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Per il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese

(13 Ottobre 2023)

autodeterminazione palestinese

In questi drammatici giorni è in atto un feroce tentativo di delegittimare agli occhi dell’opinione pubblica chiunque sostenga la causa del popolo palestinese e la sua legittima resistenza a rivendicare i propri diritti. I governi dell’Ue così come la gran parte dei giornali “mainstream” bollano come amico di Hamas e di antisemita chiunque sollevi una voce dissonante o tenti di spiegare le cause degli avvenimenti che si stanno succedendo dal mattino dalla notte del 7 ottobre, quando è scattata la controffensiva di Hamas, facendo riemergere il peggio della vecchia retorica colonialista, razzista e islamofobica.

Queste accuse non ci possono intimidire, anzi ribadiamo che difenderemo e ci mobiliteremo per i diritti del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla resistenza contro la politica segregazionista del governo di Israele e per questo condanniamo tutta l’ipocrisia dell’imperialismo Usa e europeo, che accusa di terrorismo la resistenza palestinese mentre sostiene l’occupazione e i crimini di guerra israeliani.

Il nostro giudizio su Hamas, che non può essere riconducibile in alcun modo all’insieme della resistenza palestinese, è chiaro e netto. E’ una formazione islamista radicale di destra, lontanissimo dalle nostre concezioni politiche. Il suo rafforzamento è dovuto soprattutto alla fortissima crisi che vive l’Autorità nazionale palestinese, la cui politica dei “Due Stati” iniziata con gli accordi di Oslo si è dimostrata un fallimento; non condividiamo, quindi, il suo progetto politico così come condanniamo l’uccisione dei civili. La strategia volta all’istituzione di uno Stato islamico teocratico sull’intero territorio dello Stato di Israele la politica dei “due Stati” promossa dall’Autorità non rappresenta una alternativa progressista all’Anp e tanto meno un vero progetto di liberazione e di giustizia sociale del popolo palestinese.

Non crediamo, inoltre, che questo tipo di azione militare possa essere di utilità alla causa palestinese e scatenare quella “terza intifada” che sembrava profilarsi a causa delle continue provocazioni della coalizione di destra al potere e i continui attacchi alle popolazioni dei territori occupati. Per ora, è certo che Il governo Netanyahu ne ha approfittato per scatenare una brutale rappresaglia omicida, puntando a far tabula rasa della Striscia di Gaza e attuare una vera e propria pulizia etnica. Inoltre, è riuscito a ricompattare governo e opposizione così come gran parte dei settori critici israeliani nel sostegno all’offensiva militare contro la Striscia di Gaza.

E’ necessario, tuttavia comprendere le cause degli avvenimenti in corso, che hanno un origine storica, recente e meno recente, cause che sono state negli ultimi anni rimosse anche da quei settori della sinistra che avevano manifestato la propria simpatia verso la causa palestinese. Negli ultimi anni, infatti, il popolo palestinese è troppo spesso rimasto solo. È prevalso un sentimento di indifferenza o di stanchezza nei confronti della questione palestinese. La sconfitta storica delle sinistre lo ha di certo approfondito, ma non può costituire un alibi. Troppo a lungo Gaza, insediamenti coloniali, confisca di terre, demolizioni di case sono state realtà esorcizzate se non addirittura rimosse del tutto. Certo non è mancata la solidarietà di tanti movimenti, associazioni, giovani attivi nella campagna Bds che hanno cercato di tessere un rapporto costante con le forze che resistono in Palestina così come anche in Israele che lottano per il diritto alla piena autodeterminazione del diritto dei palestinesi e porre così fine ad un’ingiustizia storica che dura da 75 anni. Da questo tessuto, ancora non del tutto sfilacciato, occorre ripartire per rispedire al mittente le intimidazioni e non abbandonare il terreno della solidarietà al popolo palestinese e della mobilitazione.

Cosa è successo a Gaza negli ultimi anni?

