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I capitalisti investono in Messico attratti dal maggiore sfruttamento della classe operaia

(26 Novembre 2023)

il partito comunista

Alla classe operaia messicana, come negli Stati Uniti e in Canada, è mancata per lungo tempo la forza di un movimento sindacale indipendente.

I bassi salari, la scarsità di diritti dei lavoratori e l’impunità nei casi di loro violazione hanno reso il Messico una destinazione attraente per gli investimenti. La borghesia messicana ha ampiamente permesso l’afflusso di nuovi capitali, spinta dalla prospettiva di mercati di esportazione più aperti e dalla speranza di attutire gli effetti delle varie crisi economiche che il Paese ha dovuto affrontare.

La sovrapproduzione ha portato paesi come gli Stati Uniti ad esportare i capitaleiin eccesso in Messico, dove lo sfruttamento del lavoro si può intensificare senza ostacoli, alleviando la crisi e indebolendo il movimento operaio in tutto il Nord America.

Le risposte della classe operaia a questo quadro internazionale sono spesso segnate da confusione teorica. Oggi, quando ci troviamo nuovamente di fronte a una crisi imminente, è pressante la necessità di un’unità di interessi tra la classe operaia di tutti i Paesi e l’importanza di una chiara politica operaia, guidata dal partito comunista. Tale partito deve affrontare a tutto campo le sfide poste dal commercio internazionale, dei flussi di capitale e dei conflitti imperiali che sorgono nel continente, senza riprodurre le insufficienze dei movimenti ristretti nei limiti nazionali.

Il movimento internazionale dei capitali è fortemente influenzato dalla sovrapproduzione, che spinge i Paesi ricchi di capitali, come gli Stati Uniti, a cercare nuovi modi e luoghi per investirli e valorizzarli. In precedenza questi capitali erano diretti verso la Cina, grazie alla sua apertura economica, oggi si registra una maggiore diversificazione degli sbocchi con un aumento dei flussi verso Paesi come il Messico.

Questo spostamento è diventato evidente durante la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, che ha causato una stagnazione delle importazioni di beni cinesi negli Stati Uniti, con il flusso di esportazioni di capitali dagli Stati Uniti alla Cina fortemente diminuito.

Per altro anche la Cina attualmente deve fare i conti con la propria eccedenza di capitali, che cerca in ogni modo di esportare. È diminuita in Cina la quota delle esportazioni di merci rispetto al PIL.

Invece le esportazioni di merci dal Messico e dai Paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) in direzione degli Stati Uniti hanno registrato una crescita significativa, chiaro segnale che il capitale statunitense ha iniziato a spostarsi verso queste aree geografiche. Fra queste c’è anche l’India, dove si osserva un fenomeno analogo.

Nonostante l’appartenenza ai BRICS (una formazione di grandi economie regionali che comprende Brasile, Russia, India e Cina), il Messico non è stato oggetto di sanzioni esplicite da parte del governo statunitense e ciò ha permesso l’afflusso di capitali statunitensi che hanno favorito in particolare settori come quello automobilistico e dei componenti per computer.

La abbondanza di capitali in Messico ha permesso di invertire il segno della bilancia commerciale. Questo spostamento a favore del Messico è iniziato dopo la firma del NAFTA (North American Free Trade Agreement) nel 1994. Il libero scambio ha avuto un impatto positivo sulle esportazioni verso gli Stati Uniti, che si è tradotto in un afflusso di capitali in Messico.

Tuttavia, questa tendenza era stata ostacolata dall’aumento degli investimenti statunitensi in Cina all’inizio del secolo, ed è tornata ad affermarsi con la guerra commerciale sino-statunitense.

Approfittando di una posizione economicamente e politicamente più favorevole, lo Stato messicano ha adottato misure protezionistiche per salvaguardare i mercati nazionali. Tra queste, la nazionalizzazione di 13 centrali elettriche di proprietà della società spagnola Iberdrola, il divieto di utilizzare mais geneticamente modificato per il consumo umano e il divieto del glifosato in agricoltura. Inoltre sono state ridotte le esportazioni di petrolio greggio da parte della PEMEX (Petróleos Mexicanos) e in futuro si prevede di cessarle del tutto. È stata anche effettuata la nazionalizzazione delle miniere di litio. Il capitale messicano ha ottenuto così un maggiore controllo su settori industriali che in precedenza erano dominati da investitori stranieri.

