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SETTANT’ANNI FA: 1944, ANNO DECISIVO PER LE SORTI DELLA GUERRA E PER LA COSTRUZIONE DELLA DEMOCRAZIA REPUBBLICANA

(5 Aprile 2014)

La nostra Costituzione disegna un modello di democrazia repubblicana fondato sulla centralità del Parlamento considerato lo “specchio del Paese” e sul ruolo dei partiti: un impianto che è stato messo fortemente in discussione nel corso degli ultimi anni, contrapponendovi un’ipotesi di “Costituzione materiale” fondata sul presidenzialismo personalistico e la centralità del governo e che, adesso, si vuol modificare nel concreto scivolando pericolosamente all’indietro verso una forma di plebiscitarismo populista che ha già fornito, nella storia, pessime prove.

La Costituzione italiana e il modello di democrazia repubblicana non sono nati per caso o dalla testa di qualche professore di diritto costituzionale o di filosofia politica.

La sua origine deve essere ricercata, in maniera netta e precisa, all’interno dei contenuti che si espressero durante la lotta di Liberazione dal nazi-fascismo: non è retorica, ricordare questo fatto, è semplicemente ricordare la verità storica, per difenderla e - ancora una volta – affermarla pienamente.

La svolta verso l’ipotesi di una democrazia di massa, di tipo sociale, molto diversa da quella di tipo meramente liberale che aveva caratterizzato la fase di costruzione dell’Unità d’Italia fino all’avvento del fascismo (che, a differenza di quanto sosteneva Benedetto Croce, non poteva essere considerato una “parentesi”) avvenne proprio settant’anni, nel corso di quel 1944 durante il quale si delinearono con grande precisione le sorti della guerra mondiale e, in particolare in Italia, avvennero episodi di grandissima importanza.

Sullo scacchiere bellico il fatto di maggiore importanza fu sicuramente rappresentato dallo sbarco in Normandia e dalla liberazione delle due grandi capitali, Roma e Parigi, avvenuto all’inizio dell’estate: con lo spostamento del fronte da oriente verso occidente realizzato dall’Armata Rossa in esito alla battaglia di Stalingrado, si stabilì con chiarezza l’andamento bellico favorevole agli Alleati, al punto che nelle due conferenze successive di Bretton Woods (1-2 luglio) e Dumbarton-Oaka si posero già le basi, in precedenza alla stessa conferenza di Yalta, le basi del riassetto economico del mondo alla conclusione del conflitto: venne decisa infatti la convertibilità delle monete in base al valore del dollaro, la creazione della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, del Fondo Monetario Internazionale e le caratteristiche e il ruolo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che poi sarebbe stato precisato attraverso la carta di San Francisco.

Nello stesso tempo, in Italia, la Resistenza all’invasione nazi-fascista assunse decisamente il carattere di una lotta di massa, attraverso lo svilupparsi di alcuni fatti che possono essere considerati assolutamente decisivi, vere e proprie pietre miliari nella costruzione della nostra democrazia:

1) L’ingresso diretto nella lotta della classe operaia, quella delle grandi fabbriche del triangolo industriale. Dal 1 Marzo 1944 uno sciopero generale promosso dai comunisti con l’approvazione dei partiti del CLN ebbe inizio in tutte le regioni sottoposte all’occupazione tedesca, in particolare nel triangolo industriale Genova-Torino –Milano. Lo sciopero si protrasse per una settimana coinvolgendo centinaia di migliaia di lavoratori e interessando anche le campagne. Tutte le produzioni belliche furono bloccate. Per le dimensioni che assunse e per il carattere evidentemente politico, l’agitazione ebbe ampia risonanza nel paesi alleati. I tedeschi arrestarono centinaia di scioperanti, la maggior parte dei quali fu deportata in Germania, sia nei campi di sterminio sia in quelli di lavoro. Tutto questo non fiaccò la resistenza della classe operaia, anzi il 15 Giugno successivo, un altro sciopero proclamato alla Fiat di Mirafiori ebbe un grande successo;

2) All’indomani della Liberazione di Roma, l’11 Giugno, il governo “militare” del maresciallo Badoglio (al quale comunque avevano già aderito i comunisti, al momento del rientro di Togliatti in Italia) fu sostituito da un governo organicamente formato da esponenti dei partiti del CLN e presieduto da Ivanoe Bonomi. Questo fatto deve essere considerato come un punto di svolta fondamentale rispetto alla qualità stessi del modello democratico che si intendeva proporre al momento della fine del conflitto e della Liberazione del Paese, rifiutando – nei fatti – sia il ritorno alla democrazia liberale pre-fascista, sia una soluzione intrecciata tra continuità monarchica e fascismo “non compromesso” (rappresentato da chi aveva votato l’ordine del giorno Grandi il 25 Luglio) come sosteneva Churchill;

