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Elezioni d'Egitto

Elezioni d'Egitto

(14 Giugno 2012) Enzo Apicella

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In nordafrica il proletariato insorge e affronta il piombo borghese

Il gigante proletario scuote l’Egitto

(14 Marzo 2011)

Quella generosa e internazionale rivolta della classe operaia si consoliderà nel rafforzare i suoi sindacati difensivi, nel ricusare i partiti e le illusioni liberali e democratiche della piccola borghesia, nel rintracciare il programma e il partito politico marxista rivoluzionario, in solidarietà con i lavoratori di tutti i paesi e contro la criminale reazione mondiale del Capitale
Tornerà allora a risuonare la parola, a lungo mistificata ed oggi proibita: COMUNISMO

L’Egitto è un anello della catena di crisi sociali provocate dalla recessione economica, che colpisce il proletariato nei paesi di capitalismo giovane come vecchio, in questi insieme ai contadini poveri, ed induce la borghesia a togliere anche quel poco che avevano concesso nei decenni passati, spingendo i lavoratori alla rivolta, sia al Sud sia al Nord del Mondo.

In Egitto, negli scontri in tutto il paese, in settimane di mobilitazione, più di 300 rivoltosi sono stati gli uccisi e migliaia feriti o incarcerati.

La popolazione, tornata nelle strade in massa l’11 febbraio per chiedere la destituzione di Hosni Mubarak, ha ottenuto quello che chiedeva. Al momento in cui scriviamo il capo dello Stato si è dimesso e il governo del Paese è passato nelle mani di un Comitato espresso dello Stato Maggiore dell’Armata.

I militari, che hanno partecipato alla repressione, anche se è stata condotta principalmente dai corpi di polizia, hanno infine deciso di abbandonare Mubarak e di prendere il potere nelle loro mani, anche se temporaneamente, dicono. Certamente questo ha comportato una spaccatura fra i settori borghesi interessati a difendere il governo ad ogni costo e quelli disposti a sacrificare il rais e i suoi numerosi “clienti”, fatta sempre salva l’alleanza con Washington.

Gli Stati Uniti, dopo la sollevazione tunisina e la fuga precipitosa del loro uomo Ben Alì, di fronte all’acuirsi della rivolta in Egitto e alla minaccia del suo estendersi ai Paesi vicini, si sono infine risolti a sollecitare il cambio di personale al vertice di quel Paese-chiave in Medio Oriente e in Nord Africa, quello che più foraggiano dopo Israele. Pare che la CIA sia stata colta di sorpresa dagli avvenimenti, il che spiega i giornalieri aggiornamenti di rotta della diplomazia americana, mentre il Pentagono, per non sbagliare, ha inviato subito navi da guerra a difesa del canale di Suez, arteria vitale per il capitalismo.

Da parte sua la diplomazia israeliana si è battuta fino all’ultimo, evidentemente senza successo, per salvare il fedele alleato Mubarak. Non ci sorprende che come gli israeliani abbiano reagito i partiti dei palestinesi Fatah e Hamas che, entrambi, nei Territori occupati e a Gaza, hanno represso o contenuto le spontanee manifestazioni di gioia e di solidarietà ai rivoltosi egiziani. Hamas ha addirittura subito preso il posto dei poliziotti egiziani nella chiusura ermetica del valico di Rafah.

La parola d’ordine dei borghesi di tutto il mondo, arabi, egiziani e di fuori, è “cambiamento nella continuità”, cioè il classico cambiare tutto per non cambiare nulla.

Infatti, in realtà, quello che si sta facendo oggi in Egitto è rafforzare il regime. Quello di Mubarak, dopo 30 anni di aperta e dura dittatura e di fronte alla crisi economica, si era troppo screditato davanti a tutte le classi della società. Oltre alla classe operaia, sempre ribelle, la piccola borghesia non sopporta più un sistema che la sottomette apertamente all’arbitrio, alla corruzione e ai privilegi del grande capitale, per lo più impersonato in una ristretta minoranza di alti ufficiali e di affaristi legati alla famiglia del Presidente.

In Egitto dunque la grande borghesia, la grande finanza e industria, accentrata in gran parte nella gerarchia militare, mostra di cedere alla piazza, mettere un freno alla corruzione e ristabilire un certo “quantum” di democrazia e libertà politiche.

In mancanza di partiti politici borghesi con un programma reale, riconoscibile e condiviso dalle masse, questo “cambiamento” non può essere gestito che dall’alto. Come ormai non solo nei paesi di giovane capitalismo ma ovunque, questa intelligenza e forza, il vero partito della borghesia non trova la sua base nella massa sociale ma negli apparati statali stessi e, nel caso egiziano, storicamente e in particolare nell’esercito. Così già accadde nel 1953, con la rivoluzione nazionale di Gamal Abdel Nasser e dei militari suoi sodali.

Nelle strade delle città egiziane si sono quindi mescolate, e scontrate, tutte le classi. Da una parte il sottoproletariato della capitale, come spesso succede a difesa del sovrano e delle sue elemosine. Dall’altra la piccola borghesia, nazionalista, in tutte le sue sottospecie e in tutto il suo spettro ideologico, dai nasseriani ai democratici liberali alle infinite sfumature islamiche, ecc. Infine la classe operaia dalla quale le parole borghesi di libertà e democrazia sono intese come possibilità di organizzazione sindacale, aumenti salariali, riduzione dell’orario di lavoro.

