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(8 Ottobre 2011) Enzo Apicella

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La grande rivolta dei minatori di Marikana in Sud-Africa - Seconda parte

(27 Agosto 2023)

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Post scriptum: le conseguenze di Marikana

A circa due anni dalla rivolta dei minatori di Marikana (scrivo il 28 aprile 2014) è possibile toccare con mano la portata delle sue conseguenze, indiscutibilmente di grande importanza tanto in campo sindacale che nella vita politica del Sud Africa (e non solo).

Sotto l’impulso della lotta di Marikana, infatti, è nata lungo tutto il corso del 2013 una potente ondata di scioperi spontanei (“selvaggi”) in agricoltura, nel settore minerario, nelle fabbriche di auto, nelle costruzioni, nei trasporti. I braccianti della provincia del Capo occupati nella produzione di frutta, soprattutto uva, sono scesi in campo reclamando il raddoppio del proprio misero salario di 7 euro al giorno e rispondendo senza timore ai licenziamenti di rappresaglia e alle brutalità, agli arresti (almeno 50) e agli omicidi della polizia. I proprietari terrieri non sono riusciti a stroncare lo sciopero neppure con il ricorso al crumiraggio di operai non iscritti al sindacato. Ed è stato così che il 5 febbraio 2013 il COSATU, senza aver fatto nulla per la promozione dello sciopero, ha potuto concludere un accordo che garantisce ai braccianti delle fattorie di De Doorns il 52% di aumento del salario. In questo frangente è anche ripartito il dibattito pubblico sulla necessità di una riforma della proprietà della terra, oggi concentrata nelle mani di pochi grandi proprietari, i quali in molti casi si sono appropriati delle terre di coloro che, spossessati, sono stati costretti a diventare i loro braccianti, “ridotti in schiavitù nelle loro terre natie”, come ha scritto “The Guardian”.

Nello stesso mese di febbraio 2013 sono ripresi violenti scioperi nella regione mineraria a ridosso di Johannesburg tra la cintura di platino delle miniere di Rustemburg e le baraccopoli da cui proviene la maggior parte dei minatori, contro la valanga di 14 mila licenziamenti, poi ridimensionati a 6 mila, annunciati dalla Anglo American Platinum Limited. Anche in questo caso il conflitto sindacale ha riaperto un’antica questione politica, la nazionalizzazione delle miniere, una rivendicazione centrale nel settore più militante della classe lavoratrice sud-africana. Non se ne è potuto tener fuori, questa volta, neppure il NUM, della cui nefasta funzione a Marikana abbiamo detto. Altissima è restata, però, la tensione tra il NUM e l’AMCU, un cui militante è stato ucciso in maggio il giorno prima di testimoniare sull’eccidio di Marikana. Dopo questo omicidio migliaia di minatori della Longmin sono tornati a manifestare al grido di “abbasso il NUM”, respingendo l’invito di Simon Scott, l’a.d. della società, di riprendere immediatamente il lavoro.

Nei mesi successivi è stata la volta di 30.000 lavoratori del settore automobilistico, uno dei settori strategici del paese in quanto copre il 6% del pil e il 12% del valore delle esportazioni, entrati in sciopero negli stabilimenti di imprese multinazionali quali Volkswagen, BMW, Toyota, Mercedes, Ford, General Motors. A Porth Elisabeth, la Detroit africana, gli operai metalmeccanici hanno manifestato per le strade della città rivendicando un aumento salariale del 14%. L’effetto di trascinamento è stato immediato: 90.000 lavoratori delle costruzioni e 600 tecnici della compagnia aerea South Africa Airlines si sono aggregati al movimento di sciopero con richieste salariali simili e forme di lotta “illegali” come sfilare sulle piste degli areoporti. Sentendo montare pericolosamente la collera dei minatori, si è messa in moto anche la burocrazia del NUM che ha riscoperto, almeno a parole, il conflitto con le multinazionali del settore minerario, accusandole di irresponsabilità per i loro ricatti sui licenziamenti di massa, proprio mentre saliva rabbiosa tra i minatori la richiesta della protezione dei loro miseri salari dall’inflazione. Una sollecitazione dal basso non meno energica è arrivata da questi scioperi anche al NUMSA, il sindacato dei metalmeccanici. Ma i conflitti sociali si sono estesi anche agli insegnanti di Pretoria e di Città del Capo scesi in agitazione per protestare contro il completo degrado delle strutture scoalistiche: aule sovraffollate, in molti casi senza banchi, con mattoni al posto delle sedie, senza acqua, condizioni igieniche indegne. A completare il quadro c’è stato poi lo sciopero nazionale dei trasporti proclamato dai conducenti degli autobus per ottenere l’aumento del loro minimo salariale.

