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Perché diciamo no alla missione militare in Libano

(17 Settembre 2006)

Non sono state le vacanze estive a impedire a PeaceReporter di fare un ragionamento sulla missione militare in Libano: è stata la complessità della vicenda. Una complessità talmente ricca di contraddizioni che ha impedito a molti di riuscire a dire, forte e chiaro, il loro “no” a una ennesima chiamata alle armi.
E persino a salvare dallo sdegno necessario gli organizzatori di una “marcia della pace” che è stata a tal punto strumentalizzata da venir trasformata in una marcia a sostegno di una missione militare.

Le diversità della missione libanese. Quella del Libano è una missione militare a tutti gli effetti, ma è pur vero che presenta caratteristiche che la rendono molto diversa da quelle, presenti e passate, che hanno coinvolto il nostro paese.
Prima di tutto è stata voluta fortissimamente dall'Onu, a differenza dei macelli iracheno e afghano. Non è destinata a cominciare con bombardamenti devastanti, a differenza di quella in Serbia. E' stata accettata dalle parti in causa. E' una missione che certamente ha spezzato l'unilateralismo della politica statunitense, e infatti non è stata ben digerita dagli Usa che han fatto buon viso a cattivo gioco. In queste e altre particolarità sta la differenza che ha fatto “ben vedere” un nuovo invio di militari all'estero. Tanto ben vedere che non hanno sentito nemmeno bisogno di chiamarla “missione di pace”.

Militari ben accetti. Ma la più importante differenza è un'altra: i soldati italiani (e francesi, e cinesi e russi...) sono stati bene accolti in terra libanese, dalla popolazione di quel paese. Blair, primo ministro britannico, ha avuto bisogno di scorte imponenti per riuscire a mostrarsi al paese dei cedri. D'Alema invece no. Il primo è visto anche lì come braccio poco pensante di Washington, il secondo (e le sue truppe) invece è stato accolto come un salvatore. Almeno fino a che non si provi a fare sul serio, perché qualsiasi libanese che sia di Hezbollah o meno, apprezza il ruolo che quelle milizie hanno avuto in questa storia.

Raccontare la guerra. A questo si aggiunga il tipo di comunicazione che è stata fatta su quel conflitto, almeno fino a un certo punto. Come è giusto, ma come non viene mai fatto, sono stati mostrati dalle televisioni di tutto il mondo gli effetti non collaterali della guerra: la distruzione, i morti, le vite spezzate, sempre civili. Solo civili, giacché su un fronte come sull'altro le vittime militari (peraltro non meno vittime) sono i veri effetti collaterali. Per questo gli editoriali dei commentatori, e non solo di quelli da sempre favorevoli ai conflitti e alle soluzioni militari, erano così sdegnati: “Ecco, vedete, usano le morti dei bambini per attaccare l'occidente”. Addirittura, le autorità israeliane hanno protestato contro i giornalisti che facevano il loro mestiere.
Poi però gli spazi di informazione si sono rapidamente chiusi. E di quello che è successo nel Libano meridionale, delle azioni criminali di un esercito che ha raso al suolo città e villaggi e li ha riempiti di bombe a grappolo, e che secondo tantissime testimonianze mediche avrebbe sperimentato nuove armi contro i civili, non si è più detto nulla. Le facce, i nomi, la carne maciullata... tutto è scomparso dai media, che sono tornati rapidamente a trattare di quel conflitto come fosse altro, come fosse “sterile”.

Perché no a questa missione. Per tutte queste ragioni, e forse anche per altre, è difficile riuscire a dire “no” a questa missione, a questa missione di pace che potrebbe trasformarsi in una guerra terribile.
Ma se pur difficile non è meno necessario di sempre. Anzi semmai lo è di più.
Pensiamo che la scelta militare o è sempre sbagliata, oppure va bene sempre.
Ed è sbagliata per molte ragioni, sempre e dunque anche adesso, in Libano.

Diritto alla vita e legittimità della scelta armata. Per una questione che non è solo etica, o morale ma dannatamente concreta: decidere per una spedizione militare, per quanto (forse) formalmente legittima, significa essere disposti a sacrificare vite umane, e la vita è un diritto inalienabile sempre e comunque. Anche in Cina, in Iran, negli Usa quando si decide di uccidere un uomo perché colpevole di un reato si prende una decisione legittima. Legittima, ma sbagliata. Perché la pena di morte è sempre sbagliata. Il fatto che una cosa sia formalmente legittima non significa affatto che sia sostanzialmente giusta.

