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L’ammutinamento della Wagner, la Azov di Putin: cause e conseguenze

(28 Giugno 2023)

Lucio Caracciolo

Lucio Caracciolo

Per fortuna non siamo cremlinologi, la categoria di “esperti” più fessa e sfortunata mai esistita, che vanta un record insuperabile di previsioni sbagliate. Non siamo costretti, perciò, ad interpretare l’occulto (che, notoriamente, esiste solo in Russia; qui “da noi”, invece, i maneggi di potere sono sempre alla luce del sole…). Utilizziamo in queste note solo gli elementi in qualche misura certi per cercare di comprendere le cause degli avvenimenti russi di questi giorni e le loro conseguenze sulla guerra tra NATO e Russia in corso sulla pelle dei lavoratori ucraini e russi.

E’ stato un ammutinamento, non un golpe, né un inizio di guerra civile

1. Anzitutto: non è stato un golpe, né un inizio di guerra civile – a smentire quest’ultima cosa è la completa estraneità della popolazione agli avvenimenti. Nelle cancellerie occidentali e dintorni si è fatto un tifo assatanato perché di questo si trattasse. Perfino commentatori di solito prudenti quali L. Caracciolo si sono scapicollati a straparlare di un “colpo di stato” che “cambierà tutto”, con l’avvio di un possibile processo di guerra civile che potrebbe arrivare addirittura alla “disintegrazione della Federazione Russa”. Mentre la Zafesova, una vera jena della propaganda bellicista anti-russa, si è lanciata così spericolatamente dietro i suoi desideri da arrivare a definire l’intera costruzione di potere che culmina in Putin un “villaggio di carta”. Per l’ufficiale della NATO M. Molinari, occasionalmente direttore di Repubblica, siamo all’inizio della fine del regime di Putin. Boom! Si è trattato di qualcosa di certamente rilevante, ma di assai più modesto: un ammutinamento della più organizzata ed influente delle compagnie militari private di Russia (sono una ventina, all’oggi), che ha avuto finora una parte di rilievo nella guerra in Ucraina.
Le ragioni dell’ammutinamento

2. A cosa si deve l’ammutinamento? Secondo Putin a “interessi personali e ambizioni smisurate che hanno portato al tradimento del paese”. Secondo Prigozhin al fatto che “stavano per smantellare la CMP Wagner”, per darle “una distruzione fisica e intenzionale”. Mezze verità, mezze menzogne. C’è qualcosa di effettivamente smisurato di mezzo: sono gli interessi economici in ballo in questo scontro di potere. Ovvero le forniture non militari all’esercito – di cui il conglomerato di Prigozhin è da anni primatista -, le forniture militari alla Wagner e i sontuosi “premi” finanziari assegnati dallo stato, il ruolo nella gestione delle immense ricchezze minerarie del Donbass: la Wagner si è specializzata in questa ultima lucrosissima attività prima in Siria, e poi in Libia, Algeria, Mali, Burkina Faso, Sudan del Sud, Eritrea, Camerun, Guinea equatoriale, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Zimbabwe, occupandosi di petrolio, diamanti, oro, legname pregiato ed altre cosucce umanitarie del genere.

