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(4 Febbraio 2009)
Su questo titolo, sotto la bella foto di Madrid, sicuramente qualcuno arriccerà o il naso o le sopraciglia, a seconda di disgusto o perplessità. Ho violato un tabù! Ma come, “con qualche ma” ! Scandaloso vero? E invece va bene così, sempre se sei un amico vero di Cuba, e non un suo chierico adorante, e se alla rivoluzione cubana ci tieni come all’anima tua. Se c’è una cosa che nei lunghi anni della mia frequentazione di Cuba e della diffusione che vado facendo di voci, immagini e verità cubane, mi ha profondamente infastidito è l’adorazione acritica di tutto quanto succede nell’isola, dal belato della pecora alle dichiarazioni di Fidel. Nel parlare della rivoluzione giovane di cinquant’anni, ma con qualche ruga, mi preme in primis prendere le distanze da questa genìa. O quanto bene la conosco! Sono coloro che hanno in corpo il bisogno infantile di prostrarsi davanti a un qualche idolo, vitello d’oro o Jehova che sia. A volte, gratta gratta, sotto i “senza se e senza ma” ci trovi gente che a Cuba si è fiondata al richiamo di stimoli del tutto extrarivoluzionari, extrapolitici, e che poi queste istanze delle loro zone basse rivestono delle pailettes fideliste, guevariane, più che dell’ identificazione con l’arduo, nobile, a volte intralciato (un passo avanti e due indietro, diceva Lenin), cammino della rivoluzione socialista. Si sentono riabilitati nella coscienza dalla generosità con cui Cuba elargisce, comprensibilmente, ospitalità e riconoscimenti. Chi non lo farebbe nei confronti di sostenitori che, comunque, sventolano quella bandiera e onorano quella vicenda, mentre si trova serrato al collo da un’ aggressione imperialista pari per ferocia e durata solo a quella che lo Stato fuorilegge israeliano infligge al popolo palestinese?
Qua sopra, a proposito, vedete un’immagine dei diecimila che a Madrid hanno sfilato per il 50° della rivoluzione cubana. Accanto a quella cubana, svetta la bandiera della Palestina. Non ricordo occasioni, salvo qualche coraggiosa partecipazione di gruppi locali, in cui le recenti manifestazioni contro il terrorismo di sterminio israeliano abbiano registrato la presenza dell’ufficialità nazionale filocubana. E se da Cuba, dai suoi combattenti per la liberazione degli africani dal colonialismo e dall’Apartheid, dai suoi insegnanti, medici e istruttori sportivi che in giro per il mondo estraggono dall’ignoranza e dalla malattia – mens sana in corpore sano ! – interi popoli fin qui esclusi, non si è imparato l’internazionalismo, la solidarietà con Cuba equivale a quei pacifisti che innalzano bandiere arcobaleno, ma inorridiscono davanti alla resistenza di iracheni, afghani, palestinesi, colombiani. E, con riguardo a questi ultimi, è lecito o no anteporre la rivoluzione perfino a Fidel, quando il comandante si disimpegna da una lotta in Colombia che, pure, ripercorre, per dura necessità antifascista ed antimperialista, i passi dello stesso Fidel, del Che, di Camilo, essendogli stata preclusa con i massacri ogni altra via alla giustizia? Io, che dedico buona parte della mio modesto impegno al sostegno di Cuba, posso o no pronunciare un piccolo “ma” quando sento bertinottescamente dire, sullo sfondo dei genocidi inflitti dall’imperialismo ai “popoli di troppo”, che la lotta armata è roba d’altri tempi e che i prigionieri delle FARC “devono essere rilasciati senza condizioni” , a dispetto e tradimento delle centinaia di patrioti e compagni delle FARC che agonizzano nelle segrete della tortura colombiane? O quando un giovanotto, dirigente dell’Organizzazione degli Studenti cubani, risponde con stereotipe formulette sulla “libertà religiosa” alla domanda su cosa mai migliaia di cubani vanno cercando nelle chiese evangeliche, strumento dell’infiltrazione controrivoluzionaria Usa, che la rivoluzione non gli offre? O quando, alla ricerca di una