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(10 Agosto 2013) Enzo Apicella
Un centinaio di manifestanti no-Muos è riuscito a sfondare la recinzione e ad entrare nella base militare americana di Niscemi, in Sicilia.

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Alluvione in Liguria e le Grandi Opere del Capitale

(23 Gennaio 2012)

Il maltempo che ha devastato la Lunigiana, poi Genova ed infine Messina ha causato anche in questo autunno la perdita di vite umane. Sui quotidiani solite prime pagine con titoloni, denunce, lacrime di coccodrillo.

Il maltempo che ha devastato la Lunigiana, poi Genova ed infine Messina ha causato anche in questo autunno la perdita di vite umane. Sui quotidiani solite prime pagine con titoloni, denunce, lacrime di coccodrillo.

In Liguria il 25 ottobre, nel giro di poche ore, un forte nubifragio ha ingrossato i torrenti rovesciando a valle ogni sorta di detriti. I maggiori fiumi, Vara e Magra, hanno dilagato nelle pianure intorno a Borghetto, Brugnato, Ameglia, Villafranca in Lunigiana ed anche a Pontremoli e ad Aulla, in alta valle. La catastrofe ha colpito anche le vicine Cinque Terre, in provincia di La Spezia: lungo il compluvio naturale che accoglie i villaggi di Vernazza e di Monterosso l’acqua ha cumulato enormi quantità di materiali solidi e, lungo la via principale trasformata in fiume, li ha spinti fino la mare.

Dopo solo un paio di settimane, il 4 novembre, anche a Genova hanno straripato i rii Fereggiano, Carrega, Vernazza e i torrenti Sturla e Bisagno.

I due disastri hanno causato 17 morti e migliaia di sfollati oltre ad ingenti danni stimati in circa 1 miliardo.

Nella sola Genova, nel periodo che va dalla Seconda Guerra ad oggi, già si elencavano ben nove alluvioni importanti: nel 1945, 1951 (due volte), 1953, 1970, 1977, 1992, 1993, 2010. Ogni volta, come in questa, si è incolpato l’evento eccezionale, senza precedenti, cosa che, evidentemente, non è.

La dinamica è sempre stata la stessa e simile anche a quella dello scorso autunno. Negli occhi dei genovesi rimane viva la tragedia dell’alluvione del 1970: allora il rovescio durò molte ore, tra le 19 del 7 ottobre e le 17 dell’8; in quell’arco di tempo a Bolzaneto, quartiere periferico in Val Polcevera, caddero, secondo le statistiche, 948 mm di pioggia, massimo nelle registrazioni della pluviometria nazionale nell’arco di 24 ore; se ne deduce che sui rilievi alle spalle di Genova in quelle 22 ore le precipitazioni avevano sfiorato i 1.100 mm.

Il 4 novembre scorso, nel quartiere di Quezzi, dove si è avuta la punta massima, è stato rilevata una quantità d’acqua con punte che hanno raggiunto i 542 mm. È vero che, rispetto al 1970, il nubifragio si è concentrato in un tempo inferiore, circa tre ore, ma è anche vero che la quantità d’acqua piovuta è stata la metà: non si può quindi parlare di eccezionalità.

Non grandi sono i bacini imbriferi a monte di Genova, non spingendosi lo spartiacque appenninico più di una dozzina di chilometri dalla costa, il che riduce i flussi ma ne determina un marcato carattere torrentizio.

Oggi la scienza dei fenomeni dell’atmosfera è in grado di descrivere la complessa meccanica di questi eventi e ci spiega come in Liguria si producono simili temporali. I venti caldi di scirocco risalendo il Tirreno si saturano di vapore acqueo; incontrando le correnti più fredde e pesanti di tramontana che precipitano dall’Appennino, sono sospinti rapidamente verso l’alto ove condensano formando giganteschi cumuli lungo la linea di costa. Si innesca così un sistema temporalesco che per varie ore scarica diluvi monsonici; il fenomeno è autorigenerante: fin tanto che rimane attiva la linea di convergenza fra le opposte masse d’aria, la corrente ascendente attrae altra aria calda ed umida dal mare.