Reduce dalla “vittoria” nella orrida carneficina di Bachmut/Artemovsk, dove sostiene di aver perso 25.000 miliziani, Prigozhin ha mostrato di voler passare all’incasso pretendendo di dire la sua sui vertici militari della Russia, e chiedendo la sostituzione di quelli che ha bollato con irriverenza come i “due maiali”: il ministro della difesa Shoigu e il capo di stato maggiore Gerasimov. Senonché si è trovato di fronte alla decisione governativa e statale di doversi assoggettare dal 1° luglio, al pari delle altre CMP (tra cui la forza speciale cecena Akhmat comandata da Kadirov), ad un contratto vincolante con clausole stabilite dai suoi avversari. Ha visto, così, svanire di colpo il sogno di conquistare per i suoi uomini di fiducia il vertice militare che decide di un budget militare che è cresciuto, in un quarto di secolo, di più dell’800%, dai 9,3 miliardi di dollari del 2000 agli 84 miliardi di dollari per il 2023 (il 40% in più di quanto previsto nel 2021). Un budget che è poca roba se paragonato a quello dieci volte superiore del Pentagono, ma per la Russia è del massimo rilievo, e si prevede lieviterà ancora negli anni a venire specie se – tutto lo lascia pensare – la guerra in Ucraina non finirà a breve, e ne innescherà altre. Il fondatore e capo indiscusso della Wagner, gemella in grande del battaglione Azov inquadrato nel dispositivo militare di Kiev, l’“Eroe a tre stelle della Russia e della Repubblica di Doneck”, che assaporava altre e ben remunerative “medaglie”, composte da montagne su montagne di rubli, dollari, euro, si è visto obbligato a giocare la carta della disperazione: l’ammutinamento. E ha creato un certo scompiglio, dal momento che prendere il controllo di Rostov, centro direttivo delle operazioni militari in Ucraina senza incontrare alcuna resistenza, e arrivare a soli 200 km da Mosca non senza aver prima abbattuto diversi elicotteri e aerei, non è cosa da poco. Tant’è che il suo vecchio sponsor Putin, rimasto silente (complice?) davanti ad altre sue precedenti provocazioni verbali, è stato costretto a dargli del traditore della patria da punire, seppur senza mai nominarlo (interessante, no?).

Un compromesso soltanto provvisorio

3. Difficilissimo dire se questo estremo azzardo, tale pure per un irregolare come lui, abbia prodotto o no un compromesso stabile, e se questo compromesso sia più favorevole al gruppo intorno a Putin o invece a quello di Prigozhin. Staremo a vedere. Strologare oggi a riguardo è un esercizio fatuo, dal momento che circolano troppe notizie non verificabili. I due soli elementi relativamente certi, per ora, sono che (parola di Lavrov) non sarà toccato il ruolo di Wagner in Africa come braccio della politica estera di Mosca, una sorta di moscovita Compagnia delle Indie di stampo prettamente coloniale, e che ai miliziani di Wagner che rifiutano di essere assorbiti nell’esercito, sarà concesso di spostarsi liberamente in Bielorussia (parola di Putin). Giurare su queste due rassicurazioni sarebbe un inutile azzardo. Assai più utile, per chi come noi si batte contro la guerra da posizioni di classe e internazionaliste, è ragionare intorno agli argomenti portati da Prigozhin e alla risposta di Putin, nonché alle prevedibili conseguenze dei fatti dei giorni scorsi sull’ulteriore corso della guerra.

Il capo della Wagner ha battezzato la marcia verso Mosca come la “marcia della giustizia” rivolta contro gli incapaci e corrotti vertici militari della Russia, i cui figli, come i figli dei ricconi, “si puliscono le unghie in spiaggia”, mentre i giovani “figli del popolo” e i suoi prodi miliziani lasciano la vita sul campo di battaglia per la “patria”. Non si è limitato a questo. Ha invocato anche i suoi modelli positivi: “Bisogna vivere qualche anno sul modello della Corea del Nord… bisogna fucilare duecento persone, come ha fatto Stalin”, che certo “non avrebbe permesso” una simile mollezza e corruzione – qui la stoccata è rivolta a Putin, che ormai metodicamente richiama i fasti e i metodi della “Grande Guerra Patriottica” per legittimare la guerra in corso. Insomma, l’abile Prigozhin ha saputo toccare corde sensibili alle famiglie, proletarie per lo più, che hanno perso per sempre o hanno visto tornare sfigurati i propri figli, ricorrendo ad una retorica social-nazionalista messa in campo anche dal Cremlino.

