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Proletari e borghesi nella Russia capitalista di oggi

(15 Aprile 2023)

gazprom

Riprendiamo dal n. 52 di “Pagine marxiste” (marzo 2023) un articolo del compagno Roberto Luzzi che analizza in modo diretto e crudo lo “stato delle cose sociali” nella Russia d’oggi, illustrando – sulla base per lo più delle stesse statistiche ufficiali della Federazione russa – la divisione della società in classi sociali antagoniste. Una divisione che nei suoi tratti essenziali non si differenzia affatto dalla struttura sociale propria delle società capitalistiche appartenenti all'”Occidente collettivo”, se non, forse, per un’esasperazione delle disuguaglianze di classe.

Sappiamo bene, come sa bene l’estensore di questo articolo, che nell'”era Putin” (naturalmente questa formula è una semplificazione, prendiamo Putin come nome collettivo) vi è stata una complessiva risalita dal disastro in cui la Russia era precipitata nel decennio yeltsiniano nel quale avevano imperversato in Russia multinazionali e spietati “consiglieri” occidentali nel tentativo, fallito, di metterla in ginocchio (che è il sogno tuttora vivo di personaggetti demonazisti tipo la von der Leyen). Ma questa indiscutibile risalita che ha restituito alla Russia capitalista il suo statuto di grande potenza mondiale, benché abbia senza dubbio migliorato le condizioni di vita di masse di proletari, non ha modificato i rapporti di fondo tra borghesia e proletariato, e neppure i rapporti di forza tra le due classi, se è vero – e senza dubbio alcuno lo è – che l’auto-organizzazione dei proletari viene nella Russia d’oggi sistematicamente contrastata dall’operato statale, oltre che dai padroni del vapore.

I nazionalisti “rosso”-bruni puntino pure tutte le loro fiches sulla Russia di Putin in quanto “oggettivamente anti-imperialista” (con argomenti e mire smaccatamente “grandi-russe”, ben esplicitati da un Medvedev che può esprimerli senza filtri diplomatici); noi puntiamo, invece, le nostre sui proletari e le proletarie della Russia, ancorché siano oggi silenti e magari favorevoli in maggioranza all’invasione dell’Ucraina, come la maggioranza dei proletari ucraini lo è, forse, alla guerra di Zelensky e della NATO. Per questo abbiamo dato voce, finora, a quei piccoli gruppi di compagni e di proletari (il Partito operaio rivoluzionario, la Lega della gioventù comunista rivoluzionaria (bolscevica) di Russia) che, per quanto ideologicamente lontani da noi, esprimendo un sentire di classe, si rifiutano di allinearsi allo sciovinismo imperante e di compartecipare al massacro in corso. Solo attraverso la faticosa riconquista dell’autonomia di classe nello scontro con la propria borghesia e le sue istituzioni statali il proletariato russo ritornerà ad essere quella stella rossa nel cielo di fuoco della rivoluzione mondiale che fu un tempo. (Red.)

Proletari e borghesi nel capitalismo russo

Il presidente americano Biden giustifica l’impegno di decine di miliardi di dollari per armare l’Ucraina come difesa della democrazia contro l’autocrazia. Uno strano “sacrificio” di risorse per una tal nobile causa da parte della stessa potenza che ha sostenuto e sostiene dittatori in mezzo mondo (da Pinochet ai reali sauditi, anche se ora Bin Salman, fiutando il vento multipolare, gli sta girando le spalle…).

Noi non crediamo che Stati Uniti e alleati NATO siano in guerra con la Russia per ciò che li differenzia come sistemi politici, ma per ciò che li accomuna come sistemi sociali: il capitalismo. È nella natura del capitalismo, specie se fortemente concentrato e maturato in senso imperialista, la lotta per i “mercati” e le materie prime, dove per “mercato” si intende anche quello della forza lavoro, l’unica merce il cui acquisto genera più valore di quel che costa.

Gli Stati Uniti d’America sono da oltre un secolo il modello del “capitalismo puro” e selvaggio, il regno della “libertà” … di sfruttare il bisogno di lavorare altrui per arricchirsi – un modello al quale sempre più si stanno avvicinando anche i paesi europei con la precarizzazione dei rapporti di lavoro e lo smantellamento dello “stato sociale”, con il risultato di una crescente divaricazione tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.