zappa per sradicare erbacce infestanti, un esimio economista cerca di dimostrarmi che era corretto impostare lo sviluppo cubano sui servizi, piuttosto che sull’industria di base, meccanica, degli utensili? Ma se ogni cosa deve essere importata e la tua economia dipende quasi per intero dalla valuta in arrivo con il turismo, che ne potrà mai essere di una sovranità appesa all’incerta disponibilità di fornitori perlopiù nemici? Vogliamo nasconderci l’assurdo percorso di guerra che devono superare coloro che da fuori propongono progetti di solidarietà, o la tara della doppia valuta che rischia di riaprire una divisione in classi favorendo la fauna che prospera attorno al turismo a scapito di chi lavora e produce. Quando, finito se il cielo vuole il criminale embargo, sull’isola arriveranno le locuste nordamericane e mafiocubane, quel giro d’affari, non sempre limpidissimo, non minaccerà di produrre una classe di paperoni e vecchi valori di scambio? E visto che Cuba straripa di argilla, buona per eccellenti tegole, vogliamo o no liberarci delle migliaia di tetti d’amianto che seminano nell’isola e nei polmoni patologie per generazioni? Non è Cuba all’avanguardia, con decenni di vantaggio, su tutti i paesi della regione e sulla quasi totalità dei paesi del mondo, quanto a difesa ambientale e progresso ecologico? E qui mi scappa un altro “ma”. Se è vero, come è vero, che gli animali sono i nostri fratelli in Terra più deboli e migliori, non mi sta bene che per Cuba continuino a sfuggire alla rivoluzione migliaia di cagnetti che si aggirano abbandonati per le vie dell’isola ischeletriti, in preda al cimurro e alla lesmaniosi, in spregio agli appassionati e disperati sforzi di pochi veterinari, o che si allevino coccodrilli in via di estinzione per estrarne borsette per cretine da Quinta Strada. Il mio bassotto Nando ne ha parlato più volte a un comprensivo Fidel, ma poi ci sono le famose “priorità”. Dipendesse da Fidel… Molte di queste cose e molte altre sono state espresse direttamente, con formidabile intelligenza rivoluzionaria, dagli studenti dell’Università dell’Avana i quali hanno ben compreso che nella lunga marcia della rivoluzione ogni tanto occorre uno scossone, uno scatto che scuota passi a rischio di autocompiacimento, di inerzia, di letale burocratizzazione brezhneviana. L’unica cosa che procede per inerzia è il moto perpetuo. Che però non è stato ancora inventato.
Ombre che non offuscano le luci che ininterrottamente da 50 anni dall’isola si spandono sul mondo con la forza di una volontà e di una verità che è riuscita a intralciare, grazie appunto anche ai veri amici di Cuba, quelli rivoluzionari, lo tsunami politico e mediatico della diffamazione, delle menzogne, delle campagne terroristiche, delle guerre economiche e biologiche. Luci che in America Latina sono diventate fiamme e hanno incendiato un continente. Scrive giustamente Maurizio Matteuzzi sul “manifesto”: “Se il 1. gennaio 1959 la rivoluzione cubana non avesse vinto non ci sarebbe stato il rinascimento democratico e progressista dell’America Latina… Se non ci fosse stato “l’antidemocratico” Fidel Castro, oggi non ci sarebbero i Chavez, i Morales, i Correa , i radicali, ma neanche i Lula, i Kirchner, i Lugo, i moderati, e forse neppure i Vasquez e Bachelet, i pallidissimi”. Aggiungo che senza l’incredibile, indomabile forza di resistenza delle masse cubane, l’intelligenza dei quadri dirigenti educati da un’istruzione rivoluzionaria per tutti, l’indefettibile difesa e diffusione dei diritti umani collettivi, quelli fondamentali, della conoscenza, della sanità, del lavoro, della sicurezza e cura di bambini, donne e anziani (con tutti i limiti dovuti allo strangolamento, all’isolamento geopolitico e anche all’indolenza caraibica), a quale filo di speranza avrebbero potuto allacciarsi nelle Americhe i milioni di oppressi, schiacciati, obliterati da cinque secoli?
