">
Posizione: Home > Archivio notizie > Imperialismo e guerra (Visualizza la Mappa del sito )
(26 Gennaio 2005)
Dopodomani in Iraq si terranno le elezioni. Nonostante il clima della vigilia sia estremamente teso, gli Stati Uniti non rinunciano a presentarle come un momento di svolta, adottando toni trionfalistici.
D'altra parte, anche coloro che hanno criticato la missione irachena per l'iniziale mancanza di copertura ONU, ritengono che, ormai, le elezioni si debbano fare.
Ciò, dicono, per il bene di un ordine internazionale che non solo ha bisogno di frenare gli "eccessi" USA, ma deve evitare anche l'instabilità della Mesopotamia.
Dunque, il dibattito sull'Iraq prosegue.
Vi partecipano i filoamericani, desiderosi di far passare Abu Ghraib come un incidente di percorso, superato con la punizione di qualche responsabile.
Ma vi intervengono pure i "multilateralisti", quelli che auspicano imprese belliche sempre targate ONU ed in cui i bottini di guerra siano divisi equamente tra le potenze partecipanti.
Chi invece stenta a riprendere la parola, chi non fa valere il proprio autonomo punto di vista, è proprio il movimento che si è opposto senza se e senza ma alla guerra, attraversando le piazze di tutto il pianeta.
E' grave questo silenzio.
E' grave alla luce di quanto è accaduto a Falluja, dove l'operazione anti-guerriglia portata avanti dagli americani ha raso al suolo la città, costringendo la maggior parte dei suoi abitanti a vivere in accampamenti al di fuori di essa.
Ma il silenzio si fa assordante se si pensa che il Pentagono ipotizza l'uso, anche in Iraq, delle tecniche adottate negli anni '80 in Salvador per stroncare chi insorgeva contro un regime infame.
Si vuole, quindi, dare nuovamente il via agli squadroni della morte, istruiti dalle forze armate statunitensi per colpire non solo la guerriglia, ma anche chi è sospettato di appoggiarla.
In Salvador ciò portò a continui massacri, di cui furono vittime soprattutto i contadini.
In Iraq, il precedente di Falluja, ennesima conferma di un assoluto disinteresse per la popolazione civile, fa temere scenari ancor peggiori, tali da porre in pericolo l'esistenza di chiunque non accetti l'occupazione.
In sostanza, la cosiddetta esportazione della democrazia rivela tutto il suo sottofondo di violenza e di prevaricazione, dimostrando in cosa consista quella liberazione del mondo dalla tirannia su cui hanno insistito nei giorni scorsi George Bush e Condi Rice.
Quest'ultima, peraltro, ci ha fornito il nuovo elenco degli Stati-canaglia: Iran (rispetto al quale le operazioni militari sono già in preparazione), Corea del Nord, Cuba, Bielorussia, Birmania e Zimbabwe.
Ora, è evidente che questi paesi hanno la ventura di collocarsi in aree d'interesse strategico per gli States.
La Birmania, per esempio, si trova in quel sudest asiatico dove, dopo lo tsunami (definito da Condi Rice una "meravigliosa occasione per la democrazia"), Washington sta concentrando investimenti e marines per stabilirvi, contro la Cina, la propria egemonia.
Lo Zimbabwe, per toccare una situazione meno nota, si trova nella parte meridionale di un continente da tempo oggetto di una contesa senza esclusione di colpi tra Washington e Parigi.
Non intervengono, forse, Francia e USA, sostenendo fazioni diverse nella guerra che dilania da anni quella Repubblica democratica del Congo che è ricchissima di uranio, coltan, oro e diamanti? In uno scontro così aspro, che si svolge - in forme raramente esplicite - in diverse aree dell'Africa, lo Zimbabwe potrebbe essere un importante avamposto per gli States.
Ma anche le altre missioni preventivate - abbiano un risvolto militare o si concretizzino in sanzioni economiche e pressioni politiche - rientrano in un disegno volto a riaffermare il predominio USA sul pianeta, contrastando concorrenti agguerriti.