Le sole classi realmente presenti nelle società moderne sono proletariato, borghesia, proprietari fondiari. Gli altri ceti sono ibridi o relitti storici. Solo le classi hanno capacità storica e, a loro tempo, rivoluzionaria. Anche in Egitto, come all’approssimarsi di una guerra, le classi fondamentali, lo vogliano e lo sappiano o meno, si stanno silenziosamente predisponendo allo scontro: la classe operaia celata dallo schermo delle superfetazioni iridescenti delle mezze classi, i capitalisti e i fondiari dietro le camarille e le famiglie delle malversazioni attorno al potere.

Infatti, la piccola borghesia che chiede più democrazia, libertà politiche e d’espressione ha ottenuto una fugace soddisfazione solo per l’appoggio determinante, alle sue spalle, di quel vero gigante che è, numericamente e per antiche tradizioni di lotta, il proletariato egiziano, quei milioni di operai dell’industria, dei servizi, dell’agricoltura che lavorano per un salario miserabile, colpiti dalla disoccupazione, che sono riusciti ad organizzarsi in sindacati clandestini nonostante la galera e la tortura, e che ingaggiano scioperi formidabili fino ad ottenere significative vittorie, anche se parziali e momentanee.

La classe operaia, che ha rappresentato il fattore centrale della crisi, nonostante le sue lotte siano rimaste ignorate da stampa e televisioni, interessate a mostrare un unitario ed indistinto movimento di popolo in lotta per la Libertà, ha saputo mostrare la sua separata presenza chiedendo libertà di organizzazione e di sciopero. È stata la mobilitazione dei lavoratori che ha spinto il governo Mubarak a concedere un aumento del 15% degli stipendi ai dipendenti dello Stato, rivendicazione che è stata subito raccolta dai lavoratori del settore privato.

Oggi, mentre tutti i settori patriottici e borghesi invocano l’ordinato “ritorno al lavoro”, per il bene della Patria e per “costruire un nuovo Egitto”, il proletariato non può condividere nelle piazze l’esultanza della piccola borghesia per la messa in pensione di un vecchio faraone, risultato che non soddisfa certo le richieste di forti aumenti salariali generalizzati, libertà sindacali, lavoro e salario ai disoccupati.

Su questo si giocherà la resa dei conti con il nuovo Esecutivo militare, come già sta accadendo alla Mahalla Textile Company dove ben 20.000 operai tessili stanno continuando lo sciopero nonostante lo spiegamento di forze effettuato dall’esercito.

La grande borghesia, egiziana e straniera, conta sulla incertezza della situazione politica, sulla novità della farsa elettorale, sull’euforia per qualche ritrovato scampolo di illusoria libertà, per ritardare l’inevitabile scontro sociale con la classe operaia, ma esso si presenterà ben presto all’ordine del giorno.

A questo il proletariato anche in Egitto non dovrà arrivare impreparato.

È necessario che continui sulla strada intrapresa, organizzandosi in sindacati indipendenti dallo Stato e dal padronato, organismi indispensabili non solo per la difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro ma anche per la protezione dei suoi aderenti e dirigenti; organismi necessari per unire la classe, al di sopra delle divisioni di categoria, di sesso, di religione, verso la costituzione di organizzazioni economiche nazionali di lotta.

Dovrà guardarsi dall’esercito, dal suo stato maggiore, che ha rappresentato e rappresenta il bastone del potere borghese e che finché questo resterà in piedi sarà sempre utilizzato contro il proletariato.

Dovrà guardarsi dai falsi amici come i Fratelli Musulmani che, anche se non sono sfuggiti in questi decenni alla persecuzione del regime, hanno costituito a lungo la sua milizia armata antioperaia, antisindacale e anticomunista.

Dovrà diffidare dei partiti borghesi, anche dei più “democratici” e della cosiddetta “sinistra”, come l’ex Partito Comunista Egiziano, pronti tutti a girare le spalle ai proletari quando riescono a seguire la loro strada con determinazione.

Dovrà rintracciare il suo programma di emancipazione sociale internazionale e anticapitalista, separato e opposto a quello tutti gli altri partiti. Nel programma del comunismo c’è, alla scala storica, la rivoluzione proletaria, che già è matura, e il simultaneo rovesciamento del potere borghese in tutti i paesi della regione.

Non è un compito facile quello che attende il proletariato. Per non perdersi lungo questa strada, piena di pericoli e di incognite, è necessario che i proletari più coscienti e combattivi si ricolleghino alla tradizione invariante e al partito dell’internazionalismo rivoluzionario marxista.

Privo del suo Partito, come dimostra l’esperienza di secoli, il proletariato può arrivare anche alla rivolta violenta, ma non a trasformarla in un processo rivoluzionario, in un movimento sociale capace non solo di sostituire un governo dello Stato borghese ma di abbattere il potere borghese, colpendo il cuore del regime del lavoro salariato.

L’unico programma rivoluzionario è il programma comunista. L’unico partito rivoluzionario è il partito comunista. Tutti gli altri partiti sono, ineluttabile, reazionari e controrivoluzionari.

La rivoluzione comunista richiede la presenza del partito comunista, un organo di combattimento politico, forgiato nei secoli, fondato su chiari e immutevoli principi, con un piano di azione rivoluzionaria prestabilito, con una direzione centralizzata unica mondiale seguita da una struttura disciplinata di militanti provati, fedeli ed entusiasti, ben radicata all’interno della classe lavoratrice e nei principali paesi. Un partito conosciuto fra i soldati degli eserciti e che solo può dirigere le azioni militari in difesa della rivoluzione.

Solo con questo indispensabile strumento, che si muove come un sol uomo perché in grado di prevedere gli eventi e le mosse del nemico borghese, di cui conosce la furia omicida e gli inganni nel difendere i suoi privilegi, ma anche le sue insanabili tare, sarà possibile la vittoria della classe operaia.

Partito Comunista Internazionale

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