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(31 Gennaio 2020)
Dal n. 85 di "Alternativa di Classe"
I funerali delle vittime dell'eccidio
L'eccidio di Modena del 9 Gennaio 1950, esattamente 70 anni fa, fu l'ennesimo assassinio di operai immolati sull'altare del profitto del capitale. Non sono bastati i 600mila morti della Prima Guerra Mondiale,i 450mila della Seconda Guerra, gli arresti, gli assassini, gli esili durante il periodo fascista, a mietere vite umane proletarie, ma anche il nuovo"governo democratico" aveva continuato nello stillicidio della repressione di chi lottava e si difendeva per avere un reddito che gli permettesse di sopravvivere alle rovine che la guerra e il fascismo avevano causato.
Per inquadrare i fatti di Modena, bisogna tornare indietro alle elezioni politiche del 18 Aprile 1948, che videro il successo della D.C. (Democrazia Cristiana), con il relativo allontanamento delle forze di sinistra dal governo e il tentativo di imporre nel Paese una sorta di restaurazione.
A questo seguì l'attentato a Togliatti (14 Luglio 1948), che, trascendendo le concrete posizioni politiche del soggetto, portò in piazza migliaia di lavoratori in un clima quasi insurrezionale che aveva spaventato la borghesia, la quale cercava di azzerare la forza dei lavoratori nelle fabbriche e dei contadini per l'occupazione delle terre, e di indebolire ed isolare la forza dei sindacati e dei partiti della sinistra.
I padroni, per produrre verso l'esportazione (loro obiettivo), dovevano, com'è in questi casi, abbassare i costi del lavoro e aumentare la produttività, cioè lo sfruttamento. Quindi cominciarono le serrate e i licenziamenti collettivi, selettivi per ridurre il potere contrattuale dei sindacati e delle Commissioni interne. Salario sempre più legato alla produttività (cottimo e premio di produzione differenziato), aumento del ventaglio retributivo, scioglimento dei Consigli di Gestione (partecipazione operaia alla gestione dell'azienda).
Di conseguenza ogni agitazione dei lavoratori, che vivevano in condizioni di precarietà e sfruttamento insostenibili nel quadro di un paese affamato, con le case distrutte dai bombardamenti e quelle rimaste in piedi costituite spesso da tuguri inabitabili, con famiglie ammassate le une sulle altre, in cui le condizioni igieniche erano quasi inesistenti. Il tasso di mortalità era elevatissimo, gli uomini a stento superavano i 50 anni e le donne ancora meno, e i bambini avevano nel primo anno di vita la possibilità di sopravvivere di poco superiore al 50%. Le vie di comunicazione interrotte e da ricostruire.
Ogni agitazione o manifestazione dei lavoratori era vista come una lunga mano della “cospirazione comunista” in agguato e le "forze dell'ordine" erano chiamate a sparare su braccianti ed operai, per difendere una presunta "libertà" minacciata. Erano così considerati illegittimi e perseguibili a colpi di fucile anche gli scioperi a singhiozzo o a scacchiera, il picchettaggio delle fabbriche (praticamente in anticipo rispetto al Decreto sicurezza di Salvini), e persino la propaganda sindacale. Per cercare di ottenere tutto questo vennero messi in campo 185mila militi tra poliziotti, carabinieri e guardie di finanza, 50mila in più che sotto il regime fascista.
In questo contesto, il ruolo della polizia (dove furono inseriti nei suoi ranghi militi della Polizia dell'Africa italiana, che godevano di una pessima fama) doveva avere, e lo ebbe, un ruolo determinante, specialmente con la famosa Celere, istituita nel 1946 dal Ministro socialista Romita in funzione della tutela dell'ordine pubblico e per il suo invio nelle zone colpite da eventi calamitosi.
Dopo le elezioni politiche del 1948, ministro dell'interno venne nominato Mario Scelba, anticomunista viscerale, che riorganizzò la Celere, perfezionando anche l'equipaggiamento con dotazioni di mitragliatici pesanti e anche di mortai, facendola diventare un vero e proprio reparto di pronto intervento militare, idoneo a situazioni belliche, visto il clima di guerra fredda di quel periodo tra USA e URSS (l'Italia aveva aderito alla NATO il 4 Aprile 1949), ma soprattutto idoneo ad intervenire in maniera rapida a "tutelare l'ordine pubblico".
