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Internazionalismo versus ideologismo

(13 Ottobre 2006)

Non sono d’accordo con il compagno Cotogni, il cui intervento, in tutta franchezza, mi sembra completamente anacronostico. In primo luogo, non mi sembra il caso di enfatizzare “Scritte di sostegno incondizionato ad Hezbollah, Amadinejad o Saddam magari firmate con falce e martello (…)”; anche se qualche mattacchione dovesse averne fatte, non credo rivestano la minima rilevanza. Pur essendo piuttosto impegnato sulle questioni medio orientali, inoltre, non mi è mai capitato di incontrare compagni acriticamente entusiasti verso chiunque impugni un kalashnikov o indossi una kefiah; viceversa, mi capita sin troppo spesso di imbattermi in persone che, magari con un linguaggio “di sinistra”, si fanno portavoce dei peggiori pregiudizi razzistici verso il mondo arabo e islamico.

Nel merito, il compagno Cotogni non dovrebbe fare confusione su vicende che sono già abbastanza complesse: per esempio, che senso ha accusare Hezbollah di aver partecipato all’ “eliminazione fisica operata negli anni 70-80 dalla Siria e dai suoi sicari (Amal, Hezbollah, socialpopolari drusi di Jumblatt) dei militanti della sinistra palestinese e libanese (…)”, affermazione che, per quanto riguarda Hezbollah, è totalmente falsa? A questo proposito, giova ricordare che Hezbollah nasce nella prima metà degli anni 80 (quindi, ben dopo la guerra civile libanese) ed a seguito dell’invasione israeliana del Libano, come scissione del movimento sciita Amal, quello sì infeudato alla Siria e colpevole di aggressioni criminali contro i campi palestinesi, al punto che Yasser Arafat lo definiva come una banda di gangster. Il movimento Hezbollah – al contrario - si caratterizza da subito per il proprio sostegno ai Palestinesi, oltre che per la determinazione con cui porta avanti la resistenza contro le truppe occupanti occidentali (U.S.A., Italia e Francia) e israeliane. Giova ricordare anche la stretta collaborazione, nella lotta armata contro gli occupanti israeliani, fra Hezbollah e le altre forze libanesi, a cominciare proprio dal Partito Comunista Libanese. Sarebbe bene, insomma, evitare di fare di ogni erba un fascio.

Rispetto all’irrilevanza militare di Hezbollah “nelle due fasi della guerra civile libanese (nel 1975-76 vinta di fatto dalle forze laiche e di sinistra, mentre la seconda fase 1978-79 dai filo-siriani)”, essa deriva dal fatto che, semplicemente, Hezbollah ancora non esisteva ed evidentemente non poteva avere rilevanza alcuna, né militare, né politica.

Quanto al Fronte Popolare ed al Fronte Democratico palestinesi, non mi risulta che “hanno ingaggiato delle vere e proprie battaglie contro le truppe di Assad (padre) che li attaccavano per scacciarli dal Libano”, tanto è vero che entrambe le organizzazioni hanno da sempre – compreso il periodo in questione - sede a Damasco, dove risiedono tuttora i loro leader storici, Georges Habbash e Najef Hawatmeh.

Il ruolo siriano nella regione è da sempre caratterizzato dalla dialettica fra pulsioni antimperialiste e tentazioni nazionaliste, specialmente nei confronti del Libano, di cui Damasco non ha mai accettato la separazione, imposta dalle potenze coloniali quando vennero creati i tanti Stati e staterelli artificiali del Medio Oriente, con l’occhio più rivolto agli interessi coloniali nell’area che all’effettiva realtà demografica e storica. Questa è una delle caratteristiche del Partito Baath siriano, come di altre formazioni analoghe nell’area, con cui i comunisti e gli antimperialisti devono fare i conti, come del resto fanno gli stessi comunisti siriani, che pure hanno più volte subito la repressione anche sanguinosa del clan Assad, mentre ora godono di maggiore libertà d’azione.

