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(6 Giugno 2010) Enzo Apicella
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Il fattore K a Timbuctu

(29 Gennaio 2013)

Nei giorni scorsi all'Ispi di Milano si è discusso di politica estera dell'Italia. Il seminario è stato aperto da una bella relazione di un professore inglese dell'American University di Roma.
Due i temi più battuti: lo scarso grado di partecipazione dell'opinione pubblica, della stampa e della stessa politica per i vari aspetti della nostra proiezione all'estero; la continuità o discontinuità nella successione di coalizioni di diverso colore. Il giorno prima era passata alla Camera la risoluzione sul finanziamento delle operazioni militari all'estero, compresa quella appena iniziata in Mali: un caso di studio che è adattissimo per conferme o smentite a seconda delle interpretazioni.
La quasi unanimità del voto sulla partecipazione dell'Italia alla guerra nel Sahel a rimorchio della Francia (un po' come avvenuto nel 2011 contro la Libia di Gheddafi) sembra dar ragione - fatta salva la prudenza pre-elettorale dell'ultima ora, tutt'altro che pacifista, con cui il premier italiano Monti ha voluto sospendere ogni decisione in merito - a chi ritiene che ci sia una tendenziale convergenza fra centro-destra e centro-sinistra (la classica bipartisan policy) imputando gli occasionali tralignamenti rispetto alla regola aurea dell'ortodossia alla piccola variante delle persone più che alle drastiche innovazioni di un cambio di governo. Ciò vale in particolare per l'equilibrio atlantismo-europeismo con una maggiore o minore propensione per l'uno o l'altro polo. Qualche licenza in più è concessa nella politica verso il Terzo mondo. Basta pensare al neo-atlantismo o mediterranesimo che negli anni Cinquanta venne perseguito con fortune alterne dalla Democrazia cristiana, soprattutto ma non solo dalla corrente di sinistra con Fanfani, La Pira e Mattei.
Nel periodo della guerra fredda il Partito comunista partì da una posizione dichiaratamente anti-sistema e si andò via via «normalizzando». Attraverso l'Ipalmo, latore di un anti-colonialismo sviluppista e pluralistico, e poi con un proprio centro di politica internazionale, il Cespi, che vide ai vertici fra gli altri Napolitano, Romano Ledda, Boffa, Adriano Guerra e Marta Dassù - quest'ultima consigliere diplomatico di D'Alema a Palazzo Chigi e alla Farnesina e ora sottosegretario agli Esteri in quota Pd - il Pci fornì un solido contributo all'elaborazione concettuale e documentata di una politica «terza» man mano che la dipendenza dall'Urss andava scemando. È quindi sorprendente, e imbarazzante, la pochezza del Partito democratico in fatto di analisi e di azione davanti alle sfide della politica internazionale.
A livello alto l'unica medaglia d'onore rimane l'operazione in Libano, realizzata grazie all'imprevista luna di miele sbocciata fra D'Alema e Condoleezza Rice. L'odio, del tutto ingiustificato, che quella iniziativa meritò a D'Alema sul versante Israele e relative lobbies dà un'idea del perché gli ex-comunisti fanno così fatica, al di là dei propri limiti, a orchestrare una politica estera decorosa. A ben vedere, infatti, le vittime dell'ordine post-bipolare sono sempre più i post-comunisti di seconda o terza generazione.
Gli eredi più diligenti del togliattismo praticano una specie di Realpolitik. Dovendo fugare ogni dubbio sul loro lealismo, poco importa se dal governo o dall'opposizione, eccedono in ortodossia e all'atto pratico in subalternità, verso gli Stati Uniti anche a spese dell'Europa. La vicenda del Kosovo fu la prova del fuoco in cui D'Alema si guadagnò i galloni sul campo - prima la guerra contro Milosevic e poi il riconoscimento del finto Stato - e si bruciò le navi alle spalle. L'allora ministro Scognamiglio, smentitissimo da Marta Dassù, sostiene che la crisi del governo Prodi nel 1998 - con Bertinotti forse attore non protagonista - fu provocata o almeno accelerata da chi diffidava della disponibilità piena di Prodi ad accettare di coinvolgere l'Italia nella guerra che dopo Dayton avevano in mente gli Stati Uniti per chiudere il cerchio dell'annichilimento della Jugoslavia. Nei Balcani la sindrome di Suez si rovesciò tutta a nostro danno. Non a caso, l'unico personaggio di vertice a essere refrattario, e lo dimostrò nell'ambito di una presidenza che doveva essere prudente per sanare le ferite aperte dai sette anni di Cossiga con finale choc, fu un vecchio democristiano come Scalfaro.
Se i «governativi» della diaspora comunista si sentono costretti a una deludente docilità per essere ammessi senza più riserve come pari, i resti della sinistra detta radicale pagano gli ultimi scotti alla condicio ad excludendum che una volta si riassumeva nell'etichetta del «fattore K» coniata da Alberto Ronchey. Qualunque obiezione è bocciata a priori, senza nemmeno prenderla in esame, perché promana da una parte politica fuori o ai margini del sistema. Chi si nutre del conformismo dominante sulla vulgata della globalizzazione e della falsa retorica sulle missioni di pace è debole in dottrina e nei fatti compiuti: proprio per questo non ha nessuna voglia di cimentarsi in un ragionamento che, lasciando perdere le presunte obbligazioni buone per tutte le stagioni, tenga conto della crisi in sé e magari dell'interesse nazionale. È accaduto con la Libia e sta accadendo con il Mali. Intanto a Bersani è arrivato il plauso dell'ambasciatore Antonio Puri Purini, persona degnissima ma establishment allo stato puro. Lo slogan è «non possiamo lasciare sola la Francia». Come se Azawad fosse un altro nome del Quartiere latino. E come se la Francia non avesse anticipato i tempi e scavalcato tutte le sedi multilaterali per essere se non sola in assoluto certamente sola al comando.
Dal male può venire il bene se i «centristi» alla Bersani, ormai legittimati a tutti gli effetti, prenderanno coraggio e si emanciperanno dal complesso d'inferiorità. L'affare degli F35, anche per l'impiego strategico di un'arma del genere, i risparmi di bilancio, ecc., è un ottimo test in questo senso (purché non scada a mero espediente per far dimenticare altri cedimenti). Nemmeno l'Europa con le sue regole stringenti deve essere un tabù da prendere o lasciare. L'osservanza della Costituzione e la fedeltà al soft power sono argomenti a cui ricorre senza remore la Germania, dove non conta il «fattore K» ma se mai il desiderio di un po' di purgatorio dopo il nazismo. L'Italia non è tanto diversa se non altro per il nostro cattivo colonialismo. Ci si aspetta così che Vendola e gli altri non demordano dall'opposizione all'ennesima guerra ma studiando e spiegando il merito invece che accontentarsi degli ideali. Sarebbe veramente triste se, mentre Berlusconi si è già pentito dell'operazione portata a termine con i neo-fascisti, si dovesse concludere che si deve a uomini e donne della fu sinistra, siedano al Quirinale o al Nazareno e domani a Palazzo Chigi, lo sdoganamento dei neo-colonialisti.
Il problema che ci interpella più direttamente in questo squarcio di storia è l'inclusione nel sistema mondiale dell'area arabo-islamica, in cui è ormai inghiottita una buona porzione di Africa, con gli strumenti della politica, dell'economia e della cultura evitando la catena dei conflitti. È assurdo che la sinistra non abbia una sua agenda coerente e motivata. La guerra è una questione eticamente sensibile e può anche attraversare gli schieramenti.

Gian Paolo Calchi Novati - il manifesto

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