A sua volta, dandogli del traditore della patria, Putin ha voluto fare riferimento al 1917, con un implicito, ma chiarissimo per chi vuol capire, riferimento a Lenin e ai bolscevichi che, a suo dire, avrebbero tradito la Russia (zarista) che era sull’orlo di vincere la guerra, pugnalandola “alle spalle”. Insomma, la furiosa battaglia di potere tra gruppi di interessi ultra-borghesi che si è svolta in questi giorni in Russia per il malloppo smisurato delle spese e dei profitti di guerra, e che appare tuttora in svolgimento, è stata condotta da entrambe le parti con argomenti nazionalisti o social-nazionalisti con l’occhio attento alla massa dei lavoratori russi, che della guerra e delle guerre che verranno sta già pagando e dovrà pagare lo smisurato costo. Tutti i gruppi di interesse a scontro hanno bisogno del sostegno, o almeno della passività benevola, della classe lavoratrice – la forza che, risvegliandosi, può rovesciare tutti i tavoli su cui si sta giocando la sua pelle.

La NATO cercherà di approfittarne, spingendo per intensificare la guerra

4. Normale che la NATO e la banda sempre più banderista di Zelensky ne approfittassero: sia sul piano propagandistico, alla grande, sia su quello delle operazioni militari, benché su questo secondo piano facciano enorme fatica. Ad onta della retorica bellicista sempre altisonante e falsa, l’umore a Kiev e Washington non era mai stato così depresso per quel che riguarda l’“offensiva” ucraina che ha finora proceduto a passi di lumaca e con grandi perdite, una volta tanto ammesse anche da Kiev. Nel complesso, però, le acute contraddizioni nell’élite dirigente russa che l’insubordinazione di Prigozhin e di parte della Wagner ha evidenziato, incoraggiano i guerrafondai della NATO ad intensificare le operazioni belliche. E poiché le truppe di terra ucraine sono sempre meno motivate a combattere dopo la carneficina di questo anno e mezzo, si sta facendo strada l’opzione anglo-polacca e dell’ala più oltranzista dell’amministrazione Biden: colpire con ogni mezzo il territorio russo, la Crimea, etc., e far scendere in campo in modo sempre più diretto le truppe NATO sotto forma, per adesso, di più corposi contingenti di volontari. La sola cosa certa è che i torbidi russi degli ultimi giorni (siano stati o meno incoraggiati dalla NATO, è secondario; in ogni caso si è trattato di un grosso aiuto oggettivo alla NATO) rendono ancora più improbabile la ricerca di una soluzione negoziata. La guerra in Ucraina sembra destinata ad incrudelirsi. Di sicuro hanno conquistato punti quelli che dentro la UE e la NATO spingono per aprire un secondo fronte con la Russia in Kosovo così da accentuarne il logoramento. Del resto, non approfittare delle evidenti difficoltà della Russia sarebbe contrario alla logica della guerra imperialista.

A sua volta, la Russia sarà spinta a far di tutto per mascherare le proprie difficoltà e, comunque, per evitare che si ingigantiscano – la classe dirigente della Russia ricorda bene gli esiti rivoluzionari delle sconfitte in guerra del 1905 contro il Giappone, e del 1917 contro la Germania. Non è un caso se nelle ultime settimane il ricorso all’uso del nucleare tattico in Europa è stato avanzato in pubblico da alcuni influenti consiglieri (o ex- consiglieri?) del governo di Mosca quali Sergei Karaganov e Dmitri Trenin che lo hanno presentato come un mezzo necessario “per spezzare la volontà dell’Occidente di sostenere Kiev e costringerlo a ritirarsi strategicamente”. Sul fronte opposto, chi si sta impegnando a fornire a Kiev mezzi di attacco sempre più potenti non fa altro che spingere in questa stessa direzione, con l’intento di fare il possibile per provocare Mosca a reagire con decisioni estreme. Lo abbiamo detto più volte: nessuno dei due campi può permettersi di perdere questa guerra. Tanto più ora. I lavoratori ucraini e russi, i lavoratori di tutti i paesi del mondo, dovrebbero tenerlo ben presente.