Non trovo realistica nemmeno la parte dell’intervento del compagno Cotogni in cui si afferma che gli Hezbollah “si sono asserragliati nel sud e nelle zone a ridosso del confine israeliano e le controllano con metodi clientelari (ricordate la vecchia DC nel nostro mezzogiorno?) accompagnati da minacce per chi non si assoggetta (migliaia di persone sono state costrette a trasferirsi a Beirut) e sovvenzioni generose per chi invece li asseconda”: anche per esperienza personale, posso dire che gli Hezbollah sono molto radicati nel sud del Libano, nella periferia meridionale di Beirut e nella Valle della Bekaa perché, banalmente, si tratta delle zone a più forte maggioranza sciita e, nella gran parte dei casi, più povere. Nel sud del Libano, aggiungo, è pure molto forte la presenza del Partito Comunista Libanese, che vi raggiunge anche il 30% in termini elettorali, mentre nel resto del Paese è attestato intorno alla comunque rispettabile percentuale del 15%. Quanto al “clientelismo” ed ai presunti metodi mafiosi di Hezbollah, il compagno Cotogni sarà sicuramente più informato di me, ma così, ad occhio, non mi sembrano questi i tratti distintivi di un movimento che, nel corso degli anni, non ha solo rafforzato la propria componente militare (ed ha fatto benissimo, direi), ma ha anche curato la preparazione politica e amministrativa dei propri quadri, non a caso considerati, per competenza ed onestà, quasi dei marziani, in un Paese in cui la cialtroneria e la corruzione dei politici assume dimensioni leggendarie. Vero è che molti Libanesi del sud sono stati costretti a trasferirsi, ma – per quanto ne so – si è trattato dei tagliagole che collaborarono con gli occupanti sionisti, come i secondini torturatori del carcere lager di Khiam, che fuggirono dal Libano con il ritiro delle truppe israeliane ed ora vivono, con passaporto israeliano, nello Stato ebraico, in alcuni Paesi europei (anche in Italia), negli U.S.A. e in Canada.

Io non credo che movimenti come Hezbollah e Hamas “rappresentano di fatto il principale ostacolo allo svilupparsi di una coscienza laica e socialista tra le masse mediorientali”, anzi leggo in questa affermazione un rovesciamento della realtà: si dovrebbe dire, semmai, che organizzazioni come Hezbollah e Hamas hanno riempito il vuoto lasciato dalle organizzazioni storiche della resistenza laica e marxista, travolte o comunque messe in crisi dalla propria corruzione interna o dal venir meno dei loro riferimenti politici e materiali (l’Unione Sovietica, per dire). Aggiungerei, per aprire un altro fronte di ragionamento, che Hezbollah e Hamas non hanno nulla a che vedere con il jihadismo di Al Qaeda o con il fanatismo dei Talebani, precisazione che non guasta, in tempi di islamofobia generalizzata.

Sulla natura del nostro internazionalismo: non ho dubbi sul fatto che “nel nostro orizzonte ci deve essere l’unione della classe operaia libanese, palestinese, siriana ed israeliana contro il dominio delle proprie rispettive borghesie, laiche o confessionali, filoamericane o filosiriane o filoiraniane che siano”, ma ho il sospetto che questo orizzonte non sia proprio vicinissimo e che la strada per raggiungerlo sia piuttosto tortuosa e accidentata.