Le truppe di Israele, dopo aver occupato il territorio durante la cosiddetta guerra dei Sei giorni nel 1967, si sono ritirate da Gaza nel 2005, ma hanno mantenuto il controllo dello spazio aereo e delle acque territoriali. Dal 2007 il governo israeliano ha imposto un blocco assoluto delle esportazioni e dell’importazione di qualsiasi bene, fatta eccezione di quanto definito “umanitario” di volta in volta dal governo. Il divieto di esportazione da Gaza verso i suoi mercati tradizionali e l’impossibilità di scambio di prodotti con la Cisgiordania hanno di fatto annullato un’economia di per sé già molto fragile e dipendente dagli aiuti internazionali. Dal 2007 ad oggi, inoltre, per gli abitanti di Gaza è consentita la navigazione del proprio mare entro e non oltre le tre miglia. L’insieme di queste pesanti restrizioni, impedisce qualsiasi forma di crescita economica, accresce i tassi di disoccupazione e la povertà.

Nel corso del tempo Gaza si è trasformata in un laboratorio di sperimentazione di nuovi strumenti di morte, contro il quale si sono scatenate operazioni militari sempre più massicce. Nel 2006, al termine dell’operazione “Piogge estive” furono uccisi 400 palestinesi, di cui oltre la metà erano civili. Nel 2009, l’operazione “Piombo fuso” che un rapporto di “Amnesty International” ha definito 22 giorni di morti e distruzione, ha comportato ha comportato più di 1000 vittime e la distruzione di migliaia di abitazioni. Nel 2014, l’operazione Protective Edge con bombardamenti sulla Striscia di Gaza da parte dell’aviazione israeliana uccise più di 2.310 palestinesi. I caduti nell’ambito della Marcia del ritorno sono stati 326, 35 000 i feriti. Si tratta di ferite profonde che difficilmente possono essere rimarginate.

Una nuova generazione di militanti e i territori occupati

La gran parte dei giovani palestinesi, la metà della popolazione dei territori, è nata e cresciuta in questo contesto. Non ha vissuto gli accordi di Oslo e al processo di pace che ha portato alla nascita dell’Autorità nazionale palestinese e alla scomparsa politica dell’Olp. In Cisgiordania questa generazione è con la divisione amministrativa della Cisgiordania, con la costruzione e il sistema dei checkpoint. Non ha mai viaggiato liberamente per la Palestina al di là delle diverse barriere innalzate dalle autorità israeliane. È una generazione che è nata e cresciuta accanto alla sconfitta della sinistra palestinese e alla crisi profonda di un movimento di liberazione nazionale in grado di individuare una strategia politica di lungo periodo, che ha visto il fallimento della “Seconda Intifada”. Hamas si è rivolto proprio a questi giovani, anche se sarebbe riduttivo ridurre tutta la resistenza armata ad Hamas o alla jihad islamica. Essa comprende anche settori della sinistra storica palestinese come il Fplp.

In queste ore, si profila una vendetta ancora più brutale. Netanyahu ha interrotto la fornitura di elettricità, carburante e beni di prima necessità agli oltre 2 milioni di abitanti della Striscia di Gaza. Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha dichiarato: “Stiamo combattendo contro bestie umane e ci comportiamo di conseguenza”. Questi sono i preparativi per quella che Netanyahu ha annunciato come una “fase offensiva, che continuerà senza limiti o tregue fino al raggiungimento degli obiettivi”. Il primo ministro israeliano ha assicurato che l’esercito del suo Paese userà “tutta la sua potenza” e ha esortato i palestinesi a lasciare la Striscia di Gaza, avvertendo che ridurrà le strutture dell’area in “macerie”.

La situazione internazionale

L’escalation del conflitto israelo-palestinese deve essere, inoltre, inquadrata nella situazione di crisi mondiale e di caos geopolitico caratterizzata da forti tensioni e da importanti cambiamenti. Qualche settimana fa è stata annunciata la possibilità di un accordo tra Arabia Saudita e Israele. Promosso dagli Stati Uniti, l’accordo mirava al riconoscimento dello Stato di Israele da parte della monarchia di Mohammed bin Salman. L’accordo, che non prevedeva concessioni importanti per i palestinesi, avrebbe segnato una svolta nelle relazioni geopolitiche di Israele, andando verso una maggiore “normalizzazione” dei rapporti con i Paesi arabi, sulla falsariga degli “Accordi di Abramo” promossi da Trump. Biden e Netanyahu ne hanno discusso a New York il 20 settembre. Il riavvicinamento tra Israele e la monarchia saudita sarebbe nei fatti un da contrappeso all’annuncio del ripristino delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran, promosso dalla Cina. La conclusione di questo accordo è stata complicata dall’azione di Hamas e dalla dichiarazione di guerra di Israele.

