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Grazie Londra

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(27 Marzo 2011) Enzo Apicella
Londra. In 500.000 contro il governo Cameron. Assaltati negozi, banche e anche Fortnum & Mason, l'esclusivo negozio di tè a Piccadilly

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(Lotte operaie nella crisi)

La crisi e l’occupazione

Appunti per le lotte

(11 Ottobre 2009)

Nonostante le rassicurazioni governative su di una imminente fine della crisi economica, le previsioni più avvedute dicono che sicuramente in Italia, ma non solo, il peggio non è ancora arrivato; infatti, mentre sono già 700000 i nuovi cassintegrati dei primi otto mesi di quest’anno (solo alla Spezia, al 15-9-’09, 2153 cassintegrati e più di 180 precari nella scuola rischiano il posto!…), si parla di centinaia e centinaia di migliaia di probabili licenziamenti, e perciò di molti disoccupati in più nei prossimi mesi, destinati, insieme alle restrizioni del nuovo modello contrattuale firmato da Confindustria, UGL, CISL e UIL, a ridurre notevolmente il “salario sociale complessivo” (cioè la quota di reddito complessivo in mano ai lavoratori). E’ evidente che tale riduzione si tradurrà in un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe. Si pone, perciò, il problema di come opporvisi efficacemente, ed “efficacemente” significa “a partire dai propri interessi”.

Questa crisi, che aveva iniziato a manifestarsi come “crisi finanziaria”, si è presto rivelata in tutta la sua devastante portata, con crolli di enormi agglomerati economico-finanziari, chiusura e/o ridimensionamento di molte produzioni industriali, ecc. La risposta del capitale a questa sua crisi, a parte qualche velleitaria “imposizione di nuove regole”, tentata, invano, dai leaders dei Paesi imperialisti, si è espressa con massicci trasferimenti di risorse dal settore pubblico a banche ed imprese in difficoltà (in Italia siamo già al terzo decreto in tal senso da parte del Governo, nel silenzio generale!), perché le stesse, scaricando le proprie contraddizioni su lavoratori e ceti deboli, facendo, in definitiva, pagare loro la crisi, riprendessero, così, le medesime lucrose attività di prima, speculazioni comprese.

Da alcuni settori sociali oppressi in mobilitazione si è giustamente sentita dire, seppure usata confusamente, la parola d’ordine “Non saremo noi a pagare la loro crisi!”. Si tratta di un assunto cui vanno date gambe, a partire dai lavoratori ed, in primis, dai posti di lavoro minacciati da licenziamenti. Va tradotto in rivendicazioni semplici, capibili da tutti i lavoratori e sostenibili con forme di lotta dure e di lunga durata, come quelle necessarie ad opporsi ai licenziamenti e già praticate, ormai, in diverse fabbriche occupate. “Nessun finanziamento statale a banche ed imprese in crisi (paghi chi ha profittato per anni sul nostro lavoro), ma suo utilizzo come (cassa di) sostegno al reddito dei loro dipendenti fino a nuova assunzione (o per gestire l’unità produttiva senza padroni)”: è certamente una parola d’ordine legata a questa fase e che richiede, per la sua relativa novità, qualche spiegazione.

In effetti il primo motivo per cui il lavoratore di una azienda in crisi (in genere disabituato ormai da decenni a lottare, a causa della pratica concertativa dei principali sindacati) si mobilita è per “difendere il proprio posto di lavoro”, che, attraverso il salario, ricevuto in cambio della sua prestazione di lavoro, gli consente di vivere; la minaccia di chiusura della fabbrica fa sì che, in prima battuta, il lavoratore tenda a “difenderla”, a difenderne, per prima cosa, la continuità. In realtà il posto di lavoro non è il “suo”, come non è sua la fabbrica, ed è molto più facile capirlo da quando gli investimenti del capitale in innovazioni tecnologiche hanno indotto ad una maggiore espulsione di manodopera. Mentre era facile sbagliarsi all’incirca fino agli anni ’70, quando gli investimenti, ampliando, in genere, la base produttiva, lasciavano credere che “difendere il posto di lavoro” volesse dire anche “lottare per i propri figli”, per dare loro “un futuro”, ora appare più chiaro che l’aumento della potenzialità produttiva è cresciuta più della capacità del sistema di assorbire le merci prodotte, e, tra le altre cause, è proprio il mercato, il mitico mercato, se l’offerta supera la domanda, a portare alle chiusure ed alla diminuzione di posti di lavoro!