Furono espulsi o trasferiti in località tranquille i poliziotti, secondo Scelba, di dubbia fedeltà, conseguenti ad arruolamenti provvisori avvenuti nel dopoguerra (polizia partigiana). I nuovi arruolati non dovevano assolutamente essere stati collusi con il partigianato, con la guerra di resistenza e con il Partito Comunista. Ecco, così si vedrà in quegli anni a difendere "l'ordine pubblico"i nostri militari armati di mitra e di autoblindo; d'altra parte, per difendere la minacciata presunta "libertà" democratica tutti i mezzi sono ammessi. Indelebile, sotto questo aspetto, l'eccidio del 1 Maggio 1947 a Portella della Ginestra, in Sicilia, eseguito dalla mafia, che Scelba coprirà, per liquidare il bandito Giuliano (il famoso conflitto a fuoco con i carabinieri, mai avvenuto).
Nel 1948 sono 17 i lavoratori uccisi, centinaia i feriti, 14573 arrestati, di cui 77 segretari delle Camere di lavoro, e, a solo due mesi dai fatti di Modena, si ebbero a Melissa, in Calabria, il 25 Ottobre 1949 la morte di tre braccianti e 15 feriti; a Torremaggiore, in Puglia, il 29 Novembre uccisi due braccianti, e, infine, a Montescaglioso‌, in provincia di Matera, un morto.
Come a livello nazionale, anche a Modena la situazione economica non era soddisfacente, e la maggioranza della popolazione modenese, soprattutto i proletari, guardavano alle forze di sinistra per la ricostruzione di una società che risolvesse le miserie dei proletari, e che combattesse contro il fascismo e contro chi si era arricchito alle spalle dei ceti meno abbienti.
La Camera Confederale del Lavoro di Modena (istituita dal CNL nel 1946) assunse così un ruolo centrale, diventando il punto di riferimento dei lavoratori per arrivare ad accordi di fabbrica. Ma le tensioni nazionali ed internazionali si rifletterono anche all'interno della Camera Confederale, dovute alle diverse componenti politiche presenti. L'attentato a Togliatti accelerò la separazione, la componente cattolica, infatti, non aderì allo sciopero, dando vita alla CISL, e quella socialista- repubblicana alla UIL. Certamente questa divisione ebbe un contraccolpo tra i lavoratori, che non si trovarono più compatti nelle vertenze.
I padroni modenesi, come quelli nazionali, aspettarono un clima politico più favorevole, e questo arrivò con la vittoria della Democrazia Cristiana alle elezioni politiche dell'Aprile 1948, e tentarono, come abbiamo già visto, di ripristinare il clima di assoggettamento della manovalanza, come nel regime fascista. Per far questo, iniziarono a chiedere la collaborazione delle forze dell'ordine per impedire picchettaggi e manifestazioni.
In appena due anni la polizia è dovuta intervenire 181 volte per sedare conflittualità sui posti di lavoro; dal 1947 al 1949 furono arrestati e processati 485 partigiani per fatti avvenuti durante la Resistenza, 3500 braccianti furono arrestati, processati e assolti per l'occupazione delle terre mediante gli scioperi a rovescio, le loro biciclette distrutte. Il clima era già caldo, la polizia cercava di addestrarsi e migliorarsi, come quando il 9 Gennaio 1949 si svolse a Modena una manifestazione sindacale in piazza Roma, indetta dalla CGIL, contro la Fonderia Valdevit e la Carrozzeria Padana, che avevano dato luogo a licenziamenti e serrate.
Molti lavoratori si avviavano verso la piazza, provenienti da varie vie, mescolandosi con i cittadini che venivano dalla messa celebrata nel Duomo. Ad un tratto la polizia si scatenò sulle camionette per le vie e per le piazze, prendendo a bastonate tutti, uomini e donne, fedeli, lavoratori ed inermi cittadini, e sparando furiosamente, fortunatamente senza colpire nessuno. La caccia ai lavoratori era un fatto naturale e qualsiasi assembramento doveva essere colpito.
In questo clima si è arrivati all'eccidio alle Fonderie Riunite del Gennaio 1950. Le Fonderie Riunite, fondate nel 1938, erano un'azienda di proprietà di Adolfo Orsi, fascista convinto, il quale possedeva anche la Maserati e una fabbrica di candele di accensione e accumulatori. Appena dopo le elezioni politiche del 1948, Orsi, fiutando il cambiamento a favore dei padroni, aveva deciso tre giorni di serrata della fonderia, chiedendo l'intervento della polizia per eliminare i picchetti degli operai in protesta. Ma la tensione tra le maestranze e il padrone rimaneva sempre alta, e l'Orsi, per contrastare il potere dei consigli di fabbrica e delle commissioni, decise di licenziare 26 lavoratori, assunti temporaneamente in fabbrica come provvisori.