Ora, la retorica democratica non può coprire questa realtà.
Tanto meno in una fase come l'attuale, segnata in tutto l'occidente da una grande trasformazione: quella che coincide con la riduzione della stessa democrazia parlamentare a puro meccanismo, risolto nello svolgimento di scadenze elettorali che non rimandano più al principio di rappresentatività.
I parlamenti, infatti, hanno smesso da tempo di registrare le spinte provenienti dal sociale, fosse pure per mediarle, per renderle compatibili col sistema.
Molto semplicemente, le ignorano.
Ciò è evidente negli USA che, d'altra parte, da sempre riducono le competizioni elettorali a scontri tra due soggetti politici molto simili, legati a settori minoritari e privilegiati della popolazione.
Ma forse, la manifestazione più clamorosa di questo fenomeno la ritroviamo proprio in quell'UE che, per molti, rappresenta la faccia più mite dell'Occidente.
Si pensi alla Costituzione europea, da poco approvata dal Parlamento italiano.
Essa è il risultato di un processo anomalo, che non è scaturito, come sempre accade, da una spinta dal basso poi depotenziata in sede di Assemblea Costituente e che, per giunta, non ha visto la partecipazione delle masse in nessuna sua fase.
D'altra parte, se l'Europa politica è nata non da un bisogno diffuso nelle società, bensì dalla volontà di creare un soggetto in grado di competere con gli USA, non c'è contraddizione nel fatto che la Convenzione che ha redatto la sua Costituzione abbia lavorato al riparo dalle pressioni popolari.
Ora, gli esempi appena citati, sono rivelatori di un paradosso: mentre la propaganda sulle virtù del sistema democratico occidentale si fa sempre più intensa, questo stesso sistema muta i suoi connotati, recidendo i suoi nessi, seppure indiretti, con la volontà popolare.
La democrazia, dunque, è oggi, ancor più che in passato, la maschera del sopruso.
I dibattiti su come diffonderla nel mondo, se con le guerre di una potenza-guida o con la pressione unitaria (militare solo quando serve) della comunità internazionale, sono discussioni cifrate fra le potenze imperialiste sui termini del saccheggio di vaste aree del pianeta.
Le soluzioni condivise, sostenute dall'ONU, legate all'accordo fra gli Stati più forti, sono evidentemente quelle che consentono la spartizione della torta tra più soggetti.
Non solo: esse contengono in sé anche un alto grado di mistificazione, la logica della prevaricazione essendovi dissimulata dal rispetto della legalità internazionale.
Le missioni targate USA, invece, non solo per il loro portato unico di devastazione e di sangue, ma anche perché prescindono dalle regole, rendono evidenti le proprie finalità, vanificando la stessa retorica democratica di cui sono ammantate.
Per questo, chi è già sceso in piazza contro la guerra, non dovrebbe avere difficoltà nel riprendere la parola, nel riavviare la mobilitazione, così da contrastare l'eventuale dilagare della logica della sopraffazione dall'Iraq ad altri paesi.
Nello svolgimento di questa azione, però, bisogna compiere un autentico salto di qualità, tale da permettere di dare una prospettiva - e quindi una maggiore stabilità - al proprio operato.
Occorre far sì che esso risulti sempre più sganciato dalle richieste di quella sinistra istituzionale che crede nel rilancio dell'ONU e magari in una sua riforma.
Mai come oggi il messaggio di chi si batte contro la guerra deve essere identificato come cosa altra da qualsiasi discorso che spacci per desiderio di un ordine più giusto la ricerca di un equilibrio tra gli imperialismi.
Quel che ci insegna la vicenda irachena, quel che evidenziano i massacri commessi - nel nome della democrazia - dai soldati americani e loro alleati, è che la vera giustizia coincide con la possibilità, per i diversi popoli, di decidere autonomamente il proprio destino.
Roma, 28 gennaio 2005
Corrispondenze Metropolitane - collettivo di controinformazione e d'inchiesta
9312