In realtà la lotta “dura” va iniziata ben prima della chiusura della propria unità produttiva, bandendo ogni affidamento, fideistico, ai “buoni uffici” dei politici e collegandosi ai lavoratori di tutte le altre unità produttive, anche se delocalizzate all’estero, del gruppo proprietario, contro il campanilismo ed il nazionalismo, che la proprietà cercherà certamente di utilizzare per dividere i dipendenti, soprattutto quando i profitti aumentassero meno rapidamente che nel passato. L’opposizione, poi, al tentativo di restringimento occupazionale, legato all’innovazione tecnologica, non può che essere la rivendicazione di una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e di ritmi produttivi, che riassorba ogni “esubero”, non tanto nel senso della “centralità del lavoro”, quanto nel senso della tutela del salario sociale, cioè della “garanzia del reddito al lavoratore.

Se i tentativi di chiusura delle aziende avvengono per finalità speculative, e solo allora, può essere “vincente” la difesa dei macchinari e del sito (anche se si tratta di una “vittoria” parziale, perché lascia immutata la condizione operaia di sfruttamento da parte di un nuovo “padrone”, e provvisoria, visto che potrà riproporsi, più in là, una nuova speculazione), com’è avvenuto per la INNSE di Milano, i cui lavoratori, comunque, rappresentano oggi un esempio per tutti gli altri, data la loro caparbia perseveranza e la loro tenace compattezza. Non altrettanto, invece, si ha quando tali tentativi avvengono per altre motivazioni, fra le quali vi sono nuove e negative congiunture di mercato, che, peraltro, arrivano, prima o poi, per tutte le aziende. Non si tratta qui di escludere a priori dalle lotte da intraprendere quella di mera “difesa del posto di lavoro”, ma di darne un corretto inquadramento in un’ottica classista, contrastando quella, molto più diffusa, di chi lo pone come “orizzonte ultimo” .

Innanzi tutto, di per sé, la “difesa del posto di lavoro” non tende ad allargare il fronte di lotta, perché è centrata su quel dato sito, né allude ad un cambiamento sociale, dal momento che il suo obiettivo è un “nuovo” padrone, sia esso un privato o lo Stato (o un suo organo decentrato). Il contraltare di tale difesa è proprio, infatti, la nazionalizzazione. In questa fase storica, il passaggio da un padrone privato a quello “pubblico” non dà, di per sé, alcuna garanzia ai lavoratori, e ciò vale ancora di più con la tendenza a ripetere, poi, esperienze di privatizzazioni del tipo di quella di Alitalia. Storicamente la nazionalizzazione delle fabbriche, insieme alla cacciata di ogni padrone, hanno significato la loro gestione da parte di uno Stato, conquistato dal proletariato per i propri interessi, in una fase di avvio di una transizione socialista. Oltre ad essere evidente che non ci troviamo oggi in quella fase, ci appare difficile, per un insieme di motivi, ritenere che in futuro si passi ancora da tale fase o che quel particolare tipo di fase possa rappresentare, perlomeno con le stesse modalità del passato, una transizione socialista per un Paese imperialista del XXI° secolo (anche se su questo aspetto sarà la Storia a darci torto o ragione). Certamente anche la nazionalizzazione, in quanto “passaggio sotto padrone pubblico”, in certi casi, come già visto, può non essere da escludere, ma non può certo essere agitata oggi, come “rivendicazione unificante”, la nazionalizzazione “di tutte le aziende in crisi”, con o senza indennizzo, anche se “sotto controllo operaio”.