3) Nell’estate alle grandi stragi perpetrate dalla repressione nazista, dalle Fosse Ardeatine a Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema, la risposta della Resistenza non fu quella di un ripiegamento ma della formazione di una serie di repubbliche libere: dall’Ossola, al Friuli, da Montefiorino a Torriglia, ad Alba. Quelle repubbliche libere durarono, è vero, il tempo dell’estate e poi ci fu la controffensiva nazista, ma il seme di una diversa concezione della democrazia fu gettato e praticato proprio in quelle occasioni storiche che non possono essere assolutamente dimenticate. L’esperienza delle repubbliche libere risultò poi determinante anche nella risposta che il CLN riuscì a fornire , in novembre, al “proclama Alexander”, allorquando il generale inglese invitò le forze partigiane a ripiegare e a cessare sostanzialmente l’attività di guerriglia per attendere la liberazione da parte degli eserciti alleati. Quell’invito fu rifiutato e fu evitato lo smantellamento delle formazioni partigiane. L’esito di quella scelta coraggiosa risultò determinante il 25 Aprile 1945 quando le grandi città del Nord furono liberate dai partigiani e a Genova, caso unico in tutta Europa, i tedeschi si arresero davanti agli esponenti del CLN, deponendo le armi e consegnandosi prigionieri. Fu quello il momento più alto, nel quale, anche in Italia le masse entrarono davvero nella storia;

4) Sul piano più direttamente politico, nel mese di Luglio, sia il PCI a Roma con l’intervento di Togliatti al teatro Brancaccio, sia la Democrazia Cristiana con il congresso di Napoli determinarono già non soltanto la via della collaborazione per la ricostruzione post-bellica ma anche, definendo entrambe le forze la propria struttura di massa, il percorso della futura democrazia.

Trovava così la sua espressione concreta, nella prospettiva di una democrazia repubblicana che poi sarebbe stata suffragata dal voto popolare, un’idea di radicamento sociale del concetto di eguaglianza, superando l’idea del processo politico quale semplice “formalismo delle regole” come lo avevano inteso Weber, Kelsen e Schumpeter.

Emergeva, nella riflessione portata avanti dai partiti, il principio dell’eguaglianza dei cittadini non soltanto di fronte alla legge ma come sostrato di diritti fondamentali.

La democrazia avrebbe dovuto difendere e garantire il livello dei diritti sociali: salute, abitazione, condizioni di lavoro, assicurazioni sociali.

In Italia, pur nei ritardi dell’applicazione della Costituzione che non possono essere ignorati, divenne così di senso comune il collegamento tra i movimenti della società e la democrazia, rendendo così possibile – come avvenuto per lunghi tratti della nostra storia – il superamento della democrazia meramente “politica” o “borghese” incrociando le aspettative di riforma con la realtà dell’elaborazione delle forze politiche.

Sicuramente un processo difficile e complesso, non lineare, registrandosi, tra tentativi di golpe e “strategia del terrore” orchestrata dai servizi segreti nel clima della “guerra fredda”, ritardi e battute d’arresto, ma che – per oltre trent’anni dalla liberazione, fattore di miglioramento nella qualità di espressione della democrazia e della materialità delle condizioni di vita per la maggior parte dei ceti sociali, pur rimanendo diseguaglianze forti sia tra i diversi settori sociali, sia tra il Nord e il Sud del Paese.

Una qualità della democrazia che, è bene ricordarlo sempre, si espresse a lungo attraverso la massiccia partecipazione al voto: oltre il 90% nel periodo compreso tra il 1948 e il 1987 nelle occasioni di tutti i livelli di competizione elettorale sia politica, sia amministrativa.

Il calo nella partecipazione elettorale, via, via progressivamente dimostratosi fino ad assestarsi nell’attualità attorno al 70% (e forse meno) non deve essere considerato, come ritiene qualche illustre politologo, un semplice “riallineamento” verso le altre democrazie dell’Occidente considerate “avanzate”, ma un segnale sempre più consistente di una malattia grave del nostro impianto politico – istituzionale.

Non è possibile qui riassumere efficacemente le ragioni del declino di quella stagione e del ruolo dei partiti di massa (caduta del muro di Berlino, Tangentopoli, trattato di Maastricht), basterà ricordare come le soluzioni escogitate, cambiamento del sistema elettorale in senso maggioritario, esaltazione della personalizzazione della politica, decisionismo, abbiano aggravato la condizione della nostra democrazia, individualizzando pericolosamente l’agire politico complessivo, sempre più orientato dai singoli verso la ricerca dell’interesse personale in luogo di quello generale e collettivo.

Adesso si presenta, come si ricordava all’inizio, un tentativo di stravolgimento della democrazia repubblicana uscita – proprio – dalla Resistenza: un tentativo che va respinto per riaffermare, fino in fondo, la realtà, l’identità, il portato politico di una Costituzione che rimane ancora da applicare in alcuni suoi principi fondamentali e che sarebbe esiziale e deleterio abbandonare in mano alla sete del potere personale.

Franco Astengo

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