Eccoci qua, noialtri, rinserrati in Stati e manipolati da forze politiche che praticano la virtù massima della macelleria sociale all’interno e del colonialismo subimperialista verso terre e genti già predate nei secoli e ora da riconquistare e spopolare col terrorismo. Eccoci qua, corruttori di menti e sfruttatori di corpi, rapinatori e devastatori dell’ambiente, ammaestrati da cosche criminali a cavare qualche detrito di vita e di benessere dal genocidio degli altri e dal taglio delle gambe ai nostri pari. Eccoci qua che sulla tessera dei “Giovani Comunisti”, sedicenti tali forse da sempre, fieri e ottusi mettiamo la foto di chi smantella il muro di Berlino regalando ai vampiri del capitalismo quel milione di morti ammazzati dal “libero mercato” nei paesi dell’Est. Mica ci hanno messo il muro lungo il Rio Bravo contro cui si infrangono le vite di chi dai costruttori di quel muro ha avuto solo la scelta di morire nella terra da loro saccheggiata, o fucilato da ronde di tipo padano lungo il confine. Né ci hanno dipinto quell’altro muro dell’apartheid che punta a disintegrare definitivamente, chiudendolo in riserve indiane, il popolo che di quella terra è il legittimo titolare. E neppure qualcuno ha messo sulla sua tessera di rivoluzionario la muraglia invisibile dei necrocrati che, vista l’impossibilità di ricostruire il vecchio lupanare, vorrebbero allargare la loro Guantanamo a tutta Cuba. Cuba, e poi i suoi succedanei in Venezuela e Bolivia, hanno rotto i rapporti con lo Stato Canaglia israeliano e hanno invitato il mondo civile a condannare “i criminali massacri e a mobilitarsi per esigere l’immediata cessazione degli attacchi contro la popolazione civile palestinese, rinnovando solidarietà e sostegno indefettibili al sofferente ed eroico popolo palestinese” . Qui ci si balocca con codarde e indecenti equidistanze tra chi, prima di farsi eliminare, tira due razzi di latta e il “popolo della Shoah che si difende”. Ci dividiamo tra le due bande del partito unico che, in ottemperanza agli interessi della criminalità organizzata, indigena e imperialista, manifestano il massimo della convergenza delinquenziale nella complicità con olocausti più estesi nel tempo e più definitivi nella soluzione di quello che si pretende essere l’unico. E ci permettiamo di assistere dalla finestra alla gogna di un conduttore televisivo che, unico nella bolgia dei rinnegati, bugiardi e cospiratori, ha mostrato di che lacrime grondi e di che sangue la “democrazia” israeliana.
Su Cuba, grazie alla demenziale manomissione inflitta al clima di tutti dalla cieca voracità di pochi, si abbattono cicloni cui non si può impedire di stritolare case, campi, fattorie e fabbriche, ma ai quali la rivoluzione sottrae i sacrifici umani che decimano le popolazioni di tutti i paesi coinvolti, compresi gli Usa. Da noi frane, alluvioni, bufere, mareggiate ci lasciano inermi e nudi ai piedi dei fortilizi dei potenti. Basterebbe l’antimperialismo dei saggi cubani, filo rosso che attraversa ogni momento di questi 50 anni e che è il più convincente esempio della possibilità e della necessità della fratellanza umana, per impegnare ogni essere raziocinante e giusto alla difesa di Cuba e, come diceva il Che, alla lotta hasta la muerte su tutti i campi di battaglia del mondo. Qui di Guantanamo ne sopportiamo serenamente tante che metastizzano le regioni di mezzo paese. Non solo. Ce ne facciamo utilizzare per riprodurre in giro per il mondo le rapine e le carneficine che Mussolini faceva da solo o al seguito di Hitler.
