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I ministri ormai parlano da soli

(20 Febbraio 2007)

Quello che è accaduto stamattina all’ Università Statale di Milano ha dell’incredibile ma è al contempo estremamente indicativo di come la classe politica italiana sia ormai irrimediabilmente rinchiusa dentro al suo bozzolo di autoreferenzialità, senza più avere nessuna velleità di comunicare con l’esterno.

I Ministri Giuliano Amato e Tommaso Padoa Schioppa si sono recati all’Università, invitati ad un convegno sul tema della riforma delle autorità indipendenti ed hanno relazionato in un’aula magna completamente priva di studenti, ma in compenso affollata di giornalisti e addetti alla sicurezza.
Agli studenti che dovrebbero rappresentare l’unica vera risorsa di qualunque Università è stato intimato di rimanere lontani, confinati da un folle ostracismo all’interno di un aula dove avrebbero potuto assistere alla “lezione” in videoconferenza. Il motivo addotto per questa epurazione è stato quello di preservare la sicurezza dei Ministri, essendo la categoria degli studenti giudicata potenzialmente pericolosa.

Dimostrando notevole intelligenza nessuno degli studenti si è presentato nell’auletta “di confino” e solamente una decina di loro sono poi entrati in aula magna quando con un ripensamento tardivo e ormai fuori luogo, il rettore li ha invitati a farvi ingresso a metà della conferenza.

Resta da domandarsi quale paese sia quello in cui i Ministri si recano all’Università per dialogare con le guardie di sicurezza, mentre gli studenti vengono considerati elementi marginali e per giunta pericolosi da emarginare da quel contesto universitario che dovrebbe essere costruito e gestito unicamente per loro.
Resta da capire quale insegnamento potrebbero trarre i giovani da una classe politica che rifiuta di confrontarsi con loro perfino all’interno di un’aula di Università, preferendo considerarli “elementi pericolosi” da tenere a debita distanza.

Poco importa che Giuliano Amato durante il suo intervento si sia dichiarato turbato per la mancanza degli studenti e che gli organizzatori abbiano agli stessi tardivamente domandato scusa, quello che rimane di questa mattinata è solo un senso di amarezza e desolazione.

Marco Cedolin

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L'autoreferenzialità dei giochi di potere

Leggendo l’articolo di Marco Cedolin, ho ripensato tristemente a come il mondo della cultura vuole spesso emarginare i suoi protagonisti più giovani, pur essendo questi alle radici della sua vita interiore.

Il fatto che gli studenti siano stati esclusi dal convegno, è paragonabile al gesto di un ospite che prende a calci il padrone di casa e lo fa uscire dalla finestra.

Le aule sono le case degli studenti, le dimore dei pensieri viaggianti.
Simbolicamente e anche realmente, la struttura pubblica della scuola è il luogo dove studentesse e studenti crescono culturalmente e ricevono, non passivamente, la loro formazione: ciò che inesorabilmente cambierà la loro vita.
Purtroppo, questi teatri di dialoghi e di crescite intellettuali, sono talvolta luogo di incomprensioni. Ma questi refusi non sono causati, come ingenuamente qualcuno potrebbe sostenere, per “incapacità o fraintendimenti comunicativi”, poiché chi parla dallo scranno usa un linguaggio talmente forbito da non poter avere una platea all’altezza dei suoi ragionamenti. No. Il problema è un altro: è la volontà di chi ha assunto un ruolo importante all’interno degli atenei, di vendicarsi di qualche ingiustizia subita, oppure di pensarla senza fondamento, scaricando una rabbia travestita da decoro sulle spalle dei nuovi arrivati. E per molti di questi studenti che s’impegnano in uno studio totalizzante, l’ambìta strada della ricerca o dell’insegnamento non si aprirà mai, perché sempre come nuovi arrivati saranno considerati: eterni principianti in una scala mobile che per loro andrà sempre all’indietro, visto che dall’alto ci sarà sempre qualcuno che la farà girare al contrario.

