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Napolitano a Tel Aviv

Napolitano a Tel Aviv

(16 Maggio 2011) Enzo Apicella
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PALESTINA 2023: IL FALSO INTERNAZIONALISMO E L’INDIFFERENTISMO VERSO LA QUESTIONE DI CLASSE

(19 Ottobre 2023)

Proletarians

A più di una settimana dagli avvenimenti del 7 ottobre, che hanno innalzato l’irrisolto e squilibrato conflitto israelo-palestinese al livello di una guerra asimmetrica, con la concreta possibilità di una sua estensione regionale, si impongono ulteriori e più specifiche riflessioni in merito alle “interpretazioni” che di quel conflitto e di questa guerra hanno dato e stanno dando gran parte delle molteplici anime della cosiddetta “sinistra di classe” nel nostro paese.

A poche ore dall’attacco delle milizie di Hamas e di altri raggruppamenti – ad esso assimilabili o comunque da esso diretti – abbiamo assistito a diversi tentativi di descrivere l’operazione attentamente pianificata di Hamas per uno spontaneo sollevamento di massa. Nel maggio 2021, lo sfratto delle famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah da parte dell’esercito israeliano aveva provocato un’ondata di proteste in Cisgiordania e persino uno sciopero di solidarietà dei lavoratori arabo-israeliani. Queste proteste e quello sciopero vennero presto egemonizzati dalle azioni militari dimostrative di Hamas, nel tentativo di acquisire ulteriore terreno politico nella West Bank a detrimento dell’Autorità Nazionale Palestinese. Un’erosione del consenso dell’ANP che aveva già avuto un’accelerazione in seguito al ritiro di Israele da Gaza nel 2005 e che, dividendo e indebolendo la controparte palestinese, è stata indubbiamente accolta con favore – se non favorita – dalla borghesia israeliana. Nell’ottobre 2023, il contesto è alquanto differente. Nonostante lo stillicidio di violenze e uccisioni perpetrate dall’IDF e malgrado la crescente insostenibilità delle condizioni di vita in una Striscia di Gaza sempre più isolata e sottoposta a limitazioni sempre più stringenti dal punto di vista economico, l’attacco di Hamas non ha rappresentato il tentativo di strumentalizzare ed egemonizzare un moto di lotta della popolazione di Gaza o della Cisgiordania, bensì un bieco calcolo volto a capitalizzare la violenza della reazione israeliana per risvegliare nell’opinione pubblica mediorientale e mondiale un’ondata di proteste che condizioni, rallenti o persino impedisca il processo di appeasement in corso tra le potenze regionali tradizionalmente “amiche” della causa palestinese – in particolare l’Arabia Saudita – e Israele. Appare sempre più chiara la volontà di una delle frazioni della borghesia palestinese di accreditarsi come unica rappresentante della causa nazionale, e dunque come unica beneficiaria del sostegno politico e dei finanziamenti delle potenze regionali, come l’Iran, e di quelle mondiali i cui interessi confliggono con quelli di Israele e dei suoi alleati. Meno visibili sono le dinamiche che hanno spinto Hamas a giocarsi il tutto per tutto in un’operazione che potrebbe di fatto portare lo Stato israeliano – ammesso che le immagini di una sua reazione sproporzionata proiettate in mondovisione non convincano i suoi più stretti alleati a suggerirgli moderazione – a eradicare per mezzo di una nuova Nakba la base territoriale del consenso del “Movimento Islamico di Resistenza” nella Striscia di Gaza.

Nel frattempo, alle nostre latitudini, abbiamo dovuto assistere al mesto spettacolo degli irrefrenabili e scomposti gongolamenti di chi si è sperticato nell’entusiastica ammirazione per le inedite ed efficaci tecniche di guerra dei commandos partiti da Gaza o di chi si è dedicato al compiaciuto conteggio delle vittime che Hamas e soci hanno ottenuto gettando «il cuore – e il deltaplano – oltre l’ostacolo», quando, purtroppo, l’obiettivo oltre l’ostacolo del muro concentrazionario eretto attorno alla Striscia di Gaza erano essenzialmente civili disarmati. Uomini, donne, ragazzi[1], anziani, da uccidere e sequestrare come ostaggi, tutti accomunati nella indistinta e borghese categoria del “nemico nazionale”.

