelle ancora da scoprire dei tanti servitori fedeli del regime - quasi sempre palazzinari amici personali di Mubarak e del figlio Gamal – mentre non si fa parola degli enormi interessi economici dei militari che guidano la «transizione democratica» e che, certo non a caso, spingono per la stabilità e il ritorno alla normalità.

Ma alla normalità della miseria i poveri, vecchi e nuovi, non vogliono tornarci, Nessuno vuole fare la fine dell’operaia Mona Hawas, 44 anni e madre di tre figli, uccisa da un autocarro a Mansoura mentre manifestava in strada assieme alle sue compagne per ottenere il pagamento degli stipendi arretrati - 300 pound (50 dollari) al mese – da parte della proprietà della sua fabbrica, la Mansoura Espana. «La giustizia sociale, la difesa dei diritti dei lavoratori, l’aumento reale del salario minimo sono le sfide che devono affrontare subito le forze protagoniste dell’insurrezione del 25 gennaio se vogliono che quel magnifico momento di protagonismo delle masse perda il suo slancio», spiega l’attivista Housam Hamalawi, uno dei primi ad utilizzare la rete per diffondere, già da qualche anno, informazioni sulle lotte dei lavoratori oltre alle iniziative contro Mubarak. «Stanno nascendo sindacati veri (la vecchia federazione è stata sciolta dal governo due giorni fa) ma il tempo stringe – avverte Hamalawi - un lavoratore che guadagna 190-200 pound al mese (24-25 euro) non può tornare a casa e chiedere alla sua famiglia di aspettare le elezioni, la formazione del parlamento e l’approvazione di nuove leggi per la giustizia sociale. Ha bisogno di risposte immediate ai suoi bisogni primari altrimenti il suo sostegno al proseguimento della rivoluzione verrà a mancare».

Risposte che però non arrivano ancora. Il governo nelle scorse settimane ha aumentato il salario minimo a 700 pound (meno di 120 dollari) e ha promesso di portarlo a 1.200 nei prossimi cinque anni. Ma il salto in avanti è molto inferiore alle aspettative dei lavoratori che devono fare i conti con il continuo aumento dei prezzi. La spesa pubblica per il 2011-2012 pari a 514 miliardi di pound (86 miliardi di dollari) annunciata dall’ex ministro delle finanze Samir Radwan rimane largamente insufficiente in settori primari come la sanità e l’istruzione mentre l’aumento della tassazione per i redditi più alti non è destinata a portare benefici significativi a causa delle ricchezze enormi nascoste nelle banche nazionali ed estere. Ad aggravare la situazione c’è la frammentazione dei partiti e dei movimenti di sinistra. L’adala igtimaaiyyah quindi resta un sogno nell’Egitto post-rivoluzionario. E ad avvantaggiarsene sono le formazioni islamiche, a partire dai Fratelli Musulmani, che con l’inizio del Ramadan (il primo agosto) hanno di fatto cominciato la campagna per le elezioni legislative di novembre. «Distribuiscono pacchi con alimenti di base, zucchero, riso, farina, a chi non può permettersi di comprare quanto serve in questo mese, si preoccupano di organizzare ogni sera in strada immensi iftar (il pasto che al tramonto interrompe il digiuno cominciato all’alba, ndr) per molte migliaia di persone nei quartieri più isolati, più poveri», spiega Ayman H., un giornalista free lance del Cairo. Soprattutto arrivano alle ashwaaiyyat, le «zona di insediamento informale», quindi inesistenti per lo Stato. Nell’area della Grande Cairo centinaia di migliaia di egiziani chiusi in baracche di lamiera vivono senza alcun servizio pubblico ed assistenza sociale. Il giornalista egiziano prevede che «Se gli islamisti riusciranno a portare alle urne anche solo il 10% di queste persone ai margini che di solito non votano, assieme alla loro base abituale di consenso, allora si guadagneranno il controllo di almeno la metà della Camera bassa (Majles)».

Ai quei poveri che sono stati «eroi» della rivoluzione e in prima linea contro Mubarak, l’attivista Mohammed Abul Gheit ha dedicato largo spazio sul suo blog con il post «The Poor First, You Bastards». Foto e storie in particolare di giovani ventenni, ma che ne dimostrano 40, giunti dalle bidonville di Imbaba, Boulak e Attaba a Piazza Tahrir per costruirsi anche un futuro di lavoro e dignità e che invece vengono ignorate e dimenticate da tutte le forze politiche laiche e di sinistra. Sul suo blog Abul Gheit ha scritto: «i poveri in Piazza Tahrir ci sono venuti per farci capire che per loro vivere o morire è lo stesso, facciamo in modo che per tutti gli egiziani vivere non sia uguale a morire».Nena News

questo articolo e' stato pubblicato il 7 luglio 2011 dal quotidiano Il Manifesto

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