Il Consejo Mexicano de Negocios (CMN), che rappresenta le 62 maggiori aziende messicane, ha confermato che investiranno 30 miliardi di dollari entro il 2023. Rolando Vega, presidente del CMN, ha dichiarato ai media che è necessario cogliere l’opportunità storica rappresentata dalla ricollocazione delle imprese in paesi vicini a quello di origine, detta anche nearshoring. Il governo messicano stima inoltre che entro la fine dell’anno ci sarà una crescita del 3%, trainata principalmente dagli investimenti diretti esteri nell’ambito del nearshoring statunitense. Nel 2022, la cifra degli investimenti esteri ha raggiunto i 35 miliardi di dollari, la più alta dal 2015. Si prevede che questo importo continuerà a crescere nei prossimi anni.

Frattanto i tassi di interesse sono aumentati parallelamente a quelli statunitensi: a maggio erano all’11,25%, abbastanza alti da impedire un massiccio deflusso di capitali, mentre ha favorito l’apprezzamento del peso rispetto al dollaro. A maggio un dollaro è stato quotato in media a 18 pesos, mentre durante il precedente governo un dollaro equivaleva in media a 20 pesos.

Il capitale bancario ne è uno dei maggiori beneficiari. Le 15 famiglie più ricche del Paese hanno aumentato le loro fortune di 645 miliardi di pesos. Nel frattempo si è assistito a un forte aumento del numero dei poveri, passati da 51,9 a 55,7 milioni. Il governo sta perseguendo una politica neoliberista classica, nonostante le manierate critiche nei confronti dei governi precedenti.

Gli Stati Uniti cercano di proteggere il loro accesso al mercato del Messico con diverse strategie, nonostante la forza concorrenziale che il crescente afflusso di capitali gli conferisce. Una è la minaccia di una guerra commerciale. L’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti ha lanciato un ultimatum al Messico, chiedendo l’apertura dei suoi mercati al mais geneticamente modificato, alle compagnie petrolifere straniere e ai generatori di energia, nonché un aumento della sorveglianza alle frontiere. Se non si raggiungerà un accordo, il caso sarà sottoposto a un collegio arbitrale nell’ambito del T-MEC (United States-Mexico-Canada Agreement), che ha sostituito il NAFTA, e saranno imposte sanzioni al Messico.

Oltre a questa minaccia, alcuni politici repubblicani, come il senatore Lindsey Graham e l’ex presidente Donald Trump, hanno menzionato la possibilità di un intervento militare in Messico, sostenendo la necessità di controllare la produzione di fentanyl da parte dei cartelli della droga. Questa posizione riflette l’orientamento ideologico interno del Partito Repubblicano statunitense. Per quanto tale intervento militare sia oggi improbabile, ben esprime le preoccupazioni commerciali degli Stati Uniti. I media statunitensi riflettono questi nuovi atteggiamenti, rimarcando una presunta perdita di democrazia sotto il governo di AMLO, il controllo sul Messico da parte dei cartelli della droga e altre questioni analoghe.

Il NAFTA e i suoi successori hanno avuto effetti significativi non solo sui conflitti commerciali ma anche sul movimento sindacale messicano. Dopo la Rivoluzione messicana, in molte categorie dominavano dei sindacati statali, spesso sotto il diretto controllo del regime. Questi sindacati “ottenevano” aumenti salariali che, in realtà, si traducevano in una diminuzione del potere d’acquisto dei lavoratori.

Dopo le crisi del 1976 e del 1983 lo sforzo per aumentare i profitti e la necessità di trovare nuovi mercati di esportazione hanno portato la borghesia messicana ad aprire il Paese al commercio, destabilizzando il precedente modello di sostituzione delle importazioni. Questi cambiamenti, insieme all’efficacia dei sindacati di regime nel controllo del costo della forza lavoro, hanno portato a un declino storico dei salari e all’impoverimento della classe operaia.

In risposta al grande flusso di capitali in Messico, la necessità della classe operaia messicana, americana e canadese convergeva nel procedere alla creazione di sindacati messicani indipendenti. Gli scioperi in tutti e tre i Paesi fecero pressione sui rispettivi governi.