Se il 2012 era stato un anno speciale per l’ampiezza degli scioperi “illegali” con 17.290.552 ore di lavoro perdute secondo il ministro del lavoro Oliphant, il 2013 non è stato da meno. Non poteva esserci una conferma più chiara di come e quanto la rivolta di Marikana abbia elevato il livello di coscienza e di organizzazione dei lavoratori di tutto il Sud Africa, come testimonia la nascita di molti comitati di sciopero non promossi dai sindacati ufficiali. Quella che ha preso corpo nel 2013 è stata una mobilitazione di massa trasversale ai diversi settori e segnata dalla crescente pressione dei lavoratori di base sulle, e spesso contro, le proprie strutture sindacali, strette tra questa pressione e la pressione contrapposta di ANC e governo a non assecondare le aspettative dei lavoratori.

Il risvolto politico più clamoroso di questa attivizzazione dei lavoratori sud-africani è stato di sicuro il congresso straordinario del NUMSA tenutosi il 17-20 dicembre 2013. Questo congresso ha avuto il merito di fare un bilancio impietoso di venti anni di democrazia in Sud Africa, che si è aperto con l’amara constatazione: nulla di fondamentale è cambiato con la fine del vecchio regime di apartheid, “sotto tutti gli aspetti essenziali è rimasta in piedi la condizione coloniale della maggioranza nera, sicché l’attuale società deve essere caratterizzata come un ‘colonialismo di tipo particolare‘”. Nulla lo prova quanto l’esistenza di 26 milioni di sud-africani (25 dei quali neri) in condizioni di “povertà abietta”. Altrettanto secco il giudizio sull’ANC e sui suoi alleati (COSATU e SACP), accusati di avere fatta propria la prospettiva neo-liberista abbandonando definitivamente ogni riferimento alla “trasformazione rivoluzionaria” del Sud Africa e ogni intenzione di procedere all’espropriazione dei proprietari terrieri e dei grandi poteri economici. Il riferimento centrale del congresso è stato alla Freedom Charter del giugno 1955, cui è stata contrapposta la linea di deriva iniziata con i negoziati per la costituzione avvenuti a metà anni ’90, nei quali furono abbandonati i due punti qualificanti del programma delle trasformazioni sociali: la redistribuzione delle terre e la nazionalizzazione delle industrie. Il risultato è che dopo vent’anni di democrazia il Sud Africa “è diventato il luogo più diseguale e violento della terra”. Impressionanti i dati di fatto elencati: la grande massa della popolazione è “poco istruita, poco qualificata, vive in condizioni di estrema povertà, è priva di cure”, la disoccupazione è cresciuta fino a superare i 4 milioni di senza lavoro (con il tasso ufficiale al 25%), il livello di qualità e di efficienza delle strutture sanitarie pubbliche è patetico (in un paese in cui l’aids colpisce dal 14 al 18% della popolazione), gli enti locali sono al collasso, l’incidenza della violenza e dei crimini violenti, anche tra i minori, è ai suoi massimi storici (20.000 omicidi, 30.000 tentati omicidi, 50.000 stupri all’anno), la xenofobia nei confronti dei lavoratori immigrati è in aumento.

Ne deriva un giudizio categorico sulla dirigenza politico-sindacale del paese, inclusa la direzione del COSATU a cui il NUMSA appartiene, che vale la pena riportare per esteso: «La leadership del movimento nazionale nel suo insieme ha fallito nel compito di guidare un coerente e radicale processo di democratizzazione della società volto a risolvere dopo il 1994 le questioni nazionali, di genere, di classe. Questa leadership è oggi trainata in modo dominante dalla classe capitalistica nera e africana e si inchina ai diktat del capitale monopolistico bianco e degli interessi imperialisti. Si tratta, quindi, di nulla altro che di capitalisti parassiti e clientelari». Nel riassumere l’analisi del congresso il segretario dei metalmeccanici, Irvin Jim, è stato, se possibile, ancora più esplicito: la ledearship del sindacato, benché si professi ancora anti-imperialista, è in realtà “schierata in modo inequivocabile dalla parte del capitale internazionale”. Dopotutto, ha sottolineato, il Sud Africa di oggi dipende dall’esportazione delle materie prime (platino, oro, carbone, diamanti) né più né meno del Sud-Africa dell’apartheid storico; il settore finanziario del paese è dominato da sole quattro banche (ABSA, Nedbank, FNB e Standard Bank) nelle quali è molto forte, quando non prevalente il capitale estero, e lo stesso accade nei settori edile, farmaceutico, dell’auto, delle telecomunicazioni.

