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LA GUERRA NEL POST-GLOBALIZZAZIONE E L’INTERNAZIONALISMO DEL MOVIMENTO PER LA PACE

(9 Agosto 2014)

Il quadro mondiale sta mutando rapidamente di segno rispetto alla fase contraddistinta dalla caduta dell’URSS, dall’accelerazione della globalizzazione, dall’assunzione da parte degli USA del ruolo di “gendarme del mondo”.
Le guerre esplose in diversi punti del pianeta, e di nuovo in Europa, presentano un segno diverso: quello della possibilità di essere propedeutiche o anticipatrici di un nuovo conflitto globale tra superpotenze, asimmetriche tra loro dal punto di vista della forza militare ma entrambe impegnate nello svolgimento di una funzione di tipo imperialista.
Di nuovo di fronte, insomma, USA e Russia: con l’oggetto del contendere, sotto l’aspetto bellico, della conquista di “spazio vitale”.
L’Europa torna così ad essere oggetto di contesa.
Una “già visto” però soltanto in apparenza.
Affermiamo subito ciò che serve a un movimento comunista e anticapitalista che intenda misurarsi con questo nuovo quadro d’insieme: riportare la pace come primo obiettivo della propria azione, considerandola sotto l’esclusivo aspetto dell’internazionalizzazione del movimento.
L’obiettivo della pace assume una valenza prioritaria, quasi di sintesi delle contraddizioni di questa fase della modernità: di sintesi e di riassunto al riguardo delle stesse prospettive di permanenza in vita dell’umanità sul pianeta.
Prospettive messe in discussione dall’assalto capitalistico alle risorse naturali, al territorio, all’ambiente. Assalto spinto fino al punto di alterare equilibri millenari e far presagire una vera e propria “espulsione” della vita umana dal globo nel giro di qualche generazione.
Senza la pace non vi può essere “politica” ed è questo il motivo perché bisogna far ritornare questo punto in cima ai nostri obiettivi in qualunque punto del Pianeta si lotti per il superamento del capitalismo.
Sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sfruttamento dell’uomo sulla terra, sull’acqua, sull’aria, genocidi, stermini di massa: un intreccio mostruoso che trova proprio il suo punto di saldatura nell’idea di guerra globale.
Il pericolo di guerra è tornato avere una sua logica razionale e strumentale all’interno del concetto e della pratica della modernità.
Dentro la globalizzazione era venuta a mancare la distinzione tra guerra e terrorismo, fra civili e militari, fra Stati e gruppi armanti “privati” e questo aveva fatto smarrire il senso della piena internazionalizzazione del conflitto.
Gli USA, autonominatisi “gendarme del mondo” avevano risposto a vari livelli con la guerra “asimmetrica” contro il terrorismo, la guerra “umanitaria” collocata ben oltre il principio della non ingerenza, la guerra “preventiva” collocata ben oltre il divieto delle guerre di aggressione: il tutto raccolto, a un livello superiore, nella guerra per “l’esportazione della democrazia” che si fondava sull’ipotesi che esistessero nessi cogenti fra la qualità interna di un ordine politico e la sua propensione alla guerra e che in un mondo tutto democratizzato la guerra divenisse impossibile.
Da lì i tanti disastri sparsi per il pianeta, dal Medio Oriente, all’Asia Centrale, all’Africa del Nord a quella sub-sahariana a quella orientale.
Il movimento anti-globalizzazione è stato su questo balbettante se non silente proprio per via della sua impostazione iniziale che escludeva la sua piena politicizzazione, tagliando fuori ogni possibilità che da esso sortissero ipotesi politiche strutturate di trasformazione radicale della società.
Il movimento no-global, in sostanza si è definito semplicisticamente anti-liberista perché ha accettato, nel profondo, il dettato filosofico della “fine della storia” enunciato da alcuni politologi americani di destra ispiratori – appunto – della politica aggressiva dei repubblicani USA al governo tra il 1981 e il 2009, con la sola interruzione della presidenza Clinton che aveva però accettato e introiettato il principio di fondo appena enunciato, come del resto la presunta “sinistra” occidentale: dal new Labour di Blair all’SPD di Schröder , all’Ulivo italiano principalmente nelle versioni D’Alema e Veltroni. Con il governo D’Alema, ricordiamo sempre, protagonista dei bombardamenti in Jugoslavia nel 1999.
Oggi è mutata la qualità di fondo della presenza della guerra in questa fase della storia ed è il caso di riprendere la riflessione su tre punti : la lotta per la pace come priorità di un’agenda che non dobbiamo farci imporre da nessuno; l’internazionalizzazione immediata del movimento (mai più manifestazioni per la Palestina a Londra con tutte le altre capitali silenti o quasi, ad esempio); la connessione, sul piano teorico e politico, dell’idea della pace con il complesso delle contraddizioni riguardanti lo sfruttamento dell’uomo, della natura, della vita in ogni angolo del pianeta.
Un brusco cambiamento di rotta, un necessario mutamento di paradigma dal quale potrebbe e dovrebbe sortire anche un’ipotesi e una possibilità di cambiamento nell’azione e nella strutturazione politica.
Forse è qui che si possono trovare le ragioni del socialismo del XXI secolo, invece che nella “politica a km. zero” o nel dibattito in un’assemblea di condominio.

Franco Astengo

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