La guerra sta logorando sia la Russia, sia l’Ucraina e il fronte NATO – il ruolo delle compagnie militari private

5. La guerra in Ucraina sta logorando i due campi, sia quello che per ora sta “vincendo” sul campo (la Russia), sia quello che ha perso, finora, posizioni. Il costo umano – morti, feriti nel corpo e nella mente, profughi – per quanto ci venga nascosto accuratamente, è di sicuro alto. Il costo materiale è altissimo, dato che ogni fornitura militare, a qualsiasi latitudine e longitudine, dalla minima alla massima, è fonte di sovra-profitti da monopolio e/o da corruzione, oltre ad inglobare una quantità enorme di costosissima tecnologia spesso di ultima generazione (gli avanzi obsoleti pare siano già stati tutti scaricati). Inoltre l’UE ha perfino ammesso di avere difficoltà a reperire le materie prime necessarie alle ingenti forniture militari all’Ucraina. Il militarismo mangia il tessuto sociale, e anche i diritti sociali faticosamente conquistati dalla classe lavoratrice. La polarizzazione sociale si accentua a misura che la guerra contemporanea è una insaziabile idrovora, e il complesso militare-industriale è il più intoccabile dei santuari del capitale, specie in tempi di guerra. La rapida emersione delle compagnie militari private avvenuta negli ultimi decenni accentua ulteriormente i costi della guerra, e dà un carattere ancora più anarchico e brutale all’intero processo degli scontri bellici e alla militarizzazione dei rapporti sociali.

Fatti di Russia? Macché! Ancora una volta sono gli Stati Uniti l’avanguardia di questo corso del militarismo imperialista succhione, sfrenato e devastatore. Vi dicono niente i nomi di Hulliburton, Blackwater, Bechtel, Intercon, American Security Group, Wackenhut, Fluor, C3 Defence, Pathfinder Security Services e di altre decine ancora di imprese? In trent’anni sono stati conclusi 3.601 contratti tra il Dipartimento della difesa gringo e queste imprese che fatturano morte per il valore complessivo di 300 miliardi di dollari (dichiarati). E poi a seguire il Regno Unito (è uno dei pochi settori in cui ancora questo regno in putrefazione tiene), il Sud Africa, Israele e l’Italietta, sempre un po’ indietro, mai assente in questo genere di classifiche. La Russia è nel mazzo, la Cina pure. E le loro percentuali di “recupero terreno” sono notevoli, benché partano da dietro, la Cina soprattutto, essendo la Russia assai più attrezzata.

Il peso crescente delle compagnie militari private – non solo nella guerra in Ucraina – si deve ad un complesso di fattori: gli stipendi che assicurano (l’impresa di sicurezza di Gazprom, che fa capo a Redut, paga oltre 7.000 euro mensili, la Wagner intorno ai 5.000 in Europa, circa la metà in Africa); la forte motivazione ideologica, nel caso della ucraina Azov un iper-nazionalismo con forti richiami nazisti, nel caso della russa Wagner un iper-nazionalismo misto a richiami fasci-nazistoidi (il suo motto “Sangue, onore, patria” non ha bisogno di spiegazioni); la possibilità che esse, come la Legione straniera di un tempo, offrono a persone ai margini della vita sociale o che vedono incombere su di sé un rischio del genere, nonché ad autentici depravati born to kill (è il titolo di una rivista yankee ai tempi del Vietnam), di trovare una “ragione di vita”; ed infine, non certo per ultima, la crescente difficoltà a motivare a fondo le truppe non professionali, o non strettamente professionali. Non crediamo che menta Prigozhin quando afferma: “le divisioni del Ministero della Difesa, o meglio le reclute che sono state inviate per fermare il nostro cammino, si sono fatte da parte”; e neppure quando sostiene che i risultati dell’esercito regolare russo sono stati, sul campo, inferiori a quelli della sua Wagner. Quanto alle truppe ucraine, ci sarà una ragione per il credito bellico conquistato dal battaglione Azov rispetto alle truppe regolari, o no?

