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(26 Agosto 2010) Enzo Apicella
"The Negro Motorist Green Book" era la guida che permetteva ai Neri di viaggiare negli Usa segregazionisti utilizzando le poche strutture (mezzi di trasporto, alberghi, ristoranti, negozi...) che non negavano loro l'accesso.

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(1 Ottobre 2013)

Le ultimissime mosse di politica estera del presidente statunitense fanno discutere parecchi osservatori internazionali sui suoi reali intenti

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Doppiogiochista, apprendista stregone, Churchill o Forrest Gump prestato alla politica il presidente statunitense Barack Obama con la mediazione sulle armi chimiche di Asad (i cui siti solo dieci giorni addietro rischiavano di beccarsi i Tomahawk) e con l’apertura all’ayatollah Rohani è tornato sotto i riflettori mediatici e all’attenzione degli analisti politici. Si sa che sul primo cittadino d’America i riflettori restano sempre accesi, ma a lungo hanno evidenziato carenze, titubanze, errori e omissioni di un’amministrazione che da tempo naviga a vista sul non facile scacchiere internazionale e principalmente nel sovraesposto Medio Oriente. La cartina al tornasole di questo procedere zigzagante è la prassi delle opzioni opposte, estranea alle tattiche previste dal carnet delle scelte nelle situazioni di grave instabilità. Da cui ‘guerra e pace’ in Siria come nell’ultimo Afghanistan. Di sicuro ha colpito la tempistica con cui in spazi temporali brevissimi Washington dice “bianco e poi nero” con gli annessi scenari che quelle tonalità comportano.

Oscillazioni - Da qui le tracce d’incertezza oppure di mero cinismo che hanno caratterizzato le ultime due stagioni dell’Obama-pensiero, in Egitto altalenante fra l’occhiolino rivolto ai Fratelli Musulmani e il benestare offerto al golpe bianco del sempiterno esercito con successiva sanguinosa repressione; mentre sullo scenario siriano ai missili puntati su Damasco è seguito dietro front, quasi si trattasse d’un gioco. Questi stessi passi suscitano l’approvazione di chi ne constata il flessibile realismo e chi all’inverso evidenzia il contorno di scarsa credibilità assunto dall’attuale establishment statunitense. Secondo altri osservatori esso s’è ridotto a una dipendenza diplomatica da leader più determinati che parlano russo, francese o altri idiomi. In tanti concordano su un aspetto che in ogni angolo del medioriente, e probabilmente altrove, va consolidandosi in questi mesi: un progressivo e inesorabile svilimento del ruolo di gendarme del mondo, sorto con la dottrina di Monroe e sedimentato nel sistema imperialista statunitense.

Segnali - Funzione oggi assai fluttuante, sia per gli andamenti dell’economia mondiale, con o senza la crisi, sia perché al Congresso, in tanti stati della Confederazione e nell’orizzonte di molti yankee questa prospettiva fa rima con problemi e declino. Inoltre le considerazioni di alcuni analisti (Robert Kuttiner fra loro) ribadiscono perentoriamente come Oltreoceano non si possa negare la comparsa di una specie d’inquietudine nel sentirsi potenza militare sempre e comunque disposta a intervenire in ogni angolo del pianeta. A seguire c’è una crescita dell’orientamento, non diciamo antimilitarista, ma esplicitamente contrario alla guerra. Lo sostengono taluni sondaggi fra gli elettori democratici e pure repubblicani. Sondaggi d’opinione da prendere con le pinze, comunque segnali di cui i commentatori tengono conto anche fuori dall’immenso involucro a stelle e strisce che sigilla il popolo nord americano.

Scacchi - E’ chiaro che non basta una telefonata al volto oggi sorridente del “Grande Satana” per attenuare tutti i timori di deflagrazione dell’incendio mediorientale. Fra l’altro c’è chi rema contro: in casa, tutti coloro che mettono in guardia Obama dall’abile diversificazione del diplomatico Rohani, e da fuori gente come il Netanyahu da oggi ospite rancoroso della Casa Bianca che è venuto a dir la sua. Né basta uno spiraglio aperto pur sui temi caldissimi che hanno incrinato gli equilibri dell’area a trasformare gli statunitensi in immacolati “portatori di pace”. In ogni caso si prova a leggere fra le righe questa che è stata definita la “tridimensionale partita a scacchi del presidente Usa”. Si cerca di decriptarne passi in avanti e indietro, discernere i bluff veri dalle finte che somigliano alla giocata del pivot capace di schiacciare la palla a canestro. Un colpo efficace che in più fa impazzire gli spalti. L’unica amara sorpresa che potrebbe derivare da tante giravolte è scoprirne (il sospetto c’è) un’essenza funzionale solo alla propria sopravvivenza politica. Attuata, come s’usa fare, per risolvere le questioni domestiche e gratificare l’autoreferenzialità del prim’attore.
30 settembre 2013

articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it

Enrico Campofreda

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