Nel caso del convegno a Milano, i Ministri erano stati invitati a parlare. Ma in questo colloquio si è voluta eliminare l’anima del discorso.
Gli studenti sono stati percepiti come elemento disturbante di un argomento che evidentemente si voleva solo esporre come un quadro ben dipinto, già in possesso di leggi proprie e intoccabili.
Da questa stanza di dialogo, è stata paradossalmente esclusa la parte viva dell’Università, quella che costituisce il motivo stesso dell’essenza di un ente culturale. La vitalità dell’evento è stata cacciata fuori stanza, proprio come – a loro volta – i Ministri si sono ritrovati fuori dal vero dialogo partecipante, nel loro ruolo abituale di icone della legge, chiuse in un piccolo schermo, dove appaiono al centro di un’immagine fredda, distante, di fronte alla quale si volevano mettere come belle statuine quegli studenti che si erano recati nella propria Università apposta per sentirli di persona. Era così pericoloso?

Non importa che questa immagine tele-visiva provenga dall’altra parte del muro oppure dalla capitale, basta che sia mantenuta la distanza. Il divario. L’emarginazione degli spettatori nel ruolo passivo di ricezione dei concetti attraverso un mezzo comunicativo freddo, in modo che si possa creare un filtro insormontabile che dia automaticamente valore ai sistemi concettuali espressi dai portavoce.
Insomma, sembra che il concetto fondamentale e universalmente valido sia quello dell’impossibilità di avvicinare i propri rappresentanti, giunti al potere grazie al consenso della massa di cui facciamo parte. Sembra anche, però, che il potere abbia paura di trovarsi di fronte a chi gli chiede un confronto diretto. E mi chiedo se quello tra gli esponenti della società e gli esponenti del parlamento sarà sempre un colloquio impossibile, come se si trattasse di due diversi generi di umanità.

Ma qual è stato il pericolo percepito dagli organizzatori? Quale sarebbe stata la domanda studentesca che avrebbe fatto vacillare la stabilità dei relatori? Mi piacerebbe saperlo. Questo strano rifiuto di una presenza scomoda, ha creato una domanda in più che è entrata a far parte del dibattito: lo sfratto del padrone di casa ha generato un fantasma. La dialettica fra ospite/ospitante si è frantumata.

L’Università è già un luogo selezionato, dove molte protagoniste e protagonisti della vita sociale del nostro Stato non metteranno mai piede, perché sono troppo impegnati a lavorare in mestieri usuranti che ostacolano la loro voglia di sapere, e anche il loro possibile talento in altri campi.
Un convegno dovrebbe essere proprio il luogo di confronto fra diverse parti, specialmente se si discute di politica. Forse l’unica occasione perché i mondi paralleli della teoria e della prassi s’incontrino.