Mi viene in mente il dibattito che, dopo i troubles del 1968/69 in Irlanda del Nord, precedette la spaccatura in due tronconi dell’I.R.A. e del partito repubblicano, il Sinn Fein. Una tendenza privilegiava quello che riteneva essere il punto di vista della classe operaia, dunque l’unità fra gli operai cattolici e quelli protestanti, mentre altri asserivano la priorità della resistenza contro l’occupazione britannica e il suo braccio armato lealista. I primi – autodefinitisi I.R.A. e Sinn Fein “Official” – abbandonarono quasi immediatamente la resistenza armata, persero rapidamente ogni credibilità presso le masse popolari di Belfast e Derry e si trasformarono ben presto in collaborazionisti degli occupanti, macchiandosi anche di crimini contro i combattenti e i simpatizzanti della resistenza; i secondi – chiamatisi I.R.A. e Sinn Fein “Provisional” – si buttarono anima e corpo nella resistenza armata, nella difesa dei quartieri popolari cattolici dalle violenze di Britannici e lealisti, guadagnandosi sul campo quella credibilità e quell’autorità morale che consentirono poi anche la crescita politica, in senso marxista, laico e socialista, del movimento. L’analisi “marxista” degli Officials non teneva conto di un elemento non secondario, in quel contesto: i privilegi di cui (grazie all’occupazione britannica) gli operai protestanti godevano nei confronti dei proletari cattolici erano tali da renderli insensibili a qualunque appello unitario, mentre i proletari dei ghetti cattolici erano – comprensibilmente, credo – sensibilissimi all’esigenza di difendersi dai pogrom condotti contro di loro da quegli operai protestanti che costituivano il grosso delle milizie assassine lealiste.

Questa storia – neanche tanto vecchia, peraltro – c’entra qualcosa anche con l’oggi: un conto è delineare teoricamente un orizzonte, ben altra cosa è costruire la resistenza e, all’interno di questa, far avanzare materialmente l’organizzazione di classe. Nello specifico, il robusto tenore di vita di molti lavoratori israeliani si basa in gran parte sullo sfruttamento dei territori palestinesi, per cui temo che la loro presa di coscienza sulla necessità dell’unità con i proletari palestinesi sia, purtroppo, non proprio imminente. Nel frattempo, il popolo palestinese rischia di cessare di esistere in quanto tale.

In altre parole, non si tratta di invitare le masse libanesi e palestinesi “a mettersi sotto la direzione di Hezbollah od Hamas, anziché promuovere l’autorganizzazione di classe del proletariato e la costituzione di partiti marxisti rivoluzionari anche in quei paesi” (eventualità che, personalmente, trovo irresistibilmente comica), ma – e qui sta la vera difficoltà – di individuare e, possibilmente, praticare un nuovo internazionalismo, nuovi rapporti di solidarietà con chi, in armi o in qualsiasi altra maniera, resiste all’imperialismo e al colonialismo. E’ dentro questa resistenza che devono vivere le istanze marxiste e rivoluzionarie, perché, nelle situazioni di cui stiamo ragionando, chi non lotta non ha diritto a nulla, nemmeno di parlare. Se i compagni del Fronte Popolare in Palestina e del Partito Comunista in Libano riescono a tenere aperta una prospettiva di liberazione non solo nazionale, ma anche di liberazione sociale nei loro Paesi, è perché combattono, perché hanno resistito e resistono alla violenza delle bombe, dei carri armati e delle pallottole dei sionisti. Del resto, quale possibilità di iniziativa politica avrebbero avuto i comunisti in Italia se non avessero partecipato alla resistenza ed alla lotta armata contro l’occupante nazifascista?

Non so se questo mio modo di vedere le cose mi esponga alla terribile accusa di “sostenere altrove forze espressione di lobbies delle borghesie nazionali, e magari coalizioni frontiste con le borghesie nazionali di altri paesi”. Probabilmente, si, ma confesso che questa accusa mi lascia abbastanza indifferente. Mi sembra più interessante l’apertura di un dibattito serio su quel nuovo internazionalismo cui ho accennato poc’anzi, la ricerca collettiva di un agire politico che sia realmente solidale con le lotte dei nostri fratelli e sorelle di classe in Medio Oriente come in America Latina, nel subcontinente asiatico come nelle metropoli occidentali. Individuare questo percorso mi sembra importante, e penso che si debba seguire anche su questo versante un criterio simile a quello che ha consentito la confluenza di esperienze e provenienze diverse nel Movimento per il Partito Comunista dei Lavoratori: un criterio politico, dunque non ideologico.