A questo punto gli Stati Uniti proposero il NAALC (North American Labour Agreement), un trattato che prevedeva indagini sulle violazioni delle leggi sul lavoro, cercando di placare la classe operaia ma senza risolvere il problema di fondo. Infine, a causa di queste pressioni e della percezione che il sistema lavorativo messicano rappresentasse una “concorrenza sleale”, soprattutto da parte dei settori conservatori degli Stati Uniti, nel 2018 sono state concordate maggiori tutele del lavoro nel T-MEC (USMCA). Queste tutele, tuttavia, esistevano solo in teoria fino alla firma della riforma del lavoro nel 2019, che ha migliorato il procedimento di denuncia delle violazioni delle norme sul lavoro grazie alle pressioni dei sindacati messicani.

Un altro fenomeno che caratterizza le relazioni di lavoro tra Stati Uniti e Messico è la migrazione. Questa risponde alle esigenze del capitale nella regione. Dal 2005 al 2014 la tendenza è stata principalmente dagli Stati Uniti al Messico, rafforzatasi dopo la pandemia, quando molti lavoratori statunitensi si sono trasferiti nelle città messicane per sfuggire all’aumento del costo della vita nel loro Paese e per utilizzare il telelavoro.

Al contrario gli Stati Uniti hanno registrato alti tassi di immigrazione da altri Paesi, che contribuiscono a valorizzare il capitale statunitense in eccesso e a ridurre i costi di produzione, impoverendo la classe operaia. Tuttavia questa operazione non è stata sufficiente a risolvere il problema.

I media borghesi presentano questo fenomeno come un confronto tra i due popoli, in cui uno vince e l’altro perde. Invece questo apparente conflitto tra le due nazioni mostra in realtà l’unità della classe operaia, guidata dai flussi e dalla concentrazione del capitale. Infatti la classe operaia statunitense non può essere completamente libera finché la classe operaia messicana è in catene, e viceversa.

Ciò contrasta con la tradizionale retorica della borghesia, che promuove l’ideologia nazionalista. Più volte la borghesia messicana ha esaltato gli interessi nazionali, rappresentati dalla crescita economica, trainata dal flusso di capitali in Messico, come interessi che uniscono il proletariato e la borghesia. Invece questi interessi sono direttamente opposti a quelli dei lavoratori, poiché la presunta gloria nazionale è costruita a prezzo del sangue dei lavoratori. In primo luogo, il flusso di capitali in Messico si basa sul plusvalore che si estorce al lavoratore messicano, che è notevolmente più alto rispetto a paesi come la Cina e gli Stati Uniti. Il presunto “interesse nazionale” in questo caso è quello di massimizzare lo sfruttamento del lavoro per attirare più capitale. Per raggiungere questo obiettivo, è nell’interesse tanto della borghesia quanto della “nazione” aumentare l’orario di lavoro, ridurre i salari e diminuire gli investimenti nella sicurezza sul lavoro.

Storicamente questo è ciò che è accaduto a causa del forte corporativismo, del controllo dei sindacati e della condizione dei lavoratori negli anni ‘80. La borghesia messicana ha lavorato con successo per convertire la crescita economica nella precarizzazione del lavoro. Se i salari aumenteranno, sarà solo grazie all’azione coordinata dei lavoratori e a circostanze esterne favorevoli. La presenza di una forte sinistra opportunista è essenziale per deviare le lotte dei lavoratori e riassorbirle nella logica capitalista, il tutto per mantenere l’ordine nazionale e la crescita economica.

Il governo populista messicano sostiene di “integrare” gli interessi dei lavoratori con quelli della nazione. Invece i miglioramenti per la classe operaia si concretizzeranno solo se essa rimarrà indipendente e combattiva contro la borghesia. L’adesione del proletariato ai partiti della sinistra borghese rappresenterebbe la fine della lotta e un massiccio disarmo della classe operaia. Il fronte popolare che ne deriverebbe sarebbe soggetto alle inevitabili leggi del capitale e, nonostante le buone intenzioni dei suoi dirigenti, otterrebbe concessioni solo nella misura in cui non turberà i rapporti di produzione. In tempi di crescita, queste concessioni verrebbero a disarmare i lavoratori, mentre in tempi di crisi si tradurrebbero solo in una maggiore precarietà del lavoro, consentita dal loro disarmo.