La questione di fondo è che l’agitazione dei comunisti, soprattutto in un periodo di crisi come questo, deve trovare ovunque parole d’ordine, semplici e capibili da qualsiasi lavoratore, ma che pongano obiettivi che si leghino alla trasformazione sociale, sempre più necessaria ed urgente, nonché favorita dalle nuove condizioni. Se è il mercato a decidere il momento, peraltro inevitabile all’interno del sistema capitalistico, della chiusura di una unità produttiva, per i comunisti, cioè per chi individua proprio nella società fondata sul mercato stesso il principale contesto di contraddizione e disarmonia del sistema in cui viviamo, non può essere certo la situazione sul mercato di una azienda comunque in crisi, per la “domanda”, a fare la differenza nel determinare gli obiettivi della lotta! Né lo può essere l’attuale valore (di scambio) del prodotto aziendale (della “offerta”)! Il primo problema, dal punto di vista della classe, è, come prima accennato, la garanzia del reddito al lavoratore.

Le caratteristiche di un prodotto nel sistema capitalistico sono costituite sempre più dal suo “consumismo”: il prodotto, in genere, deve essere, ad esempio, di bassa durata, avere poca riparabilità, non essere smontabile e rimontabile, essere di difficile manutenzione, e via di questo passo, nella logica del “usa e getta”, per garantire la ripetibilità nel tempo della stessa vendita, e, perciò, avere una produzione maggiore; un oggetto di questo tipo, a parità di altre caratteristiche, ha un basso valore d’uso e potrebbe, perfino, non interessarci nella prospettiva della alternativa di sistema. Le produzioni che, invece, perseguiamo noi comunisti sono quelle ad alto valore d’uso, indipendentemente dal valore di scambio dei prodotti. E’ questo che ci occorre per fare la pianificazione democratica dell’economia! Allora, se è vero che le aziende oggi sono “dei padroni” ed in questa società, prima o poi, chiuderanno tutte, avvicendandosi, è anche vero che non possiamo essere, proprio come comunisti, indifferenti alle sorti di qualsiasi unità produttiva. E’ da subito che dobbiamo porci il problema classista di una “bussola” che, rompendo con ogni aziendalismo “di ritorno”, peraltro ricorrente anche fra compagni “di estrema sinistra”, orienti i nostri giudizi e non sia, ancora una volta, determinata dal mercato!

Ogni unità produttiva in crisi, con relativa minaccia padronale di chiusura va, certamente, occupata. E’ il primo passo, il punto di partenza necessario, per opporsi ai licenziamenti e lottare per garantirsi il reddito. L’opposizione va subito impostata in modo articolato nel tempo, caso per caso, con modalità decise democraticamente dai lavoratori autorganizzati in lotta, e sicuramente con il massimo livello possibile di coinvolgimento degli altri lavoratori dello stesso territorio, della stessa categoria, anche a livello nazionale, e degli altri settori sociali sensibili e solidali. In questo contesto è compito dei comunisti porre la questione, centrale, del cosa, quanto, per chi e per che cosa produrre. Nel caso di aziende con prodotti ad alto valore d’uso, sia assoluto, che in relazione al proprio settore produttivo, pur nella difficoltà di una loro chiara individuazione per la nostra disabitudine a ragionare con paradigmi diversi da quelli che ci vengono imposti da questo tipo di società, i comunisti proporranno ai lavoratori di valutare se utilizzare la cassa del finanziamento, messo in discussione ed una volta ottenuto per i lavoratori stessi, non fino ad una loro nuova assunzione in altro posto di lavoro, ma per l’avvio di una autogestione, finalizzata al permanere di tale tipo di produzione. Nell’eventuale porsi di tale obiettivo parziale, sarà importante la coscienza, comunque, che non si tratterà certo di “un’isola di socialismo”, ma di un modo di portare ancora avanti una produzione che il capitalismo avrebbe fatto cessare, e che, invece, ha caratteristiche di utilità sociale. Anche qualora la crisi abbia ormai chiuso l’accesso al mercato, oppure per scelta, ci si potrà rivolgere al mercato alternativo costituito dagli altri lavoratori, nella coscienza che si tratta comunque di un mercato, e che la lotta non è certo finita lì. In questo caso, oltre al porsi su di un piano di lotta più avanzato, sarà, senza dubbio, una nuova dimostrazione che anche “senza padroni” è possibile gestire la produzione!

La Spezia, 15-9-‘09

Circolo ALTERNATIVA DI CLASSE

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