Siamo dovuti andare a Cuba, e poi a Caracas e a La Paz, per farci trarre dalla nebbia tossica dello scontro di civiltà a base di guerra al terrorismo, per farci illustrare in modo inoppugnabile quale sia il terrorismo nel mondo e chi ne sono i promotori e piloti. E grazie a Cuba – e a pochi isolati “complottisti” in Occidente, esecrati addirittura dalla sinistra – che si è lacerato il mostruoso inganno del “terrorismo” diventato, con la speculare frode della “democrazia” e della “sicurezza”, “l’ascia di guerra per lo scontro di civiltà, la bandiera delle spedizioni di conquista” e della ricostituzione di una dittatura borghese che, nella morsa della sua crisi, si propone di diventare la più spietata di tutti i tempi. Nei giorni scorsi è apparso sui giornali di sinistra un megadocumento intitolato, con involontaria ironia, “Ritorno al futuro” e firmato da una caterva di illustri detriti dell’”Arcobaleno”, con in testa la masnada poltronara e di pura fuffa del vendolismo. Se i padroni vicini e lontani sognavano una rassicurazione strategica, questo lieve programmino socialdemocratico, che parte, sì, dal basso, ma dalla bassa politica, glie l’ha garantita. Stato sociale, certo, l’egida dell’ONU per la salvaguardia dell’ambiente e del rapporto produzione-riproduzione della forza lavoro, come no, regole contro gli abusi finanziari, perbacco, interventi pubblici nell’economia, già li fanno Tremonti e Brunetta, l’utilizzo a pieno (da parte di chi?) delle capacità e competenze formate dalla scuola e dall’università, come dice Gelmini, mobilità collettiva e individuale, come detta Fiat, e bla bla bla. Peccato che questi neoprodiani si siano dimenticati dell’imballaggio in cui tutti i bei propositi vanno a essere chiusi: l’imperialismo. Termine non trendy, lo so, ma credono davvero questi profeti delle compatibilità e della nonviolenza che si diano rapporti capitale-lavoro non vampireschi, salvaguardie dell’ambiente, emancipazione dei deboli e delle donne, immigrazione accettata e onorata, quando si è parte integrante di un meccanismo planetario di dominio, sfruttamento e distruzione, di deumanizzazione come è quello del capitalismo al suo apice imperialista? Molti di costoro hanno votato per l’assalto a popoli poveri e inermi, nessuno di loro parla più di Nato e delle basi nella colonia Italia, non ci si cura del fatto che a tirare le fila dei veltrusconi (fra un po’ chiederò le royalties per il termine) ci sono i burattinai a stelle e striscie, tutti schizzano la lotta dell’effettivamente equivoco (ma che c’entra?) Di Pietro contro il rullo compressore piduista-fascista che frantuma libertà e diritti.
Le luci da Cuba denudano i re e i loro corifei. La storia vissuta a Cuba è la prima a darci lezioni per il presente. Grazie a essa possiamo capire il prezzo, le difficoltà, gli arretramenti e le conquiste di libertà come ideale concreto, la forza e la fragilità delle utopie, la precarietà delle fede quando è indiscussa e sterilmente superba, il carattere insaziabile della libertà. Da essa ci viene la lezione del’irriducibile resistenza al colonialismo, politico, economico, culturale. A Cuba abbiamo dovuto lottare contro due colonizzazioni, quella del capitalismo e quella del socialismo detto reale. Queste colonizzazioni richiedono l’esercizio del pensiero critico collettivo. Per favorire questo pensiero, senza il quale non è possibile rompere con la cultura del capitale, occorre riformulare il tipo di potere che costruiamo in tutte le nostre relazioni sociali: il potere tra figli e genitori, il potere tra maestro e alunno, il potere tra Stato e popolo… Siccome vogliamo il socialismo, dobbiamo riscoprirlo nell’organizzazione della produzione, nel lavoro libero e associato, sociale, cooperativo e autogestito, nella forma in cui il discorso sociale deve essere inserito nel discorso politico, nella consapevolezza che all’inizio di tutto sta la sconfitta dell’imperialismo, condizione perché l’eliminazione dello sfruttamento sia l’eliminazione della povertà, ma anche dell’alienazione, come voleva il Che Guevara”.
Così parlarono a Fidel Castro Ariel Dacon, Julio Antonio Fernandez, Julio César Guanche, Diosnara Ortega, studenti dell’Università dell’Avana. Gente che ci auguriamo si possa presto vedere al timone della rivoluzione. Gli anziani, per quanto gloriosi, veterani della rivoluzione che alle ultime elezioni sono tornati a occupare l’intero governo cubano, se ne possono fidare.
Fulvio Grimaldi
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