Ad un primo consuntivo, è evidente che parlare di un “successo militare” delle milizie di Hamas è serio soltanto nella misura in cui si riconosce che queste ultime hanno indubbiamente aggirato le capacità difensive dell’esercito israeliano e raggirato quelle dell’intelligence di Tel Aviv, meno serio è ritenere che queste formazioni abbiano in qualche modo prevalso nel confronto in armi contro target specificamente militari. È indubbio che l’immagine dello Stato israeliano e quella delle sue forze armate abbiano ricevuto uno schiaffo, ma le guerre non si vincono con gli schiaffi in effige, né tantomeno con l’eccidio di civili su scala artigianale. E di questo, molto probabilmente, i leader di Hamas sono molto più consapevoli degli entusiastici sventolatori di bandiere palestinesi nostrani. Allo schiaffo – come era prevedibile e molto probabilmente previsto e calcolato – hanno fatto seguito i feroci colpi di maglio della borghesia israeliana, che, bombardando Gaza su scala industriale, può senz’altro vincere la sua guerra contro i civili palestinesi, di fatto tutti accomunati nella indistinta e borghese categoria del “nemico nazionale”, quando non in quella altrettanto indistinta e disumanizzante delle “bestie assassine”. Ottanta anni fa, gli ebrei del ghetto di Roma venivano rastrellati e catalogati sotto la dicitura: untermenschen. La borghesia israeliana di certo non lo ignora, ma quando si tratta di catalizzare l’odio di massa e giustificare una violenza inumana, tutte le borghesie si assomigliano.

Non possiamo fare a meno di domandarci se, ora che il “magnifico successo” del “colpo militare” di Hamas si conta in un numero di morti israeliani che è stato rapidamente superato da quello dei palestinesi – vittime dei bombardamenti “chirurgici”, dell’interruzione delle forniture di acqua e di energia elettrica negli ospedali operata dallo Stato Ebraico –; se, ora che centinaia di migliaia di proletari palestinesi hanno perso quel poco che ancora possedevano, una famiglia, una casa, un lavoro (per chi ne aveva uno), costretti a fuggire e ad ammassarsi nell’estremità meridionale di una trappola per topi, alla probabile vigilia di un attacco via terra dell’esercito israeliano, coloro che gongolavano si renderanno conto di quali conseguenze questa «imponente e spettacolare» “rivolta” avrà per le prospettive immediate e future della nostra classe nella regione, e se, rendendosene conto, proveranno un minimo di disagio. La domanda è retorica perché la risposta è già stata data decine di volte, nel corso di tutta l’insanguinata storia del conflitto israelo-palestinese: assolutamente no. L’azione di Hamas, che diventa il “cuore” della resistenza palestinese, non è soggetta ad una valutazione politica da parte di questi “rivoluzionari anticapitalisti”, essa è giusta in sé, quali che ne possano essere le ricadute.

Per ritrovare un simile modo di ragionare, da parte di chi pretende di richiamarsi a Marx, occorre spingersi più indietro di un Kant e persino di un Machiavelli… occorre tornare alla teologia. Le prossime volte – e ce ne saranno, purtroppo – questi “politici rivoluzionari” urleranno ancora più forte, immersi in un eterno presente in cui ad ogni giro di giostra… si ricomincia; come se nulla fosse accaduto, senza nulla aver appreso e con la pretesa di tutto insegnare. Combattenti e resistenti “senza se e senza ma” … con la pelle degli altri, dalle loro scrivanie, dai loro tablet, o al massimo da qualche chiassosa passeggiata pubblicizzata senza pudore come “manifestazione internazionalista”.

Ma non dimentichiamo le posizioni più sfumate, persino peggiori nella loro furbesca ambiguità. A distanza di poco più di una settimana, già si colgono i primi accenni di distinguo rispetto all’adesione politica “senza se e senza ma” alle operazioni del 7 ottobre ed ai suoi responsabili. Tempo al tempo e buona parte di questi “internazionalisti” che per qualche giorno hanno messo in piedi l’istituto Luce degli attacchi di Hamas si riscopriranno (a parole of course) i rigorosi interpreti (ed unici, altrettanto of course) di un internazionalismo classista che mai vacillò…

Quando i conti umani e politici della mossa di Hamas diventeranno palesi, molti di questi signori si riscopriranno puri e incontaminati da ogni simpatia per le formazioni clerico-reazionarie che hanno sequestrato la causa palestinese, e i più disonesti faranno riferimento a “clausolette–via di fuga”, a minuscole pezze d’appoggio inserite precauzionalmente e strategicamente ai margini di testi inneggianti alla mirabile offensiva “Ciclone al-Aqsa”.