Una visione ingenua della situazione attuale potrebbe portare a concludere che la migliore linea d’azione per la classe operaia messicana sia sostenere le richieste degli Stati Uniti, che affermano di voler migliorare la libertà di associazione sindacale. Tuttavia il sostegno ai sindacati indipendenti in Messico e considerarvi “ingiusto” lo sfruttamento del lavoro è solo per la difesa degli interessi dei capitalisti che producono negli Stati Uniti. Qualora la presenza di sindacati messicani indipendenti non contribuisse più alla accumulazione di profitti negli Usa e si tornasse ad investire in Messico, attratti dai bassi salari, la demagogia cambiebbe di segno. A quel punto, il Messico non sarebbe un Paese che attrae “ingiustamente” il capitale statunitense.

Al contrario della sottomissione alla politica di un fronte popolare, l’unica soluzione per i lavoratori è rafforzare l’autonomia del movimento operaio, necessariamente a scapito del capitale e della nazione. Dato che gli interessi dei lavoratori sono opposti a quelli della nazione e che si possono ottenere miglioramenti solo attraverso un movimento operaio indipendente, è necessario sostenere il disfattismo rivoluzionario anche in economia.

A breve termine ciò assume la forma di un movimento internazionale indipendente con un programma che mira ad aumenti salariali, riduzione dell’orario di lavoro e miglioramento delle condizioni di lavoro, contro gli interessi nazionali sia in Messico sia negli Stati Uniti. Le rivendicazioni della lotta proletaria in ogni paese devono essere estranee a ogni rivendicazione di carattere nazionale, poiché è storicamente dimostrato che il capitale utilizzerà la posizione più debole del proletariato di altre nazioni per indebolire i movimenti operai più forti. Solo in questo modo si possono risolvere gli apparenti antagonismi nazionali, come la ghettizzazione e l’immigrazione, e rivelare il vero antagonismo tra la borghesia e la classe operaia.

Questa contraddizione centrale si trova nel cuore stesso del sistema capitalista, nella divergenza tra la natura sociale del modo di produzione e l’appropriazione individuale caratteristica del capitale. E si manifesta nel conflitto tra borghesia e lavoratori, ma si riflette anche nel cuore stesso dell’impero statunitense. Gli Stati Uniti emergono come prima potenza mondiale grazie alla loro potenza economica, che li rende l’epicentro delle crisi di sovrapproduzione e il generatore di un’enorme eccedenza di capitale che deve essere esportata in Paesi dove è più redditizio come la Cina, l’India o il Messico. L’esportazione di questo capitale rafforza queste nazioni, creando borghesie abbastanza potenti da sfidare il dominio statunitense. Questo fenomeno è stato evidente nell’attuale caso della Cina, così come nella storia degli Stati Uniti, un tempo centro degli investimenti europei.

Il potere degli Stati Uniti è quindi caratterizzato da questa contraddizione centrale: la forza economice permette loro di esercitare un dominio globale, ma allo stesso tempo li spinge a rafforzare i potenziali rivali in grado di tenergli testa. Questa contraddizione sfocia inevitabilmente nelle guerre interimperialistiche. Ma essa contiene al suo interno anche la propria negazione, aprendo la strada a una società nuova che già lotta per emergere.

Il Messico si trova in un momento storico cruciale. Un significativo afflusso di capitali ha rafforzato la sua economia e gli ha permesso di assumere il controllo di mercati nazionali chiave come quello del petrolio, del mais, del litio. Di fronte alla risposta incerta del governo statunitense, i dirigenti messicani hanno fatto ricorso alla retorica nazionalista e opportunista per mobilitare i lavoratori in difesa della patria e contro gli Stati Uniti. Ma questa politica di unità nazionale serve solo a mantenere l’ordine borghese e impone gli interessi della borghesia al resto della società.

Ciò si traduce in un impoverimento generalizzato del proletariato e degli strati sociali subalterni e in una sconfitta non solo per la classe operaia di un paese ma per i lavoratori di tutto il continente. Pertanto è dovere dei lavoratori di tutto il Nord America coordinare le azioni di lotta in un programma unitario che affronti i loro problemi in ogni nazione. In questo modo il proletariato potrà contrapporsi ai movimenti di capitale fra diversi paesi, riflesso del crescente bisogno di plusvalore, accumulando materiale esplosivo per nuovi conflitti fra Stati. La sola soluzione a questi orrori è nella rivoluzione proletaria e nella distruzione del capitalismo.

Da "Il Partito Comunista" n. 425 (novembre-dicembre 2023)

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