A seguito di un simile giudizio la necessità, è inevitabile per il NUMSA, sindacato forte di 341.150 aderenti, “ripensare” e rivedere i suoi rapporti con l’ANC e i suoi alleati. Altrettanto inevitabile identificare le radici della crisi del COSATU, che da anni sta subendo una vera e propria emorragia di iscritti, nella sua complicità con le politiche neo-liberiste del partito al governo. A fronte di ciò il NUMSA si appella a tutti i lavoratori del Sud-Africa, “neri, bianchi e africani” affinché si uniscano nella lotta per rivendicare l’integrale e immediata applicazione della Freedom Charter, a cominciare dalla nazionalizzazione delle “ricchezze del Sud-Africa, incluse le miniere e la terra”, e si sollevino contro la sudditanza delle strutture sindacali ai voleri del governo, dell’ANC, del capitale interno “bianco” e di quello globale. Tale energica denuncia politica, del tutto inimmaginabile senza la lotta di Marikana, mette capo alla prospettiva di un Movimento/Fronte unito per il socialismo, di cui il NUMSA si fa promotore. Importante è stata anche la decisione del sindacato dei metalmeccanici di rivolgersi oltre la propria categoria e oltre le fabbriche all’intero campo degli sfruttati sud-africani anche per ciò che riguarda le rivendicazioni immediate con al primo posto la difesa e l’ampliamento dei posti di lavoro, la parità salariale tra bianchi e neri, l’introduzione e il rispetto di un salario minimo nazionale per tutte le categorie (oggi inesistente) che garantisca a tutti una vita dignitosa, il blocco dei prezzi dei generi di prima necessità. Rivendicazioni che il NUMSA ha messo al centro dello sciopero nazionale del 19 marzo 2014, che si è svolto con una buona adesione.

L’intenzione dichiarata dei dirigenti del NUMSA è quella di esplorare la possibilità di “dare vita a un partito socialista dei lavoratori” e ad un movimento/fronte per il socialismo, di unificare le lotte degli operai con le lotte di quartiere per la casa, l’istruzione, l’acqua, la salute, i servizi, attraverso mobilitazioni di massa congiunte, di battersi per riconquistare dal basso il COSATU e consolidare l’attuale scelta di campo del NUMSA. È difficile dire se essa avrà un coerente seguito nei prossimi tempi oppure se, sotto l’infuriare degli attacchi di estremismo infantile e le provocazioni provenienti dall’ANC e dai vertici del COSATU, la sua dirigenza finirà per cercare compromessi al ribasso in nome della “salvezza della nazione”, una tematica comunque fortemente presente negli interventi di Irving Jim; se essa saprà dare un ulteriore impulso alla mobilitazione di massa o si impantanerà nei giochi elettorali/istituzionali a cui la perdita di credibilità dell’ANC lascia più spazio di un tempo.

Altrettanto difficile è preconizzare se il sindacato dei minatori nato a Marikana come alternativa al NUM saprà o no mantenere le sue promesse di restare indipendente dal governo. Più dubbio ancora, anzi – a mio avviso – altamente improbabile, è che siano in grado di dare effettiva forza a queste spinte le fibrillazioni, contestazioni interne e scissioni dell’ANC. Benché la corruzione sia un male sociale che colpisce anche i lavoratori, il fatto che il nuovo partito di Mamphela Ramphele, un ex-funzionario della Banca mondiale in buoni rapporti con gli Stati Uniti, abbia fatto della lotta alla corruzione il punto centrale del proprio programma dandole la priorità sulle aspettative e i bisogni primari dei proletari, non promette nulla di buono. Neppure gli Economic Freedom Fighters (un nome curioso per una formazione che si vuole a sinistra dell’ANC) capitanati da Julius Malema, che hanno una qualche influenza tra i giovani, costituiscono – al di là dei loro slogan ad effetto – una coerente incarnazione degli interessi dei proletari sud-africani in ebollizione. Anche queste prime fratture dentro l’ANC, però, mostrano che il Sud Africa sta approssimandosi a grandi passi ad una svolta della sua storia.

Del resto, non bastassero a dirlo gli esplosivi scontri di classe degli ultimi anni, anche il tasso di crescita della sua economia plana ormai rapidamente verso il basso: 2,5% nel 2012, 1,9% nel 2013, mentre il rand ha perso tra il 2011 e il 2013 il 30% del suo valore, e gli investimenti esteri, pur sempre significativi nel settore minerario e in quello immobiliare e finanziario, continuano a decrescere. Una linea di evoluzione non dissimile da quella che sta interessando gli altri celebrati componenti del gruppo dei Brics, scossi in modo crescente (con la sola eccezione della Russia) da conflitti operai, sociali, ecologici a largo raggio, che mettono in luce quanto i loro passati brillanti risultati economici fossero fondati su un’estrema polarizzazione sociale, su un insostenibile super-sfruttamento del lavoro, su forme asfissianti di controllo poliziesco, su un sistematico attacco ai rispettivi eco-sistemi. E quanto quindi il presunto “modello alternativo di crescita” da loro rappresentato, oltre che più fragile del previsto, sia totalmente inaccettabile per i lavoratori. Su questo i minatori di Marikana, i minatori sud-africani, 80.000 dei quali sono di nuovo in sciopero, hanno già detto l’ultima parola.



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Pietro Basso

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