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La controrivoluzione saudita

La ricetta di re Abdallah per contenere l’espandersi sul suo territorio delle rivolte della «primavera araba» ha due ingredienti: mano dura nei paesi vicini e quantità ingenti di denaro in spese sociali.

(18 Giugno 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.nena-news.com

La controrivoluzione saudita

foto: www.nena-news.com

ABRAHAM ZAMORANO*

Roma, 18 giugno 2011, Nena News - Sul fronte esterno, le autorità saudite portano avanti una linea che si potrebbe definire «internazionalismo contro-rivoluzionario» e lavorano su vari piani diplomatici per evitare che qualcuna delle insurrezioni nella regione vinca, soprattutto nella penisola arabica. Sul fronte interno, Riyadh hamesso mano alla macchina per elargire miliardi in spese sociali, soprattutto nel settore della casa e nella creazione di posti di lavoro. Questa è la formula con cui tenta di evitare che l’alto tasso di disoccupazione (ufficialmente il 10%, il 20% secondo altre stime) si converta in rivolta aperta. Allo stesso tempo, sul piano politico continua nell’immobilismo e il paese rimane sempre uno dei più chiusi e con meno libertà al mondo. Basta ricordare che la stampa non può parlare di niente che non sia strettamente dentro i parametri della legge islamica, o delle proteste delle donne per poter guidare una macchina. In febbraio, appena rientrato da un trattamento medico negli Usa, il re Abdallah ha lanciato un programma di spese sociali, 31 miliardi di dollari destinati ai vaccini contro la contagiosa primavera araba. Meno di due settimane prima in Egitto era caduto Mubarak. In marzo, mentre le rivolte continuavano, sono stati elargiti altri 96 miliardi ed è stata annunciata la creazione di 60 mila posti di lavoro.

Secondo Christoph Wilcke, responsabile per il Medio Oriente di Human Rights Watch, «mentre re Abdullah annunciava i suoi regali finanziari ai cittadini sauditi, la sua polizia arrestava quelli che chiedevano un cambiamento più significativo. Il numero degli arresti è drammaticamente aumentato». Le proteste, anche quelle pacifiche, sono del tutto proibite. Concentrate nelle province orientali, dove c’è una forte presenza sciita, qualsiasi manifestazione di dissidenza porta direttamente in galera. «Per ora hanno trattato il problema sul piano economico e non politico. Neanche parlare di libertà, sembrano credere che se la gente mangia, la rivolta non ci sarà», spiega Omar al Tayed, direttore del servizio arabo della BBC. Però, oltre alla forte repressione e all’intenso incremento delle spese sociali, l’altro piano su cui Riyadh si muove, e molto, per evitare che nel paese scoppi un focolaio rivoluzionario, è quello diplomatico. «E’ nell'interesse saudita che nessuna delle rivolte arabe vinca, neanche quella in Libia, col cui regime era ai ferri corti», dice a BBC mundo Ignacio Gutierrez, professore di Studi arabi dell’Università autonoma di Madrid. Secondo lui «nei paesi della regione i fattori che provocano le proteste sono comuni, però in Arabia saudita si presentano in forma più virulenta per via della crisi economica. Se un cittadino qualsiasi ha motivi per ribellarsi in Siria, Marocco o Giordania, ne ha di più in Arabia saudita, e questo il regime lo sa». Durante le proteste al Cairo, il governo saudita si offrì di finanziare Hosni Mubarak, accollandosi quanto aveva smesso di arrivare dagli Usa. Sorprendente l’atteggiamento con la Siria, alleato del nemico storico saudita - l’Iran – con cui c’è stato uno scambio di dichiarazioni di mutua comprensione per la repressione. E di recente, con una mossa non molto pubblicizzata, la decisione di invitare i regni di Giordania e Marocco a far parte del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG), che raggruppa le monarchie della regione.

«L’Arabia saudita ha verificato che gli Usa non sostengono i loro alleati a qualsiasi costo, come è accaduto a Mubarak. Quindi tenta di allargare il suo raggio e dare l’idea che esista un’alleanza, e che con tenui riforme le rivolte possano essere contenute», afferma il professor Gutierrez. Idem Mohamd Masri, ricercatore del Centro di studi strategici dell’Università della Giordania, che ha dichiarato all’agenzia France Presse che «i paesi del Golfo persico avvertono la necessità di avere una loro rete di protezione per salvaguardare i loro interessi». Ovvero, nelle parole di Samer Tawil, ex-ministro giordano, «i leader arabi ritengono, riorganizzandosi, di potersi proteggere politicamente e militarmente, anziché dipendere dall’occidente e in special modo dagli Usa». Però dove Riyadh non è disposta a tollerare il minimo conato di rivolta è nella penisola arabica. Nel Bahrein, la risposta è stata brutale. E non si può certo definirla come una mossa diplomatica: ha mandato almeno mille soldati per aiutare la monarchia a soffocare la protesta degli sciiti, protesta giudicata troppo vicina alla minoranza sciita e ai pozzi petroliferi sauditi. L’ultimo caso è lo Yemen, sprofondato in una drammatica crisi e il cui presidente Ali Abdullah Saleh si trova in un ospedale dell’Arabia saudita dopo un attentato. «All’inizio la posizione di Riyadh era favorevole al regime, poi però la forza degli eventi l’ha costretta a cercare altre opzioni», ricorda il professor Gutierrez. La «forza degli eventi» significa l’ostinazione del presidente yemenita a risolvere la protesta attraverso la repressione, ciò che ha finito per spingere lo stesso segretario di stato Usa Hillary Clinton ad insistere perché se ne vada. «Gli Stati uniti ritengono ormai che Saleh sia parte del problema e non la soluzione, senza dimenticare che è ancora Washington a dettare una buona parte della politica estera saudita». Non è un caso che proprio Washington, tanto loquace su Libia, Egitto e lo stesso Yemen, non dica una parola sull’Arabia saudita e il suo ruolo contro-rivoluzionario nella primavera araba.

*BBC mundo

Nena News

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