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Yemen: rientro a sorpresa rilancia guerra civile

Atterrato questa mattina a Sanaa il presidente Saleh, in Arabia da oltre 3 mesi. Difficile prevedere le implicazioni del suo rientro, in un paese che non è più un "solo" Yemen, malcompreso dai media e abbandonato dalla comunità internazionale.

(24 Settembre 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.nena-news.com

Yemen: rientro a sorpresa rilancia guerra civile

foto EPA

DI BARBARA ANTONELLI

Roma, 23 settembre 2011, Nena News (foto EPA) - Coup de théâtre. Quando ormai tutti credevano che non sarebbe mai rientrato nel paese, è atterrato questa mattina nella capitale Sanaa, il presidente Ali Abdullah Saleh, dopo oltre 3 mesi trascorsi in Arabia Saudita, a curarsi le ferite causate da un attentato dinamitardo lo scorso giugno.

Un rientro a sorpresa, annunciato questa mattina all’alba dalla Tv di stato, che rischia di scatenare oggi, venerdì, nuove proteste e nuovi spargimenti di sangue. Per gli analisti politici è ancora difficile valutare se il presidente, che dall’inizio delle proteste a gennaio, ha rifiutato ben tre piani di transizione mediati e sponsorizzati dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, lasciando al suo vice Abed Rabbo Mansour al-Hadi, la possibilità di negoziare ma mai concedendogli il trasferimento di pieni poteri in sua assenza, sia tornato per lasciare definitivamente la poltrona, favorendo un passaggio di poteri, magari a suo figlio Ahmed Ali; garantendo anche a lui e al suo entourage, l’immunità da ciò che chiede la piazza: processi e pene per aver represso nel sangue alcune delle manifestazioni pacifiche avute nel paese.

Certo è che il suo rientro rischia di esacerbare una situazione già al collasso, aprire la strada a nuove escalation di violenze, che hanno già messo a dura prova lo Yemen e la sua popolazione negli ultimi giorni, con scontri sanguinosi tra le truppe governative, la Guardia Repubblicana guidata dal figlio di Saleh, e i manifestanti dell’opposizione, nei cui ranghi sarebbero passati anche alcuni militari, i dissidenti guidati dal generale Ali Mohsen al – Ahmar. Un bilancio di oltre 80 vittime a partire dalla scorsa domenica, definita dal New York Times come il peggior giorno in termini di violenza da marzo; Saana descritta come città fantasma, dove da giorni risuonano colpi di mortaio e dell’artiglieria pesante e spari dei cecchini, video diffusi su Youtube con immagini di una violenza orribile; lo spettro della guerra civile dietro l’angolo.

Non ha retto il cessate il fuoco imposto mercoledì, né l’ultimo tentativo del Consiglio di Cooperazione del Golfo di trovare una soluzione alla crisi: il mediatore Abdel Latif Zayani ha lasciato giovedì la capitale dopo aver incontrato il vice – presidente Abed Rabbo Mansour al- Hadi. Ma dall’incontro non è uscito alcun piano concreto, nonostante gli sforzi “opportunistici” delle petromonarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, preoccupate non solo dell’instabilità yemenita, ma anche della prevedibile invasione di profughi e rifugiati, soprattutto in Arabia e Oman (in Yemen, ci sono tra l’altro già circa 200.000 profughi somali).

Ma al vacuum di potere, alla crisi politica e alle proteste (molte delle quali pacifiche) contro il presidente Saleh (organizzate a Sanaa, Taiz e Aden), si aggiunge un mix di fattori specifici del paese che rischiano di peggiorare il già attuale collasso e che fanno dello Yemen una "mancata rivoluzione", più difficile da decifrare rispetto a quello che è avvenuto in altri paesi della regione. Da una parte esiste e va avanti il malcontento di una parte di yemeniti contro il presidente, acuito dalla brutalità con cui le manifestazioni sono state represse a partire da gennaio, anche con l’accusa da parte del governo che tali proteste siano alimentate da gruppi islamisti; a questo contesto si aggiunge la lotta per la conquista del potere tra fazioni e clan rivali, che si agglomerano intorno alla famiglia presidenziale, al generale Ali Mohsen al-Ahmar (parente alla lontana del presidente, comandante della Prima divisione corazzata, anche lui con mire presidenziali e da marzo schierato dalla parte degli oppositori) e la potente famiglia Ahmar. Quest’ultima, proveniente dal governatorato di Amran (nord di Sanaa) vede tra le sue fila Hamid al – Ahmar, figura di spicco, membro del partito islamico Islah , che chiede da tempo le dimissioni di Saleh, uomo d’affari: si dice che il suo network di telefonia mobile Sabafon appoggi i manifestanti, inviando messaggi di testo con località e orari delle proteste. Anche infatti se Saleh decidesse – come sembra- di lasciare il potere, i suoi figli e nipoti occuperebbero comunque ruoli chiave nei vertici governativi e militari, non soddisfacendo le legittime richieste del Movimento studentesco (sceso in piazza e organizzatosi in un Consiglio di coordinamento dell’Università); come pure rimarrebbe in vita lo scontro tra il clan Saleh e gli Ahmar per la lotta al potere, uno scontro che investe ormai la seconda generazione di entrambi le famiglie. La logica manichea buoni/cattivi, forze pro-democrazia versus regime, non è applicabile allo Yemen, anche alla luce della evidente scesa in campo di diverse forze pronte a prendere il controllo e a manovrare il movimento studentesco.