Sappiamo anche che quando c’è vento di scirocco il Mar Ligure è mosso, le onde contrastano alla foce il deflusso dei fiumi e ne aumentano la piena.

È quindi possibile prevedere il decorso e la quantità di acqua che scaricherà un temporale. Infatti nei giorni precedenti il 4 novembre l’amministrazione comunale aveva diramato l’ “allerta 2”, che prevede esondazioni, frane, mareggiate ed un elevato rischio per l’incolumità degli uomini e danni alle cose. Ma il capitale nemmeno in questa fase di profonda crisi può permettersi di bloccare la produzione un solo minuto, tanto più di fermare una città intera per uno o addirittura due giorni. La società moderna, fondata sul capitale, non ha il controllo né sui fatti della natura né su se stessa, può solo ubbidire alle disposizioni del Capitale, anonimo e che tutto pervade; e che, dopo ogni catastrofe, cinico sorride alla distruzione, con tante merci da sostituire ed immobili da riedificare.

Ma tutto si sa, nulla si può. Innumeri quanto ormai quasi rituali relazioni di geologi ed ingegneri tornano ogni volta a ripeterlo, ignorate dagli agenti del capitale impegnato nel ramo del cemento e delle costruzioni: le leggi della meccanica dei fluidi indicano che dragare materiali, modificare il corso, la larghezza e la profondità del letto dei fiumi determina variazioni difficilmente prevedibili nel loro regime con serie conseguenze nel decorso a monte e a valle.

Il capitale impone agli abitati un accrescimento anarchico e privo di piano, comprese in questo dopoguerra le storiche città italiane, già modello di proporzioni e di un percepibile piano urbano. Tranne poche eccezioni, e non più ripetibili, capitalismo ed urbanistica sono incompatibili. Le città, prive, come il capitale, di misura e di confini, rispetto al loro opposto, la campagna, sono intrinsecamente irrazionali e instabili.

Anche la regione Liguria, nonostante la particolare e fragilissima conformazione morfologica, stretta tra Appennino e mare, ed antropica, con borghi arroccati sul mare e ripide valli terrazzate dal lavoro di millenni, è stata sconvolta da questo processo, che ha edificato nell’alveo dei fiumi e nel fondo delle valli, concentrandovi abitazioni, fabbricati industriali e civili. Oggi sono la conformazione urbana e la desertificazione dei pendii che rendono la Liguria la regione più vulnerabile alle piene dei fiumi.

Poiché, per il meccanismo della rendita fondiaria, nel capitalismo lo spazio per vivere è sempre più prezioso, è divenuto normale costruire, non solo vicino, ma addirittura al di sopra dei fiumi. Questi vengono tombati, voltati anche per tratti molto lunghi in un artificiale percorso carsico. Del fiume originale e del suo tracciato gli stessi abitanti della città presto si dimenticano. Sopra questi Stige si fanno strade, parcheggi, e perfino edifici.

I paesi delle Cinque Terre sono incassati, sul mare, nello sbocco di strette ed erte valli; fino a pochi decenni fa potevano essere raggiunti, comodamente, solo in treno, o in barca, e lì ci si muoveva a piedi. Il cosiddetto “progresso” borghese doveva però far crescere il numero dei “turisti”, per i quali è stata aperta una scomoda viabilità, su e giù da quelle giogaie lunga e tortuosa. Per far arrivare la strada fin sulla spiaggia si è dovuto passare sopra il rio, solo percorso possibile, ovvero, il meno costoso: coprendolo, si è ricavato a monte il parcheggio e attraverso il paese antico la nuova via. A Monterosso un enorme parcheggio è stato costruito sul mare.

