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(29 Maggio 2006)
L’accumulo di spropositati poteri nelle mani del Primo Ministro (nuova denominazione del Presidente del Consiglio): è questo l’impianto della riforma costituzionale di Berlusconi e Bossi che mina alla radice la forma di governo parlamentare disegnata dalla Costituzione del ’48 ed intacca le basi della nostra democrazia. Un Primo Ministro che viene formalmente nominato dal Presidente della Repubblica «sulla base delle elezioni della Camera dei Deputati»; che per l’efficacia della sua investitura non deve più ottenere la fiducia delle Camere; che «determina» la politica del Governo senza alcun rapporto di collegialità col Consiglio dei ministri; che nomina e revoca a suo piacimento i ministri «dirigendo» (e non più solo promuovendo e coordinando) l’attività dei ministri medesimi; che è titolare esclusivo del potere di decidere la vita o la morte della Camera dei Deputati col conseguente suo scioglimento e col ricorso ad elezioni anticipate; che «può porre – così tortuosamente si esprime il testo – la questione di fiducia e chiedere che la Camera dei Deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo».
Un primo Ministro, quello della riforma, che all’inizio del mandato illustra il «programma di legislatura» alle Camere senza essere in alcun modo condizionato dalla loro valutazione perché il Senato ascolta ma non può interloquire mentre la Camera dei Deputati è chiamata dal primo comma del riformato art. 94 della Costituzione ad esprimersi in merito con un voto al quale la citata norma non collega alcuna conseguenza. Sicché, in caso di voto totalmente o parzialmente contrario, il Primo Ministro, salvo che – bontà sua – non si senta moralmente obbligato a dimettersi o a modificare il programma nelle parti non condivise dalla Camera, può continuare tranquillamente a governare attuando un progetto politico rifiutato in tutto o in parte in sede parlamentare. Una mostruosità costituzionale dovuta, da una parte, all’intento dei riformatori di attribuire al Primo Ministro il potere personale di decidere da solo il programma per l’intera legislatura e, dall’altra, all’ipocrisia di dare alla Camera il contentino di un voto degradato a semplice parere non vincolante. La riforma prevede – è vero – che la Camera può in ogni momento mandare a casa il Primo Ministro con una mozione di sfiducia ma è evidente che questa mozione non potrebbe mai avere ad oggetto, per non porsi in aperto contrasto col citato primo comma dell’art. 94, il complessivo «programma di legislatura» mentre resta gravissima, anche per la pericolosità del suo disvalore simbolico, la scissione operata tra un possibile voto di disapprovazione del programma ed un’eventuale mozione di sfiducia successiva.
La riforma costituzionale sulla quale si svolgerà il referendum del 26 e 27 giugno introduce insomma una forma di governo definito “premierato assoluto” perché attribuisce al Primo Ministro un vero e proprio “dominio” sul Parlamento che viene trasformato in un organo sostanzialmente esecutivo. Una sorta di “principato elettivo” che porta alle estreme conseguenze la personalizzazione della politica, che mortifica il ruolo del Parlamento e depotenzia le funzioni del Presidente della Repubblica, che crea una rischiosa frattura tra i principi di civiltà e gli obiettivi di progresso enunciati nella prima parte della Costituzione e gli strumenti operativi disciplinati dalla seconda parte dello Statuto per l’inadeguatezza dei secondi ad essere strumento al servizio dei primi che vengono invece, con le innovazioni introdotte, di fatto contraddetti e gravemente minacciati. Quanto poi alla cosiddetta devolution, basta rilevare che essa realizza il “trionfo” della confusione dal momento che attribuisce alle Regioni la potestà legislativa esclusiva su sanità, organizzazione scolastica e polizia locale dopo aver riservato alla legislazione esclusiva dello Stato le prestazioni del servizio sanitario nazionale, le norme generali sulla tutela della salute, le norme generali sull’istruzione e l’ordine pubblico con l’esclusione di una polizia amministrativa regionale di incerto significato.
Col referendum costituzionale non sono allora in gioco solo l’ordinamento e l’organizzazione della Repubblica ma anche i valori fondativi del patto costituzionale e quindi i diritti essenziali di ciascun cittadino. La Costituzione del ’48 ha convertito lo Stato di diritto nello Stato sociale garantendo i diritti di libertà contro indebite incursioni dei poteri pubblici ma sospingendo questi poteri ad attivarsi per promuovere lo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione dei lavoratori alle scelte politiche, sociali ed economiche del Paese con la rimozione degli ostacoli che di fatto la impediscono. Ed ha disegnato uno Stato democratico rivolto ad elevare le condizioni di vita di tutti i cittadini con un’attenzione privilegiata alle fasce sociali più deboli. Uno Stato impegnato a servire la causa della pace e della collaborazione tra i popoli. Un progetto che ha purtroppo trovato finora solo parziali attuazioni e che deve essere portato avanti con ogni determinazione. Occorre perciò cancellare col prossimo referendum una riforma che può bloccare questo progetto ed aprire la strada a gravi processi involutivi.
Brindisi, 26 maggio 2006
Michele DI SCHIENA
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