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Dietro gli accordi di associazione tra Ue e Ucraina, Georgia e Moldavia

(28 Giugno 2014)

Europa- Italia -Ucraina. L’abolizione dei dazi e altre misure di «liberalizzazione», previste dagli accordi, metteranno queste economie – soprattutto quella ucraina, la più importante – nelle mani delle multinazionali non solo europee, ma statunitensi

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Petro Poroshenko

Deve essere chiaro dove vuole andare l’Unione euro­pea, ha chie­sto Mat­teo Renzi. Sfon­dando un uscio aperto: la dire­zione da seguire è già stata decisa, prima che a Bru­xel­les, a Washing­ton. Gli accordi di asso­cia­zione e libero scam­bio con l’Unione euro­pea, fir­mati ieri da Ucraina, Geor­gia e Mol­da­via, hanno non solo una valenza eco­no­mica, ma poli­tica e strategica.

L’abolizione dei dazi e altre misure di «libe­ra­liz­za­zione», pre­vi­ste dagli accordi, met­te­ranno que­ste eco­no­mie — soprat­tutto quella ucraina, la più impor­tante — nelle mani delle mul­ti­na­zio­nali non solo euro­pee, ma sta­tu­ni­tensi. L’Ucraina, secondo le stesse deci­sioni del governo e del par­la­mento di Kiev, cederà il 49% della pro­prietà dei gasdotti e dei depo­siti sot­ter­ra­nei di gas a com­pa­gnie sta­tu­ni­tensi (soprat­tutto Exxon­Mo­bil e Che­vron) ed euro­pee, che di fatto ne avranno il pieno controllo.

A que­sto alla fine è ser­vito il soste­gno bipar­ti­san alla rivolta di Maj­dan di Repub­bli­cani e Ammi­ni­stra­zione Usa. Allo stesso tempo, la pre­vi­sta «moder­niz­za­zione» dell’agricoltura ucraina per­met­terà soprat­tutto alle sta­tu­ni­tensi Car­gill e Mon­santo di impa­dro­nirsi di quello che un tempo era «il gra­naio dell’Urss». È un set­tore di pri­ma­ria impor­tanza: l’agricoltura ucraina, la cui pro­du­zione è aumen­tata come valore di circa il 14% nel 2013, for­ni­sce il 10% del pil e il 25% dell’export.

Il con­trollo della rete di gasdotti e dell’agricoltura ucraine for­nirà, soprat­tutto a Usa e Ger­ma­nia, un potente stru­mento di pres­sione sulla Rus­sia. Essa dipende in gran parte dai cor­ri­doi ener­ge­tici ucraini per espor­tare gas nella Ue ed assorbe oltre un quarto delle espor­ta­zioni ucraine, soprat­tutto agri­cole. Lo stru­mento eco­no­mico è fun­zio­nale alla stra­te­gia annun­ciata dal G7 che, svol­tosi a Bru­xel­les prima del Con­si­glio euro­peo, ha fatto pro­pria la linea di Washing­ton. Dopo aver annun­ciato un pro­gramma del Fmi da 17 miliardi di dol­lari per l’Ucraina, più altri 18 inve­stiti dai Sette per impa­dro­nirsi della sua eco­no­mia, il G7 «con­danna la Fede­ra­zione Russa per la sua con­ti­nua vio­la­zione della sovra­nità dell’Ucraina». For­mula fatta pro­pria dal Con­si­glio Ue il 23 giugno.

Tutto ciò spiana la strada all’ulteriore espan­sione dell’Alleanza atlan­tica fin den­tro il ter­ri­to­rio dell’ex Unione sovie­tica. Non va dimen­ti­cato che Ucraina, Geor­gia e Mol­da­via erano repub­bli­che sovie­ti­che e che l’attacco dell’esercito geor­giano all’Ossezia del sud, nel 2008, rien­trava sicu­ra­mente nella stra­te­gia Usa/Nato. E che già 23 dei 28 paesi della Ue sono oggi mem­bri della Nato: di con­se­guenza le deci­sioni prese nell’Alleanza, sotto lea­der­ship sta­tu­ni­tense, deter­mi­nano gli indi­rizzi dell’Ue. Tanto più che con le nuove «asso­cia­zioni» sia avvia l’iter — assai lungo — dell’ingresso di tre Stati di fatto alle prese con guerre e seces­sioni, come dimo­stra la crisi ucraina con il con­flitto nel Don­bass, la Trans­d­n­j­stria per la Mol­da­via e l’Abkazia per la Georgia.

Crisi che sem­brano ali­men­tate appo­sta per richia­mare più che la neces­sa­ria poli­tica di media­zione comu­ni­ta­ria, il ruolo di un’alleanza mili­tare viva e vegeta sul campo, la Nato che, invece, sarebbe dovuta scom­pa­rire come peri­co­loso fer­ro­vec­chio della Guerra fredda.

In tale situa­zione l’Italia fa la parte del vaso di coc­cio. Sia per­ché l’associazione dell’Ucraina all’area Ue di libero scam­bio per­met­terà alle mul­ti­na­zio­nali Usa ed euro­pee di con­trol­lare — siamo al para­dosso del neo­pro­te­zio­ni­smo libe­ri­sta — attra­verso l’immissione dei pro­dotti ucraini, il mer­cato agri­colo euro­peo e ita­liano, già in grave dif­fi­coltà eco­no­mica e sociale. Men­tre di fatto gli Usa attuano un rigo­roso pro­te­zio­ni­smo sulla loro pro­du­zione. Ma soprat­tutto per la que­stione cen­trale delle fonti di ener­gia. Basti pen­sare che sotto pres­sione degli Stati uniti, la Bul­ga­ria ha bloc­cato da poche set­ti­mane il gasdotto South Stream, la pipe­line stra­te­gica che dovrebbe tra­spor­tare il gas russo nell’Unione senza pas­sare per l’Ucraina.

Que­sto ten­ta­tivo sta­tu­ni­tense (soste­nuto dalla Com­mis­sione Ue) rischia di far per­dere all’Italia con­tratti per miliardi di euro, tra cui uno da 2 miliardi che la Sai­pem (Eni) si è appena aggiu­di­cata.
Sulla stampa inter­na­zio­nale vi sono voci ormai insi­stenti (smen­tite da Palazzo Chigi) che l’Italia voglia «con­ge­lare» il pro­getto, nato da un accordo italo-russo (fir­mato nel 2007 da Ber­sani). Nel pro­getto, il ter­mi­nale del South Stream è pre­vi­sto a Tar­vi­sio (Udine), che fun­zio­ne­rebbe da hub per lo smi­sta­mento del gas anche in altri paesi. Ora però la russa Gaz­prom e l’austriaca Omv hanno fir­mato un accordo che pre­vede il pro­lun­ga­mento del gasdotto fino in Austria, che potrebbe total­mente sosti­tuire l’Italia come hub.

Su que­sto sfondo Renzi, prima di chia­rire dove vuole andare l’Ue, chia­ri­sca dove vuole andare l’Italia. Se vuole restare o no sulla scia della stra­te­gia Usa-Nato che sta por­tando l’Europa a un altro peri­co­loso e costoso con­fronto Ovest-Est.

Manlio Dinucci, Tommaso Di Francesco - il manifesto

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