Nonostante il mio dissenso rispetto all’intervento del compagno Cotogni, non posso che ringraziarlo per aver aperto una discussione, che mi auguro coinvolga molti altri compagni e compagne. Una discussione necessaria, perché non è ragionevole e nemmeno pensabile che un Movimento come il nostro, con le ambizioni di cui è obiettivamente portatore, non si doti anche della strutturazione politica necessaria per un intervento reale sul più ampio scenario internazionale, il che non significa andarsi a cercare o inventare i partitini – gemelli in questo o quel posto, ma definire le coordinate politiche di quella che il compagno Cotogni ha definito – in questo, cogliendo nel giusto – la natura del nostro internazionalismo.

Germano Monti - mPCL di Roma

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Commenti (4)

I comunisti non appoggiano tutto e tutti.

La risposta al quesito posto da Cotogni pone al centro dell'internazionalismo (non nuovo!) l'appoggio ad ogni tipo di resistenza. Anche sotto l'impero sovietico tutte le "resistenze" venivano bene. La discussione più o meno precisa di Cotogni su Hamas non può prescindere da cosa questa rappresenti socialmente. Idem per la resistenza "cattolica" irlandese. In sostanza non si può e non si deve reputare come favorevole alla propaganda comunista la lotta "armata" in quanto tale, prescindendo dalla natura sociale di tale lotta.
E' ben noto come Marx non appoggiasse affatto le rivendicazioni irlandesi, e che quando lo fece, lo fece solo per contrastare l'ideologia imperialista nel proletariato inglese.
Mi pare che l'internazionalismo abbia da essere "vecchio", deve tornare a valutazioni sociali e non su opportunità più o meno offerte a "comunisti" che spesso non sono neanche tali.
Che poi ci sia in giro gente che si entusiama tanto per le varie "resistenze" più o meno ecclesiali, dimenticandosi di "resistere" al proprio imperialismo mi pare proprio di un evidenza solare.
Ciao

(14 Ottobre 2006)