Il sindacato dichiarò, così, lo sciopero per quasi una settimana, coinvolgendo anche gli operai delle altre fabbriche di Orsi. L'associazione provinciale degli industriali modenesi rispose con una serrata delle Fonderie Riunite il 23 Giugno 1948. Gli operai risposero con i picchetti davanti agli stabilimenti del gruppo Orsi. Si arrivava così ad una tregua il 28 Giugno, con il reintegro dei licenziati. Ma l'obiettivo del padrone Orsi, per rilanciare la produzione, era quello di ristrutturare la fonderia, lasciando a casa 120 dei loro operai, se la commissione interna non avesse accettato un taglio dei salari e l'abolizione del Consiglio di gestione.
Iniziava il nuovo braccio di ferro con le maestranze, e, mentre si cercava un accordo, il padrone fece applicare la serrata il 5 Dicembre 1949. I lavoratori iniziarono i picchetti davanti alla fabbrica per tre settimane, e il 28 Dicembre l'Orsi annunciò la riapertura della fabbrica per il 9 Gennaio 1950, assumendo solo 250 lavoratori scelti da lui, e ovviamente sarebbero stati esclusi quelli iscritti al sindacato e, tanto meno, ai partiti di sinistra.
Il piano antioperaio della proprietà prevedeva inoltre non di aumentare i salari, ma di ridurre i premi di produzione, abolire il Consiglio di gestione, addebitare il costo della mensa in busta paga, rimuovere ogni bacheca sindacale o politica all'interno della fabbrica, eliminare la stanza che le operaie si erano conquistata per potere allattare i figli (le donne erano circa il 50% della forza-lavoro, ed erano quelle che avevano partecipato agli scioperi contro la guerra e per il pane).
A questo e alla serrata, il sindacato dichiarò uno sciopero generale di tutto il territorio della provincia di Modena per il 9 Gennaio 1950. La Confindustria, ad inizio gennaio 1950, in una riunione di industriali della provincia di Modena, decise l'uso della polizia a sostegno di Orsi, per reprimere con la violenza ogni manifestazione sindacale e di massa. La Prefettura e la Questura non dettero nessun permesso di uso delle piazze alla Camera del lavoro per svolgere una manifestazione sindacale nella provincia. Ogni forma di dialogo con le istituzioni venne interrotto. I lavoratori modenesi quello sciopero lo volevano fare, perché si trattava di lottare per un lavoro e per la sopravvivenza di molte famiglie, il cui unico reddito era il salario dell'operaio.
Il clima era teso, un clima di minaccia era nell'aria. Il giorno prima dello sciopero arrivarono a Modena circa 1500 uomini armati: un battaglione di carabinieri da Bologna, il reparto corazzato di Cesena, le compagnie complete della Celere di Ferrara, Forlì, Parma e Reggio Emilia, più, ovviamente, quelle modenesi. Le Fonderie Riunite erano presidiate con camion, jeep, sei autoblindo USA da combattimento (T17Staghound), e, sui tetti della fabbrica e delle palazzine adiacenti alla stessa, erano appostati armati i militi. Un vero clima di guerra.
La mattina del 9 Gennaio cominciarono arrivare i lavoratori provenienti anche da altre città emiliane, e cominciarono a stazionare davanti ai cancelli della fabbrica. Sembra che, verso le dieci del mattino, un gruppo di lavoratori avesse tentato di forzare il blocco dei cancelli, e all'improvviso sia partito dalla polizia un colpo di pistola, che uccise il meccanico APPIANI, e dai tetti i carabinieri aprirono il fuoco con le mitragliatrici, uccidendo il metalmeccanico MALAGOLI e lo spazzino CHIAPPELLI.
Cominciò così la sarabanda dei militi in città, dove trovarono la morte altri tre operai: il metallurgico ROVATTI, uso a portare una sciarpa rossa al collo, massacrato e buttato in un fosso, il carrettiere GARAGNANI, ed infine il metallurgico BERSANI, ucciso da un graduato dei CC, che da una distanza di oltre un centinaio di metri si era inginocchiato a terra ed aveva preso la mira proprio per uccidere. Tutti gli assassinati non facevano parte della maestranza delle Fonderie Riunite.
Nella tarda mattinata, finalmente, il Prefetto autorizzò l'uso di Piazza Roma per svolgere la manifestazione sindacale, quando ormai il barbaro eccidio era stato consumato. Nella strage, oltre ai sei morti, ci furono un numero alto, ma imprecisato, di feriti: almeno una cinquantina ricorsero al pronto soccorso, ma molti di essi furono fermati, piantonati, accusati di "attentato alle libere istituzioni per sovvertire l'ordine pubblico e abbattere lo stato democratico", per cui molti preferirono curarsi da soli.