Economia di guerra, economia di pace. La spedizione militare italiana in Libano costerà non si sa quanto (sulle spese militari ci si ispira sempre e comunque all'azzeccagarbugli del Manzoni) ma certamente non meno di 280-300 milioni di euro all'anno. Orbene, siamo sicuri che con questi quattrini investiti in altra e più pacifica e civile maniera si possano ottenere in quella regione risultati migliori e certamente più duraturi.
Nemmeno la missione militare in Libano del 1982 riuscì a stabilizzare l'area. Si ottenne una pausa durata qualche mese.
Se i soldi investiti in spese militari fossero impiegati nella costruzione di strutture civili, i problemi si risolverebbero, invece così si rinviano se va bene.

La politica è l'unica scelta. Al conflitto, in Libano, non ci si sarebbe nemmeno dovuti arrivare. Perché Hezbollah, per quanto provino a dipingerlo come un gruppo di pazzi fanatici, è una struttura politica, organizzata, stabile, e peraltro ha una rappresentanza importante nel governo libanese. Con la quale, e anche il cessate il fuoco giunto prima dell'arrivo dell'Onu lo sta a dimostrare, si può (e dunque si deve) trattare. E certamente non si può reagire ad un attentato o ad un rapimento provocando migliaia di morti. E questo dovrebbe essere, se han ragione coloro che predicano la “superiorità occidentale”, la “superiorità democratica”, davvero il minimo.

La questione palestinese. Alla missione militare in libano non ci si doveva arrivare perché con gli strumenti della politica e della discussione si doveva, e si deve, affrontare la questione palestinese. La vicenda di Hamas sta lì a dirci che quella è l'unica via praticabile. Nonostante la rappresentazione che di Hamas ci danno (e che Hamas stessa si dà), è stata proprio la sua vittoria elettorale a trasformare un gruppo armato e militare (che come tutti i gruppi armati e militari utilizza lo strumento del terrore) in un partito politico che come tale agisce.
E questo sortilegio è accaduto nonostante gli sforzi di gran parte del mondo occidentale che lo voleva impedire. Si sono giudicate le elezioni palestinesi inaccettabili (mentre invece quelle irachena e afgane sono state mostrate come il successo di quelle imprese). Si tollera la cattura di ministri e parlamentari di un governo legittimo da parte di un paese straniero. E nonostante l'embargo economico e tutte le altre questioni che affliggono il popolo palestinese, Hamas governa e non spara quasi più: si è creata una frattura importante in quel movimento tra chi ha scelto la politica e chi continua disperatamente a voler scegliere la guerra.
E' vero che non esiste una coscienza al mondo che possa rimanere indifferente alla distruzione e alla morte, in Kosovo come in Libano, quando la morte e la distruzione ce le fanno vedere. Ma è più utile bombardare o risolvere i problemi?

L'inganno delle scelte. Saddam era un boia, ma chi lo ha armato? Milosevic era un assassino, ma l'affare Telekom Serbia, per quanto “pulito”, è servito a rafforzarlo.
Del resto, la questione cinese sta lì a dirci che non è per questioni “umanitarie” etiche o morali che si compiono le grandi scelte di politica estera. Tutti sanno di quanto laggiù siano calpestati (e con spregio anche) i diritti umani. Eppure, sulle colonne dei nostri giornali, ci si rallegra del fatto che finalmente abbiamo una politica commerciale che apre a quel paese permettendoci di fare affari e di diventar più ricchi. Con buona pace dei diritti e della democrazia che vanno difesi in Afghanistan e in Iraq e in Libano, ma non in Cina. Perché? Perché con la Cina si diventa ricchi. Ma solo trattando, perché la via militare lì è davvero preclusa, e dunque non la si sceglie.

La guerra è sempre sbagliata. Perché la guerra è assenza di politica, comincia dove la politica finisce. E gli umani, hanno il dovere (non solo morale, ma biologico) di non far cessare mai l'uso della politica, perché è quella che garantisce la sopravvivenza della specie.
Quando si sceglie la via militare, oggi più che mai visti gli strumenti di distruzione che abbiamo a disposizione, si sceglie di estinguere la specie umana.

13.9.2006

Maso Notarianni - PeaceReporter

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