Il presidente Usa Biden ha subito accantonato le critiche a Netanyahu e alla sua riforma giudiziaria ed ha offerto il suo sostegno incondizionato al governo israeliano. Biden ha annunciato l’invio di navi e aerei militari, tra cui la portaerei “Gerald R. Ford” e le sue navi di supporto.

Se, durante la guerra fredda, l’imperialismo Usa vedeva nello Stato di Israele un avamposto fondamentale per arginare il movimento nazionalista panarabo in una zona ritenuta strategicamente ed economicamente importante, ora lo difende a spada tratta per riprendere quel ruolo che stava perdendo in Medioriente a scapito di quelle potenze regionali che cercano di occupare un posto centrale nella regione.

Non si può paragonare l’antisionismo all’antisemitismo

Il sionismo è un’ideologia nazionalista che rappresenta il tentativo di risolvere la “questione ebraica” (dal titolo dell’opera pubblicata nel 1896 da Herzl, tra i principali fondatori del movimento sionista) attraverso l’immigrazione in Palestina e la creazione di una società ebraica. Tra la fine del 1800 e gli inizi del Novecento, il sionismo era piuttosto marginale tra gli ebrei europei, tranne quelli che emigrarono dall’impero zarista per sfuggire ai pogrom e alla miseria.

Nel corso del tempo il sionismo si è trasformato in una forma specifica di colonialismo. Esso ha privato la popolazione palestinese del potere politico ed economico, non per sfruttarla nel proprio interesse, bensì per espellerla dalla sua terra e dalla sua patria e per poter così costruire sulle rovine della precedente società palestinese una società ebraica da cima a fondo. L’antisionismo esprime, quindi, la repulsione nei confronti di un regime coloniale che, come tale, si basa sull’annichilimento del popolo oppresso.

È bene ricordare che a generare nel corso dei secoli una lunga tradizione antisemita è stata la cultura europea: dall’antigiudaismo cristiano fino alla barbarie antisemita e razzista nazista e fascista. In realtà e paradossalmente, l’uso indiscriminato e inflazionato del termine antisemitismo usato dai membri del nostro governo, rischia di generare pericolosi equivoci e soprattutto di banalizzare crimini nazisti.

È bene anche non assimilare la colonizzazione sionista a tutta la popolazione ebraica che vive in Israele. Nello Stato di Israele c’è una parte della classe lavoratrice così come settori non indifferenti della società che si battono per una reale collaborazione e solidarietà tra lavoratori e lavoratrici ebrei israeliani e movimenti palestinesi. Se negli ultimi anni le voci di dissenso sono diminuite, non manca chi continua a lottare per una reale convivenza tra i due popoli consapevole che gli ebrei israeliani avranno tutto da guadagnarvi in pace, sicurezza e giustizia sociale. Accusato di tradimento dalla destra israeliana nazionalista, Hagai El-Ad, direttore di B’Tselem ha risposto citando l’anticolonialista francese Alber Memmi: “- se i valori di cui parliamo comprendono il dominio ebraico sui palestinesi – si, a questo punto mi considero un traditore”. La pace può diventare una prospettiva comune solo quando la cultura coloniale sarà riconosciuta e che ai privilegi dei dominanti saranno riconosciuti diritti uguali per tutte e tutti.

Queste sono le ragioni che ci spingono a stare sempre dalla parte degli oppressi. Queste sono le ragioni per cui rivendicheremo nelle piazze il diritto del all’autodeterminazione del popolo palestinese ed ad esigere:

- La fine dei bombardamenti e dell’intervento militare israeliano.
- La fine delle sanzioni economiche e delle misure di punizione collettiva contro il popolo palestinese.
- No a nessuna spedizione di armi ad Israele.
- La fine del blocco di Gaza

Gippò Mukendi Ngandu - Sinistra Anticapitalista

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