Il totale degli arrestati fu di 34 lavoratori. I militari cercarono subito di addossare la colpa ai manifestanti, ed il Prefetto Laura, noto fascista, inviò telegrammi al Ministero, parlando degli scontri in termini di un attacco preordinato da parte degli operai contro la forza Pubblica schierata in difesa della fabbrica. Scelba difenderà accanitamente gli autori del massacro. La sollecita richiesta di spiegazioni dei fatti del Presidente della Repubblica Einaudi al Presidente del Consiglio De Gasperi ottenne solamente delle risposte non certo soddisfacenti.
L'unico atto significativo lo fece la deputata modenese Gina Borellini, medaglia d'oro al valore militare, vedova di un partigiano fucilato in piazza dai repubblichini, essa stessa amputata di una gamba nella guerra di liberazione; scese faticosamente dal suo scranno, e gettò in faccia a De Gasperi le foto delle sei vittime dell'eccidio. Nessuno fiatò.
L'indignazione era grande, in moltissime città d'Italia vennero organizzati proteste e scioperi generali per l'intera giornata; a Roma, in piazza SS. Apostoli, furono presenti più di 100mila persone per il comizio della CGIL, perché la CISL non aderì. L'11 Gennaio si svolsero a Modena i funerali dei sei lavoratori assassinati alla presenza di oltre 300mila persone.
Mentre in tutta Italia, come abbiamo visto, la strage aveva mobilitato migliaia di lavoratori, all'interno del PCI di Modena iniziarono contrasti e lacerazioni, che portarono al commissariamento del Partito a fine del 1952. Tale Giuseppe D'Alema (il padre dell'attuale politico D'Alema) fu nominato commissario, e cercò di normalizzare il partito cittadino che, secondo lui, era ancora attratto dalle tentazioni rivoluzionarie e che evidenziava l'impreparazione di un gruppo dirigente composto prevalentemente dalla "leva partigiana", con scarsa preparazione politica. Stigmatizzò il "carattere plebeo" di molti dirigenti e quadri di “vedere la realtà al di fuori della provincia, l'incapacità di elaborazioni teoriche e l'isolamento sociale, particolarmente visibile nella scarsa adesione al partito dei ceti medi urbani”: tale padre e tale figlio!...
Dopo i fatti, in Prefettura il 13 Gennaio 1950 si stipulò un nuovo accordo sindacale che prevedeva la riapertura delle Fonderie Riunite senza nessun licenziamento, alla sola condizione di una gradualità della riammissione al lavoro di tutti i dipendenti; Adolfo Orsi fu costretto a lasciare la dirigenza del gruppo siderurgico.
Al processo che seguì, i 34 lavoratori arrestati vennero assolti con formula piena per non aver commesso il fatto: due anni passati in carcere innocenti per una politica repressiva e autoritaria. I responsabili dell'eccidio, caduto tutto il castello di menzogne, furono per la prima volta condannati per l'uso troppo frettoloso delle armi, ed ai famigliari dei caduti fu riconosciuto, per la prima volta, un risarcimento economico.
Abbiamo visto la svolta autoritaria che il governo democristiano aveva scelto dopo le elezioni politiche de 1948, ma a questa svolta ha avuto delle responsabilità politiche anche il Partito Comunista che, con la politica dei fronti popolari, aveva da tempo accettato la collaborazione con la borghesia, reclamava per “sconfiggere il fascismo” l'unità di tutte le forze "democratiche", compresi i fascisti che facevano riferimento al programma di Sansepolcro del 1919.
Il PCI aveva accettato politicamente la resistenza tricolore, una Costituzione dove il perno era la difesa della della proprietà privata dei mezzi di produzione, aveva accettato in toto i Patti lateranensi, era stato promotore, grazie a Togliatti, della stessa amnistia dei fascisti (ora sì diventati più buoni!...), aveva accettato che la gestione delle fabbriche ritornasse nelle mani dei "legittimi proprietari", i quali, appena visto che la barca faceva acqua, si tolsero la camicia dittatoriale nera per quella "democratica", aveva accettato che i partigiani fossero processati ed imprigionati per fatti commessi durante la resistenza, e via di questo passo.
Tutto questo, se aveva creato disorientamento tra il proletariato, aveva rafforzato enormemente la borghesia, che è fascista o democratica secondo le sue convenienze ed i rapporti di forza dati, e che si era sentita abbastanza forte di schiacciare il piede sull'acceleratore della repressione. I compagni che ancora oggi vedono possibile un'alleanza con le forze borghesi progressiste per contrastare il fascismo, o addirittura appoggiano un imperialismo contro un altro, ritenuto più forte, pensando che ciò vada a favore dei lavoratori, certamente se hanno letto la Storia, o non hanno capito o non vogliono capire!...
La borghesia non regala mai niente ai proletari, e se questi vogliono la propria liberazione, devono conquistarsela da soli, con una autonoma organizzazione che ha come primo obiettivo proprio quello di abbattere la borghesia.
Alternativa di Classe
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