cub genova

cub@cub-genova.org

Una replica a Germano Monti

L'intervento di Germano Monti a proposito dei movimenti di liberazione nazionale rimanda ad alcune questioni interessanti a proposito del rapporto tra movimenti di liberazione nazionale e lotta per il socialismo. E' bene precisare, prima di tutto, alcuni aspetti della questione libanese.Germano Monti, che si firma in quanto aderente al MPCL, fa parte di un movimento che prospetta la creazione di un partito sulla base di 4 punti programmatici. Due di essi sono l'opposizione a tutti i governi della borghesia e l'indipendenza di classe. Dobbiamo quindi ritenere che questi punti programmatici - visto che il MPCL ha tra i suoi elementi distintivi l'internazionalismo - possano essere estesi anche a livello internazionale e quindi anche al Libano. Se questo è l’approccio dovremmo porci inizialmente questa domanda
Qual'è la natura di Hezbollah? Hezbollah è un movimento a base fondamentalmente interclassista massicciamente finanziato dall'Iran. E' un movimento populista settario (ovvero sciita) con una reale base di massa costruita mediante un'accorta politica di welfare e di difesa della popolazione libanese dagli attacchi sionisti. Hezbollah non rigetta il capitalismo, pensa solo che esso vada sottoposto alle regole coraniche che prevedono una sorta di patronato e redistribuzione delle ricchezze mediante questue per i più poveri. Inoltre Hebollah è presente con 2 propri ministri nel governo di unità nazionale libanese. Ciò detto quindi l'opposizione ad Hezbollah, in quanto forza populista e interclassista dovrebbe da parte di chi aderisce al MPCL, un fatto scontato.
Tuttavia quello su cui Germano Monti ci invita a riflettere è il problema dell'influenza, anzi dell'egemonia, dell'islam politico su ampi settori massa in Medio Oriente. E di come si possa legare la questione dell'autodeterminazione alla questione della liberazione sociale. e quindi della necessità di battersi fianco a fianco dei resistenti seppur - possiamo dirlo? - reazionari al fine di costruire un'alternativa a queste direzioni. Ed egli fornisce due esempi storici. il primo è L'Irlanda del Nord e l'altro è quello della Resistenza italiana. Due analogie, a mio avviso, entrambe disgraziate e che dimostrano le debolezze del suo approccio.
L’esempio irlandese. La rottura tra IRA “provisional” e “official” era all’interno di una dinamica storica assai più complessa (non a caso dopo il cessate il fuoco unilaterale del 1972 gli “officials” subirono un’ulteriore scissione da parte dell’Ireland Socialist Movement (ISM) del duo Costello-Devlin MacLasky). Quindi non è sintetizzabile in una sorta di rirpoposiione dello scontro tra “ortodossi-menscevichi” ed “eterodossi-bolscevichi” in Russia, laddove l’ortodossia marxista nascondeva l’opportunismo politico. Tuttavia i “provisional”non erano un movimento di liberazione nazionale di natura reazionaria, quale lo è invece Hezbollah, ma evolvevano, per tutta una serie motivi che qui non c’è spazio di spiegare, a sinistra. Tuttavia malgrado in molti casi i suoi militanti e dirigenti parlassero della prospettiva di un’Irlanda non solo unita e repubblicana ma anche socialista, sottomisero il terzo obiettivo ai primi due, non tanto a parole, ma nei fatti. Lo stato penoso in cui versa il movimento repubblicano nell’Ulster e il tradimento del Sinn Fein, di tutto il suo programma storico, determinatosi in seguito all’accordo del 1998 (Good Friday Agreement), stanno lì a dimostrarcelo. Lo sviluppo dell’IRA si caratterizzò alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta per la rappresentanza della minoranza cattolica nell’Ulster (la lotta contro la discriminazione) e la difesa armata delle sue comunità dalle angherie dell’esercito britannico e dei gruppi paramilitari protestanti. L’IRA a parole negava ogni approccio settario nei confronti dei protestanti irlandesi in generale, tuttavia finì per condurre una lotta armata basata essenzialmente con mezzi terroristici e per cercare di diventare la rappresentanza politica maggioritaria dei cattolici nell’Ulster (a quest’ultimo obiettivo si avvicinarono solo nel 1980 in seguito alla gigantesca emozione provocata dall’eroica lotta negli H block che portarono alla morte di Bobby Sands e di altri nove militanti – 6 dell’IRA e 3 dell’INLA, braccio armato dell’ISM) . L’IRA non tentò MAI di costruire un ponte verso i proletari e i lavoratori protestanti irlandesi, verso i lavoratori irlandesi che vivevano nelle 26 contee del “sud”, verso quelli inglesi. In un contesto in cui i 2/3 della popolazione dell’Ulster era protestante, risultava assai difficile pensare che il semplice uso del tritolo potesse portare in nessun altro posto che verso…l’opportunismo. Del resto le strizzate d’occhio verso alcuni aspetti del cattolicesimo (l’approccio alla questione della liberazione sessuale) la politica semi-mafiosa di protezione dei commercianti e delle aziende cattoliche dalla piccola delinquenza comune di origine proletaria, resero l’IRA ben poco attraente per vasti strati di lavoratori e giovani, non solo protestanti. L’obiettivo di un’Irlanda repubblicana a 32 contee, non essendosi realizzato negli Venti per tutta una serie di fattori storici, non era più realizzabile negli anni Settanta se non attraverso un processo rivoluzionario socialista in cui si fosse prodotta UNA ROTTURA politica tra protestanti dell’Ulster e Gran Bretagna e senza il riconoscimento della possibilità di ampia autonomia e autodeterminazione per la minoranza protestante in Irlanda.