Basta che un tronco d’albero trascinato dalla piena o altro si impigli all’imbocco del fiume sotterraneo perché si formi uno sbarramento e l’acqua sia costretta a passare di sopra. Se l’ostruzione si determina nel tratto coperto più a valle, l’acqua entra in pressione.

A Genova quasi tutti i rii e torrenti sono stati intubati, dalla periferia a monte della città fino allo sbocco a mare. Il rio Vernazza è completamente incanalato sotto quella che ora è via Pontetti: il 4 novembre l’acqua in pressione ha infranto e sollevato la volta del tunnel e da lì ha tutto inondato. Il rio Carrega, modesto affluente del Bisagno, non riuscendo a defluire in questo ha tracimato allagando la zona di Piazzale Adriatico, ad alta densità abitativa a 30 metri dal Bisagno e sotto il suo livello. Ma è lo straripamento del Fereggiano che ha causato i maggiori danni: scorre sotto l’omonima via; in questi ultimi anni si è completata la copertura di un’altra parte di questo torrente che oramai è quasi tutto intubato.

È evidente che riportare una città come Genova ad una condizione, non diciamo “naturale”, che non ha senso storico e pratico, ma sicura e bella, dopo secoli di capitalismo, è impresa molto molto difficile e controversa. Per il capitale è di sicuro impossibile. Ci si metterà il comunismo, senza fretta e quando saremo più saggi e sapienti.

Invece di prendere iniziativa alcuna, come ogni volta, è partita la ricerca, postuma, delle “responsabilità”. Le accuse alla maldestra gestione dell’allerta, la scarsa comunicazione alla cittadinanza, la lentezza dei soccorsi e così via. Si è tornati infine a denunciare i trascurati interventi di pulizia del letto dei fiumi. Come sempre la risposta è che non ci sono i soldi per farlo; ed è vero, il capitale non trae profitto ad impegnarsi in simili modesti lavori di manutenzione e si concentra nelle “grandi opere” – quasi sempre e sempre di più inutili o dannose – dalle quali può trarre giganteschi profitti e rendite, e senza rischi perché garantiti dallo Stato committente.

Nessun funzionario dello Stato del capitale né al centro né delle sue amministrazioni locali può avere la forza, quand’anche lo volesse, di arrestarne la corsa folle, la funzione dello Stato essendo giusto il favorirla in ogni modo e ad ogni costo, come comprovano i non altrimenti spiegabili ma inarrestabili progetti del ponte di Messina, del tunnel in Val di Susa, della Tav sotto Firenze.

Siamo già, benché ancora in pace, in una economia di guerra: al capitale mondiale, di nuovo precipitato in una delle sue cicliche crisi di sovrapproduzione, non basta più il consumo imposto, a forza, alla popolazione (per lo più di schifezze) e le commissioni statali “di pace”, scuole, ferrovie (dove non v’erano), strade, ospedali. Come mosso da una forza demoniaca deve distruggere per poter costruire. Le “grandi opere”, come la guerra, nessuno le vuole, ma è un fatto che la guerra viene. È una necessità economica. Volete il capitalismo? Vi prenderete, inevitabilmente, che vi piaccia o meno, prima il ponte di Messina, poi le bombe a tirarlo giù. Lo spettacolo demente che il politicantismo italico offre ai proletari, col passare dal clown che ride a quello che piange (letteralmente) è segno di questo avvitarsi e incarognirsi della crisi borghese.

È ora di spezzare questo ciclo demente. A Genova, nei giorni successivi alla alluvione, alcune centinaia di ragazzi sono andati a spalare il fango dalle strade; li hanno chiamati “angeli del fango”. Dei diavoli, invece, ci vogliono, alle pale, il diavolo proletario, che scavi profonda la fossa e ci seppellisca per sempre il corpaccio infetto e disfatto del Capitale.

Partito Comunista Internazionale

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