Come si presenta sotto il profilo sociale la Russia, il cui governo sta sfidando le potenze occidentali in Ucraina? A oltre 30 anni dal crollo dell’URSS nella percezione comune permane l’idea che si tratti di una società in qualche modo diversa e comunque non così selvaggiamente capitalista come i paesi occidentali. Ma un’analisi condotta principalmente sulle stesse fonti ufficiali russe ci mostra una società divisa nelle stesse classi di sfruttatori e sfruttati, con ineguaglianze non meno forti che nei paesi capitalistici occidentali.

Nell’attuale guerra tra imperialismi NATO e imperialismo russo in Ucraina non c’è un “male minore” da scegliere, ma lo stesso male peggiore su entrambi i fronti, da combattere con l’unione dei proletari di tutti i paesi.

L’Annuario Statistico 2020 della Russia1 (dal quale sono tratti i dati quando non siano specificate altre fonti) dà una popolazione di 146,3 milioni di persone, con un calo naturale di oltre 300 mila (più morti che nati) in un anno. Trent’anni fa c’era un milione di abitanti in più. Anche qui come in Italia il tasso di fertilità, pur risalito da poco più di 1 figlio per donna nel 2000 a circa 1,5, determina un continuo declino demografico, che l’immigrazione colma solo in parte. E’ in parte l’effetto di una società fortemente urbanizzata (i tre quarti della popolazione vive in città, contro meno di 1 su 5 nel 1917; oltre la metà vive in centri con più di 100 mila abitanti), dove una parte della popolazione non ha un reddito sufficiente per metter su casa e far crescere dei figli, anche a seguito dello smantellamento di gran parte del vecchio welfare. Tuttavia le maggiori metropoli della Russia europea sono in crescita grazie a una migrazione interna da Siberia, Estremo oriente e regione del Volga, che quindi si vanno spopolando ulteriormente. Il divario città-campagna è infatti notevole, con una incidenza della povertà nelle campagne più che tripla che nelle città.

L’aspettativa di vita alla nascita, un indicatore sintetico del “benessere materiale”, che aveva raggiunto i 69 anni nel 1990 per poi scendere a 65 nel 2000, a seguito del crollo economico e del dilagare di disoccupazione e povertà, è risalita a 73,3 anni nel 2019 (4 anni meno che negli USA, 9 meno che in Italia). Ma per un uomo la speranza di vita è di 68 anni, dieci in meno che per una donna. Il divario tra uomini e donne è tra i più alti al mondo, e più che doppio rispetto all’Italia, un fatto in parte correlato al diffuso e storico alcolismo maschile.

Forte proletarizzazione, bassa la quota dei salari sul reddito nazionale

Gli occupati sono circa 72 milioni (donne 35 milioni, quasi alla pari con gli uomini), di cui 67 milioni, pari al 93%, sono lavoratori dipendenti, solo un 5% sono lavoratori autonomi, 1,5% imprenditori. Un livello di proletarizzazione, quindi, tra i più elevati del mondo, con numeri molto ristretti di strati intermedi e piccola borghesia (in Italia sono 3-4 volte più numerosi). Tuttavia ai lavoratori dipendenti va solo il 45,7% del reddito nazionale (quota in calo di 4 punti rispetto al 2010, quando era del 49,6%, secondo le statistiche ufficiali), cifra che include i trasferimenti ricevuti tramite lo stato sociale (sanità e benefici vari). Il restante 54,3% va in larghissima parte al milione di capitalisti2, e principalmente ai più grandi tra essi, i cosiddetti “oligarchi”, che ringraziano Putin le cui politiche gli hanno permesso di aumentare i profitti a scapito dei salari.

Questo primo dato grezzo ci dice molto della struttura sociale russa, fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato quanto e ancor più, se possibile, delle società europee e nordamericana. I dati ILO sulla quota del PIL che va al “lavoro”, e che comprendono anche stime (opinabili) sulla remunerazione del lavoro dei lavoratori autonomi, dà Francia, Germania e Italia tra il 60% e il 63%, USA e GB al 57-58%, la Russia al 52%. In ogni caso in Russia la quota del prodotto totale che va al capitale risulta maggiore che nei paesi capitalisti occidentali, indice di un maggiore tasso di sfruttamento e di un minore potere contrattuale dei lavoratori. Da notare che il lavoro “informale”, ossia l’economia sommersa (evasione fiscale e contributiva) è stimato al 17% del totale, in forte crescita rispetto al 12% del 2010. Il putinismo ha favorito anche questi processi sociali, non diversamente da quanto avvenuto in Italia e Germania negli stessi anni con la liberalizzazione del mercato del lavoro.

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Roberto Luzzi

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