L’altro esempio propostoci da Germano Monti, è quello della resistenza italiana. E’ del tutto evidente che se i rivoluzionari italiani avessero avuto un qualche peso, pur riconoscendo il carattere imperialista di entrambi i contendenti e quindi organizzandosi autonomamente, avrebbero dovuto schierarsi MILITARMENTE, seppur contingentemente, con uno dei due campi in lotta. Tuttavia durante quello scontro (ipotetico) si sarebbe posto prima o poi il problema dell’approfondimento della radicalizzazione sociale e quindi del rovesciamento del CLN e della lotta contro l’occupazione americana. Questo approccio non è astratto ma è invece piuttosto fondato storicamente. Non solo nel movimento antifascista c’erano profonde aspirazioni socialiste ma in Sicilia ciò condusse persino a esperienze di resistenza popolare armata contro gli americani e contro il CLN.
La situazione italiana, se un paragone può essere fatto, non somigliava per nulla a quella libanese ma a quella spagnola del 1936-37 laddove Trotsky aveva con prospettato una complicata quanto corretta linea di marcia: i rivoluzionari dovevano schierarsi militarmente con il fronte popolare interclassista SENZA ENTRARE NEL SUO GOVERNO, e chiamare all’approfondimento della rivoluzione sociale. Tale approccio non era astratto ma era lungimirante: nel momento in cui l’ala borghese e stalinista vide ritrarsi il processo rivoluzionario sterminò i poumisti e gli anarchici che non si erano piegati alla politica opportunista della CNT.
Dunque a mio avviso ogni tattica politica in relazione alla questione mediorientale non può prescindere né dal contesto storico-politico ma soprattutto dall’ autonomia dell’organizzazione comunista. L’incapacità di trarre delle lezioni dalle controrivoluzioni (come tragico aborto della radicalizzazione iraniana nel 1978-79) può condurre ad altre (prevedibili) disfatte.
I rivoluzionari ovviamente riconoscono il diritto all’autodifesa del popolo libanese e della sua componente meglio attrezzata militarmente qual’è Hezbollah contro l'aggressione israeliana. Ma ciò non significa da nessun punto di vista un cedimento verso l’islam politico (sbaglio o Hezbollah sostiene la risoluzione 1701?) In Medio Oriente senza una politica lungimirante verso il proletariato e i settori avanzati della società israeliana, senza l’unificazione del proletariato arabo, è impossibile prevedere un rilancio della speranza dell’autodeterminazione palestinese (che i rivoluzionari devono sostenere senza tentennamenti). La politica genocida del governo d’Israele ha alimentato lo sviluppo di una strategia terroristica da parte del movimento di resistenza palestinese. Ci troviamo ora di fronte a una situazione assai simile a quella irlandese del 1998. Pensare di rovesciare il sionismo con il plastico si è dimostrata un’illusione che ha portato alla morte di migliaia di giovani palestinesi, sena che non solo l’obiettivo fosse raggiunto ma si allontanasse sempre di più. Ora la Palestina si trova davanti a un bivio terribile: la guerra civile tra Hamas e OLP oppure l’unità nazionale che porterà al riconoscimento DE FACTO degli accordi di Oslo. Impossibilitato per la sua natura stessa ad avere una visione di classe, Hamas, (o l’OLP) non può che oscillare tra le bombe nei bar di Tel Aviv e il cedimento all’imperialismo. I vari partiti comunisti –compreso quello libanese – sempre succubi della concezione della rivoluzione per tappe, non potranno che essere al traino delle componenti borghesi – più o meno radicali e populiste – che pullulano nel mondo arabo. Per questo l’internazionalismo comunista è una priorità. indispensabile anche nella lotta antimperialista.

(17 Ottobre 2006)

Yurii Colombo

yurii.colombo@alice.it

Perchè la risposta è stata scollegata dalla "proposta"?

Trovo poco chiaro che la risposta a Cotogni non sia stata messa come commento ma pubblicata come un altro commento e/o parere dell'autore. Così adesso appare la risposta di un presunto internazionalismo "nuovo" (ribadisco qui quanto invece sia vecchio, addirittura cominformista) ma dell'opinione di Cotogni se ne è smarrita la traccia.
La redazione, pur se non responsabile di ciò, potrebbe ovviare rimettendo le cose al giusto posto.
Grazie.

(20 Ottobre 2006)

redazione

cub@cub-genova.org

precisazione

una precisazione: l'articolo di umberto cotogni è raggiungibile dal menù laterale sinistro "Sullo stesso argomento:"
in ogni caso per maggior chiarezza abbiamo linkato l'articolo anche nella prima riga del testo

(20 Ottobre 2006)

il pane e le rose

pane-rose@tiscali.it

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