Gli effetti sociali e politici del crescente disordine globale

6. La crescente difficoltà perfino per le classi dirigenti di due paesi ufficialmente in guerra come Ucraina e Russia a motivare a fondo le proprie truppe non professionali, o non strettamente professionali, di cui si è detto, e la relativa sordità della massa dei lavoratori alla grancassa bellicista (al di fuori di Ucraina e Russia), sono due elementi su cui fare leva. Lo è, più in generale, il crescente disordine globale che vede – anche dentro i confini dell’Europa – un’intensificazione degli scontri tra gruppi di interesse e stati nazionali che può gettare altra benzina sul fuoco di una nuova recessione sempre sul punto di scoppiare.

I primi riflessi oggettivi di questo processo complessivo, che vede le necessità della guerra inter-capitalistica e della preparazione della guerra imporsi su tutte le altre necessità sociali, si sono materializzati negli ultimi mesi in Europa in svariate mobilitazioni sociali e sindacali, il cui trait–d’union è l’opposizione dei lavoratori alle politiche di austerity e al carovita determinati dall’economia di guerra. Purtroppo la massa degli scioperanti e dei dimostranti che hanno affollato le piazze in Francia, Gran Bretagna, Grecia e Germania non ha ancora introiettato la necessità di un’opposizione chiara ed esplicita alla guerra, anche (ma non solo) a causa del ruolo opportunista, e il più delle volte apertamente “sciovinista” in senso anti-russo, delle direzioni sindacali e politiche maggioritarie. Questo “gap” dovrebbe spronare le più genuine forze politiche e sindacali di classe a intensificare il lavoro di propaganda e di agitazione contro la guerra e il militarismo, e a fare ogni sforzo possibile per coordinarsi su scala internazionale.

I fatti confermano ogni giorno di più come il nuovo assetto “multipolare” del dominio imperialista che è il presupposto della tendenza alla guerra, determina nel campo proletario e dei lavoratori (l’unico campo che da internazionalisti ci sta a cuore) una linea di faglia chiara e netta, tra chi intende arruolarsi con uno dei campi imperialisti in guerra, e chi è contro questa guerra in Ucraina e contro tutte le guerre del capitale, senza se e senza ma. Nel giro di pochi mesi, questa linea di faglia ha lacerato, se non polverizzato, ciò che resta delle “vecchie famiglie” del movimento operaio novecentesco (trotskismo, stalinismo, operaismo, ecc.), nel loro insieme degradate verso differenti varietà di riformismo, dividendole al loro interno in campi avversi e inconciliabili. Una dinamica non tanto diversa (seppur in sedicesimo o in centosedicesimo) da quella che si verificò alla vigilia della prima guerra mondiale, allorquando buona parte dei partiti e dei sindacati operai passarono armi e bagagli nel campo “interventista”, mentre solo una minoranza irriducibile al riformismo seppe raccogliere la sfida del passaggio all’“Internazionale dell’azione rivoluzionaria”. Quella di oggi sarà una minoranza ancora più ristretta, essendo il riformismo dei riformisti di oggi ancora più inestricabilmente legato alle sorti del “proprio” capitalismo, e del capitalismo in generale. Come prova anche la vicenda di questa guerra, la rinascita del movimento proletario rivoluzionario internazionale sarà una vera e propria rinascita – e non certo una riorganizzazione.

Combattere il “settarismo” in nome degli interessi della classe nel suo insieme, anzitutto della sua autonomia da ogni frazione della classe sfruttatrice, significa innanzitutto lavorare al confronto e al collegamento tra tutte le forze autenticamente comuniste (sottolineiamo autenticamente perché ce n’è di “comunisti” anti-comunisti in giro per il mondo, e parecchi!! Come chiamare uno Zuganov? O, scendendo molto di livello, un Rizzo?), rivoluzionarie, anti-capitaliste, che si oppongono alla guerra e ai governi della guerra, a partire da quello di “casa propria”.