“Quello che è accaduto stamattina all’Università Statale di Milano ha dell’incredibile… – dice giustamente Marco Cedolin – ma è al contempo estremamente indicativo di come la classe politica italiana sia […] rinchiusa dentro il suo bozzolo di autereferenzialità…”. E’ proprio questo il punto. Esistono degli indici comportamentali, sia sociali che individuali, in base ai quali si può tastare il polso immateriale della nostra vita in comune nelle istituzioni. Non solo nella classe politica si riscontrano queste paure, ma anche nella cultura ai livelli più alti possiamo assistere a questo “livellamento” dei sensi, che avviene ormai in modo impercettibile per anestetizzazione culturale.
Quand’ero una studentessa di filosofia, mi ero buttata a capofitto in una tesi di Filosofia della Politica, e presentavo a cadenza settimanale i miei scritti al relatore, con il quale si era instaurata una collaborazione basata sulla fiducia e sul rispetto. Ma l’oscurità era all’orizzonte. Oramai non pensavo che mi succedessero ancora delle cose simili, degli eventi così spettacolari. Invece no. Mi sbagliavo. Ero ancora nel territorio dei baroni. Senza rendermene conto ero uscita dai miei confini, e avevo leso la dignità di un ladro di pensieri, che aveva già pensato a mia insaputa di mettere il suo copyright sulle mie idee. Per fortuna nella facoltà di Filosofia si studiano i concetti, e si presuppone che, verso la fine del loro iter di studi, sia concesso ai laureandi di esprimere un’idea vera, un’opinione costruttiva sui testi di non facile lettura che sono proposti nel piano di studio. Ma proprio alla fine del mio lavoro, il professore di un’altra cattedra, quella di Filosofia Teoretica, solo per aver saputo che la mia correlatrice era una professoressa di Milano che lui detestava, si è intromesso indebitamente e mi ha fatto una scenata incredibile, che era anche questa l’indice di qualcos’altro. Così, senza alcun motivo – se non quello di una gelosia patologica e di una emotività negativa dovuta a questioni di potere – un altro “ministro della cultura” con “potere di firma”, ha cominciato a mettere in atto una serie di atteggiamenti deliberatamente rivolti a rovinarmi l’esistenza, impedendomi di lavorare. Non sono stata l’unica ad avere un trattamento del genere. Altri studenti sono stati maltrattati proprio quando stavano per consegnare la tesi, e hanno subito vessazioni anche durante la discussione di laurea solo perché non dicevano quello che voleva sentirsi dire il professore che aveva più potere, notate bene: quello che aveva più potere, non quello che sapeva meglio discutere certi argomenti o che aveva l’autorevolezza per giudicare il pensiero degli studenti, la profondità della loro capacità di giudizio. Per tutta risposta, il mio relatore si è fatto mettere i piedi in testa, subendo le ingerenze del suo collega, e mi ha consigliato di accettare in silenzio le violenze psicologiche di questo barone. Ma il mio buon relatore non si è limitato a questo. Ha messo anche se stesso al sicuro: io avevo già organizzato un seminario con una studiosa di Pisa sull’argomento della tesi, che su suo invito avrebbe dovuto essere ospitata dalla nostra Università. Alla fine, esauriti tutti gli argomenti, dopo che aveva posticipato sempre di più l’incontro con varie scuse, il mio relatore ha chiuso la partita dicendo: “Mi dispiace, ma non si trova un’aula libera…”.

Ora, cosa possiamo aspettarci da menti del genere?

E’ difficile definire teste pensanti quelle di chi tenta di distruggere in un subdolo gioco perverso i propri antagonisti, basandosi su atti d’accusa deliranti e considerando il popolo studentesco come un mucchio di pedine inanimate da muovere a proprio piacimento. Oltretutto, gli studenti non dovrebbero essere gli antagonisti dei propri insegnanti, ma persone che questi ultimi dovrebbero considerare parte integrante del proprio insegnamento, ossia l’altra metà del loro orizzonte, materiale prezioso di discernimento da cui sempre potrebbero imparare qualcosa in più di quello che già sanno. E qualcuno a cui lasciare un’eredità.

So che queste considerazioni possono avere il sapore dell’Utopia, ma l’articolo di Marco Cedolin mi ha portato oltre l’indice irrimediabile di un bozzolo politico che rinchiude odio puro, per trovare un attiguo “bozzolo” della teoria politica, presente in altre contraddizioni sempre all’interno delle aule universitarie.

Ciò che riconduce alla stessa fonte questi due diversi casi di allontanamento e di emarginazione, è il fatto che le aule sono state private del loro vero ruolo: quello di unire le singole parti intorno a un problema comune per riuscire a vederlo nel suo intero. Invece di essere state riempite di gente, queste aule sono state svuotate e rese dei ruderi senza senso, come le rovine immaginarie di una vecchia Polis ormai dimenticata, sopraffatta dai giochi di potere che subdolamente strisciano accanto a chi ne studia i meccanismi e la geografia mentale.
Nelle barriere mediatiche fra il popolo e il politico, nell’allontanamento ipocrita da parte dei propri maestri, si avverte lo svuotamento esistenziale descritto così bene dall’autore dell’articolo che sto commentando.
Amarezza e desolazione sono i sentimenti ai quali approda chiunque vorrebbe sentirsi parte della sua città come singolo che ne condivide l’essenza, e che invece si ritrova in un angolo buio, in un magazzino senza inventario, dove l’idea del sentire comune è fraintesa. Essa viene considerata un semplice errore di espressione, o qualcosa di superfluo, quando è chiaro – invece – che non si tratta di un problema linguistico, ma di una scelta di campo.

(27 Febbraio 2007)

Manuela Calvieri

jasnaja.poljana@cheapnet.it

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