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(19 Febbraio 2003)
Il documento comune sulla guerra all’Iraq redatto dai quindici paesi dell’Unione Europea dopo le divisioni e le lacerazioni delle scorse settimane, conferma la traiettoria a zig zag seguita dall’establishment europeo.
Secondo alcuni commentatori, le conclusioni del vertice passano una mano di vernice sugli aspri dissensi ma le divisioni che si sperava di sanare sarebbero pronte a riesplodere. Per altri la minaccia del conflitto iracheno sta accelerando drammaticamente quel confronto tra Europa e Stati Uniti che agitava le previsioni sul nuovo millennio. Insomma, tutto c’è tranne che il punto di coesione sostanziale che consentirebbe ai paesi europei – per la prima volta nella loro storia degli ultimi cinquanta anni – di affermare la propria identità e le proprie ambizioni strategiche attraverso un No chiaro all’escalation bellicista degli Stati Uniti.
E’ consapevolezza comune tra i leader europei, che questa guerra sarebbe drammatica non solo per l’Iraq e il Medio oriente ma anche per l’economia e l’autonomia del progetto europeo. Tant’è che il loro dissenso dalla politica statunitense non è affatto di carattere etico o morale ma materiale.
Se gli USA riusciranno ancora una volta ad imporre la loro supremazia militare ed a tenere fuori l’Europa dalla definizione degli assetti in Medio oriente, le ambizioni strategiche del nucleo duro europeo andrebbero a farsi benedire per qualche altro decennio smantellando venti anni di tentativi di fare dell’Europa una potenza globale di un mondo multipolare.
Ma questa contraddizione, potrebbe aprirne un’altra dentro i movimenti pacifisti protagonisti della straordinaria giornata contro la guerra del 15 febbraio. Infatti molte forze politiche indicano con estrema facilità Francia e Germania come compagni di strada di questo movimento ma non spiegano fino in fondo perché dovremmo avere come alleati le ambizioni strategiche di due potenze europee. I partiti che chiedono a questo movimento di appiattirsi sulle posizioni di Parigi e Berlino, omettono di spiegarne il perché ed i costi politici da pagare. Un’Europa forte dovrebbe infatti triplicare le proprie spese militari per proporzionarle con quelle statunitensi. In pratica dovremmo votare a favore dei crediti di guerra. Qualcuno potrà invitarci ad attapparsi il naso in nome della realpolitik ed a guardare all’alleanza tra movimenti pacifisti e governi europei come scelta obbligata per fermare il nemico principale. Ma allora dovrebbero dichiarare pubblicamente nei loro documenti e nei loro interventi che oggi gli Stati Uniti dell’amministrazione Bush sono il nemico e la minaccia principale per le sorti dell’umanità. In questo caso l’alleanza sarebbe legittima. Ma allora, perché si omette tale dettaglio e si rincula continuamente di fronte alla ipocrisia sull’antiamericanismo? Essere antiamericani non è un reato, anzi, forse è al momento l’unico elemento di coesione di una identità europea che le classi dirigenti stentano ancora a definire ma che appare priva di quei contenuti sociali, democratici e pacifisti manifestati in questi mesi dai movimenti. Da questa contraddizione sarà difficile svincolarsi.
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