Una complessità accresciuta dai diversi fronti che impegnano il governo, ancor prima di gennaio, a nord con la ribellione zaidita (setta sciita minoritaria) e nel sud con i gruppi separatisti (sconfitti nella guerra civile del 1994) e formazioni jihadiste vicine al al-Qaeda (AQAP).

Al caos che affligge il paese ormai da mesi, l’Unione Europea ha risposto in questi giorni con le parole dell’Alto commissario per la Politica estera, Catherine Ashton, che ha invocato la fine delle violenza, e sul versante umanitario ha aumentato gli aiuti del 2011 da 5 a 20 milioni di euro. Se finora i poteri occidentali hanno più o meno apertamente finanziato il presidente Saleh e le sue forze di sicurezza in cambio della sua promessa a contrastare al-Qaeda, adesso l’appoggio incondizionato al presidente, alla luce delle repressioni sanguinose, sembra sempre più difficile da sostenere.

Un recente rapporto della delegazione dell’Alto Commissariato per i diritti umani dell’ONU, che ha visitato il paese tra il 28 giugno e il 6 luglio, ha messo in luce come “il governo abbia perso il controllo di intere regioni del paese e anche di interi quartieri nelle città, ormai in mano a fazioni armate”.

A parte la costante ombra della minaccia qaedista – come ha fatto notare Abubakr Al-Shamahi, giornalista freelance per metà britannico e per metà yemenita ed editore di Comment Middle East - lo Yemen è finora stato assente non solo dalle agende politiche della comunità internazionale, ma anche dai media; e lo si deve da una parte alla persistente mancanza di comprensione della complessità del paese ma anche alla scarsità di esperti e opinionisti yemeniti che abbiano un’ottima padronanza dell’inglese, tale da contrastare l’appiattimento dei grandi mezzi di comunicazione. Tanto che se un tentativo di disseppellire il paese dalla generale noncuranza è nato, lo si deve alla diaspora yemenita, che mobilitandosi, ha dato vita alla campagna mediatica “Support Yemen”, contro il silenzio internazionale.

Per Gregory Johnsen, dottore dell’Università di Priceton e esperto di Yemen, la domanda che oggi la comunità internazionale dovrebbe porsi non è più “chi prenderà ora il potere nel paese”, semplicemente perché non esiste più un solo paese. Esiste cioè lo Yemen della capitale, Sanaa, quello coperto dai media, dove il figlio più grande del presidente Saleh, Ahmed Ali e una serie di fratelli e cugini, lottano per difendere i loro privilegi e fette di potere contro il generale al-Ahmar e contro almeno 10 figli del clan che ruota intorno allo sceicco Abdullah al-Ahmar. Ed esistono altri Yemen; dove - dopo mesi di disattenzione politica e mediatica, il rimpallo di responsabilità, la delega da parte di Stati Uniti e comunità internazionale all’Arabia Saudita e al CCG ad individuare un leader che fosse per prima cosa favorevole a Riyadh - a pagare il prezzo è la popolazione yemenita. 24 milioni di persone con un reddito pro-capite – secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale – di 1,280 dollari; dove uno yemenita su tre (dati Oxfam) è vittima di fame e malnutrizione croniche; dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 15% e dove a causa della scarsità delle risorse idriche, il prezzo dell’acqua è quintuplicato. E' per questi "altri" Yemen, che va individuata al più presto una soluzione politica. Nena News

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