“Unire le forze contro la loro guerra”: il mandato dell’Assemblea di Milano dell’11 giugno

7. Le forti tensioni in Russia, le contraddizioni che – al di sotto della superficie – imperversano nel campo occidentale, il processo di logoramento e il malcontento sociale che la guerra stanno producendo, possono essere utilizzati a nostro vantaggio solo se non resteremo nell’attesa passiva di un mitico “crollo”, ma faremo il possibile per “unire le forze contro la loro guerra” – la parola d’ordine dell’assemblea dell’11 giugno scorso a Milano, organizzata da Tir, SI Cobas, Iskra, Fc, Fgc. Da quella assemblea sono uscite delle indicazioni di analisi e di lotta che intendiamo mantenere fermissime. Le richiamiamo al volo.

L’Italia è dal primo giorno in guerra. E la nostra azione disfattista contro la guerra, le guerre, del capitale deve partire proprio da qui: dalla denuncia e dalla lotta contro il governo Meloni, contro la “nostra” classe capitalistica, fondatrice e parte attiva delle alleanze imperialistiche (NATO e UE), seppur con un rango inferiore a quello dei capibastone d’oltre Atlantico e d’Europa, ma non certo in qualità di colonia – come vorrebbero certi raglianti gonfi di sinistro nazionalismo. Per metterci di traverso al piano inclinato del capitale, alla tendenza generale verso un devastante scontro-imperialistico (che è una possibilità concreta), bisogna organizzarsi contro la pace del capitale, e respingere senza se e senza ma le sirene di un impossibile capitalismo “multipolare equo, pacifico, prospero per tutti” sponsorizzato dalla Cina e dai paesi capitalistici ascendenti.

Anche se l’allarme non è finora sentito in modo adeguato dai proletari, tuttavia i lavoratori sperimentano i morsi del carovita, l’autoritarismo, l’aumento dei morti sul lavoro, il taglio al RdC, l’invadenza militare nelle scuole e nei più vari ambiti della vita sociale, benché senza legarlo ancora alla tendenza alla guerra su scala globale. Di qui l’impegno, che ha segnato i lavori dell’assemblea dall’inizio alla fine, a proiettarci verso la grande massa dei lavoratori e delle lavoratrici e a dialogare con tutto ciò che comunque si muove, sia pur debolmente, nella direzione di un’azione di contrasto ai piani di guerra dei capitalisti, sempre e comunque anti-proletari.

In quella sede è stato assunto un triplice impegno che è ora da onorare (e che intendiamo svolgere nel massimo raccordo internazionale e internazionalista possibile):

1)dar vita ad una campagna di mobilitazione di classe, anticapitalista, internazionalista contro il militarismo e l’economia di guerra, che prevede l’organizzazione di una mobilitazione nazionale davanti alla base di Ghedi, nella sua duplice veste di sede storica dell’aeronautica militare italiana e della NATO;

2)aprire un confronto costruttivo con tutte le realtà che intendano porsi sul terreno della lotta aperta e conseguente alla guerra in Ucraina e alla corsa alle armi, a cominciare dalla Rete No base di Coltano, per pianificare insieme iniziative comuni che rafforzino la spinta verso una mobilitazione unitaria in autunno;

3)partecipare in modo attivo alle iniziative già in corso per costruire uno sciopero generale del sindacalismo di classe e combattivo nei prossimi mesi, e per far vivere all’interno di tutti gli eventuali momenti di conflitti sindacali e sociali il no alla guerra del capitale, all’economia di guerra, alla disciplina di guerra, prevedendo specifiche forme di lotta adeguate allo scopo.

Il lavoro non manca.

Il pungolo rosso

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