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(7 Settembre 2003)
Quattro settembre, le dieci di sera: a Nablus iniziano a entrare i militari israeliani: cinque carrarmati passano nella strada davanti a noi, poi camionette, blindati, jeep.
In poche ore il coprifuoco viene esteso a tutta la parte occidentale della città.
Cinque settembre, le tre del mattino: un ragazzo viene ucciso, i militari dicono che si chiama Mohammed.
Alle dieci il giovane è ancora in strada, morto; non permettono all'ambulanza di portarlo via.
Tentiamo di raggiungere la scuola dove ci sono i ragazzi del Medical relief team, Mrt (ong per l'assistenza sanitaria nei Territori occupati, ndr).
Stanno controllando che tutti i bambini siano presenti, che le famiglie della casa vicino abbiano raggiunto un posto sicuro.
Parliamo con un soldato nella jeep: ci dice che fra qualche minuto faranno esplodere un'abitazione vicino alla scuola.
Allibiti chiediamo di portare le famiglie e i bambini con noi, lontano dall'edificio.
Conosce le conseguenze traumatiche che queste persone e i bambini subiranno? «Certo!», ci risponde.
Perché non ci permette di portarli in salvo? Il soldato dice che è troppo tardi: l'edificio sta per saltare in aria.
Ci incamminiamo verso la scuola.
Urla: «Stop, go away!», è molto nervoso, temiamo ci spari e facciamo un passo indietro.
Il nostro sguardo è richiamato da un grande frastuono: vediamo la luce arancio dello scoppio: tutto è saltato per aria, un'onda di fumo si alza in cielo, i pezzi della casa investono la scuola, le cui finestre scoppiano; tutte le persone attorno sono investite dagli oggetti e dai detriti.
Lo hanno fatto anche se c'erano bambini, donne, ragazzi! Tutti urlano, piangono, corriamo verso la scuola per aiutarli.
L'edificio all'interno è devastato, tutte le finestre per terra, i bambini piangono, urlano.
Qualcuno li prende in braccio e li stringe forte, ma non basta.
Entriamo in una delle case vicine, colpite dal fuoco; arrivano i pompieri, della casa non è rimasto niente, solo macerie: la folla è intorno all'edificio, raccolgono le foto delle famiglie che abitavano lì, qualche oggetto, qualche ricordo frantumato.
Molte persone si rivolgono ai soldati, esprimono tutta la loro rabbia urlando, piangendo.
I soldati ridono forte.
Alle due e mezzo venti persone sono già in ospedale: esaurimento nervoso, sono sotto schok.
Simona Barberini e Federica Tonin
International solidarity movement (Ism),
Nablus
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