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Salario e democrazia nella Cgil

(15 Settembre 2005)

Ho ricevuto diversi amichevoli rimproveri, che lamentavano la difficoltà a comprendere le differenze che si stanno delineando nel congresso della Cgil.
Siccome ogni microcosmo della politica e delle istituzioni corre oggi il rischio dell’autoreferenzialità, la critica va accettata. Proviamo allora a chiarire di cosa si discute nel principale sindacato italiano. Naturalmente per fare questo dobbiamo diradare il polverone che nasce sia dalla retorica congressuale, sia dai calci negli stinchi tra i gruppi dirigenti, che con quella retorica spesso si coprono e si alimentano. Superato questo, dobbiamo provare a dare la giusta dimensione a ciò che è comune e a ciò che è differente.

E’ comune, pur con diversi accenti, l’impegno della Cgil a operare affinchè la svolta politica, necessaria per battere Berlusconi, sia anche una svolta sociale. Le differenze cominciano invece ad emergere non appena ci si cala nella concretezza delle pratiche. Queste differenze si sono concentrate in particolare nelle tesi 8 e 9, che toccano la contrattazione, la democrazia e l’autonomia sindacale.

E’ vero che ci sono molte altre tesi sulle quali non ci sono sin dall’inizio posizioni alternative, anche se penso che i congressi, avranno qualcosa da dire, dall’Europa alle pensioni. E’ altrettanto vero però che i temi su cui vi sono posizioni diverse costituiscono il cuore dell’agire sindacale. E’ come se in un partito ci si dichiari d’accordo su tutto, tranne che sul programma di governo e sulle modalità di partecipazione alle elezioni.

Data così la giusta dimensione alle differenze in campo, vediamo quali sono.
La tesi di maggioranza sulla contrattazione, sostanzialmente ripropone la necessità di un nuovo accordo centrale, tipo quello del 23 luglio, ’93, che definisca regole per i contratti nazionali e la contrattazione. La tesi alternativa, che ha come primo firmatario il segretario generale della Fiom, considera invece improponibile un nuovo accordo quadro, che stabilisca a priori cosa chiedere nei contratti nazionali e cosa nella contrattazione aziendale. Questo sarà il tema centrale del confronto sindacale dei prossimi mesi.

La Cisl e la Uil si sono dichiarate disponibili, a confrontarsi con una Confindustria che vuole ridurre il peso del contratto nazionale e aumentare il legame del salario con la “produttività”, cioè con lo sfruttamento e la precarietà del lavoro. La tesi sostenuta da tutta la segreteria confederale non accede a quella posizione, ma neppure la respinge nettamente, lasciando margini per un nuovo negoziato interconfederale.

E’ molto difficile credere che da un tavolo nel quale siano presenti il governo e la Confindustria, possa venire il via libera a contratti nazionali che aumentino davvero le retribuzioni, recuperando il potere d’acquisto perso in questi anni. Anche un futuro governo di centrosinistra si dovrebbe misurare con il fatto che i due principali partiti dell’Unione, sostengono che il contratto nazionale debba al massimo tutelare il salario dall’inflazione. La questione di fondo è invece quella di aumentare le retribuzioni reali dei lavoratori, se vogliamo dirla brutalmente, quella di passare davvero nelle buste paga dalla lira all’euro.

Ciò che conta per un lavoratore è il suo reale potere d’acquisto. E questo oggi precipita verso il basso, anche a causa di nuove “riforme” che, come quella del TFR, comunque sottraggono salario.
La tesi alternativa sostiene allora che il sindacato deve darsi una strategia di aumento delle retribuzioni reali nei contratti nazionali, uscendo dai vincoli dell’inflazione predeterminata (in qualsiasi modo definita), andando oltre la stessa produttività e puntando alla redistribuzione della ricchezza. Per questo si chiede anche di alzare la quota del salario garantito, oggi a livello irrisorio. Un metalmeccanico percepisce per mancato contratto, la favolosa indennità di 5 euro al mese. Non deve più succedere che, in attesa del rinnovo dei contratti, i lavoratori non si vedano attribuita neppure quella quota di inflazione che è già messa a bilancio dalle aziende e dalle pubbliche amministrazioni.

Garantire questo salario non significa ancora tornare alla scala mobile, ma almeno ridurre il ricatto delle aziende, che oggi possono permettersi di aspettare anni senza rinnovare i contratti e senza pagare alcun pegno.
A tutto questo si aggiunge poi il rifiuto della flessibilità e della precarietà del lavoro. Con la riproposizione del tema della riduzione di orario settimanale a 35 ore e il rigetto della flessibilità annua degli orari, con l’estensione dei diritti e la messa in discussione di tutta la legislazione corrente, dalla Legge 30 al Pacchetto Treu.

E’ chiara allora la differenza. Se prevalesse la tesi alternativa, la Cgil dovrebbe dire a Cisl e Uil di cambiare definitivamente rotta, superando la tentazione di riscrivere, l’accordo del 23 luglio e rilanciando invece la contrattazione e il conflitto sociale.

La questione democratica, che tocca la tesi successiva, viene di conseguenza.
Tutta la Cgil si batte per la democrazia e la partecipazione dei lavoratori, ma il nodo è: che rapporto c’è tra questa impostazione generale e la pratica concreta? Per dirla in soldoni, la Cgil chiede sul serio a Cisl e Uil di far votare i lavoratori su piattaforme e accordi, fa della questione democratica una vera e propria pregiudiziale dell’unità? Questo è il principio che ha ispirato l’azione della Fiom in questi anni. Il semplice, ma duro principio, per cui non si fanno piattaforme ed accordi unitari, senza il consenso dei lavoratori verificato con il referendum. Altri nella Cgil non sono andati nella stessa direzione e la tesi di maggioranza registra inevitabilmente questa ambiguità.

Su questo tema c’è anche la tesi proposta dal gruppo dirigente di Lavoro e Società. Essa contiene diversi spunti interessanti, ma salta la domanda di fondo posta dalla tesi sostenuta dal segretario della Fiom. Un successo di questa posizione più chiara e netta, figlia di comportamenti coerenti, restituirebbe centralità alla questione democratica nelle relazioni sindacali. In questo modo, si darebbe l’avvio senza se e senza ma, alla lotta per ottenere una legge che garantisca ai lavoratori il diritto a decidere su chi e cosa li rappresenta.

Come si vede le differenze in campo non sono piccole e, a seconda di come su di esse si pronunceranno gli iscritti, la Cgil vedrà spostato l’asse politico delle sue scelte. O verso il rilancio della concertazione e della centralizzazione, o verso uno sviluppo su basi nuove del conflitto sociale e della democrazia sindacale.
Infine, non è un caso che la tesi alternativa sulla democrazia presentata dal segretario della Fiom affermi la necessità dell’indipendenza del sindacato dagli schieramenti politici. E’ questa una richiesta molto sentita nei luoghi di lavoro: il sindacato non deve fare sconti a nessuno, deve combattere i governi “nemici”, ma non affidarsi a governi “amici”.

A chi chiede chiarezza rispondo allora che il congresso della Cgil discuterà, voterà e qualche volta litigherà prima di tutto sul salario e sulla democrazia. Non sono piccole cose.

Giorgio Cremaschi

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