Che dire poi di chi, pur ostentando una presunta mancanza di abitudine nell’utilizzo della definizione “popoli”, perché – ci insegnano – ormai ovunque nel mondo nasconde la contrapposizione tra le classi, ritiene nondimeno che a Gaza la borghesia e il proletariato si trovino nella “stessa barca” della comune oppressione israeliana e che la lotta del proletariato palestinese contro la borghesia palestinese che lo sfrutta – e che dunque è esattamente l’altro termine di quella “doppia oppressione” di cui tanto si ciancia senza capirne il senso – passi “oggettivamente” in secondo piano.

Una “barca”, quella dell’oppressione israeliana, che possiede però delle comode scialuppe di salvataggio, a disposizione della borghesia palestinese e dei suoi rappresentanti politici e militari di primo piano. Scialuppe sempre pronte a salpare e la cui rotta è impostata verso i lidi del Qatar o dell’Iran, dove l’accoglienza è garantita ed è accompagnata da ogni genere di comfort. A più di due milioni di proletari gazawi, tuttavia, non è consentita questa via di fuga. Al massimo possono raggiungere la “spiaggia” del fatiscente campo profughi di Shati[2], immolarsi per la “causa nazionale” e accontentarsi di quella “solidarietà” degli Stati arabi o islamici che tanta commovente prova di sé ha dato negli ultimi 75 anni.

Una lotta di classe a tal punto in “secondo piano” da costringere nel marzo del 2019 una parte del “popolo” palestinese, quella rappresentata da Hamas, a picchiare, arrestare, rinchiudere e torturare centinaia di palestinesi appartenenti all’altra parte del “popolo”, quella che è costretta materialmente a lottare contro l’aumento del costo della vita e contro il deterioramento delle proprie condizioni di esistenza[3].

Dello stesso ambiguo tenore, le posizioni di chi nega la possibilità di leggere quella israelo-palestinese come una ferita che l’imperialismo ha aperto e che continua ad infettare, e che l’imperialismo può richiudere soltanto aprendone di nuove, una ferita che soltanto la distruzione dell’imperialismo potrà definitivamente sanare. Per costoro, palestinesi e israeliani ricadono nelle categorie di “colonizzati e colonizzatori”. Poli opposti che non possono certo “fraternizzare” nel buio di quella notte del marxismo in cui tutte le classi sociali sono grigie e in cui la contrapposizione fondamentale sembra diventare quella tra “nazioni proletarie” e “nazioni borghesi”. Pascoli e Bottai hanno decisamente lasciato un segno più duraturo di Marx e di Lenin presso una certa sinistra “di classe”.

La definizione dell’israeliano come “colono” occulta la divisione in classi di una società israeliana nella quale, oltre ad una borghesia spietata ed arrogante, esiste anche un proletariato. Un proletariato che, per quanto momentaneamente asservito ad un’ideologia razzista (repellente quanto ogni altro razzismo) e assuefatto da generazioni a ritenere una necessità sia l’apartheid nei confronti dei suoi fratelli di classe palestinesi che la loro segregazione nei bantustan della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, rimane nondimeno proletariato, con tutto ciò che questa caratterizzazione di classe comporta. Da marxisti, ricordiamo ciò che ad altri, che pure si definiscono marxisti, torna regolarmente comodo dimenticare – ammesso che lo abbiano mai appreso –, ovvero che l’ideologia dominante è quella della classe dominante, e sappiamo che per quanto il proletariato possa essere condizionato dall’ideologia borghese la sua contrapposizione come classe al capitale ed ai suoi Stati è un dato materiale che non potrà mancare di manifestarsi, in tempi e modalità che non saranno i rivoluzionari comunisti a stabilire.

D’altronde, all’interno della definizione del palestinese come “colonizzato”, vaga e indefinita come quella di “popolo”, dovrebbe rientrare una borghesia persino più parassitaria di quanto già il concetto di borghesia come classe non implichi: uno strato sociale che, nonostante le limitazioni alla crescita economica imposte dall’oppressione della borghesia israeliana, trova il modo di beneficiare di una condizione di privilegio nei confronti dei propri connazionali nonché di intascare profitti, spesso proprio in virtù delle stesse limitazioni che impoveriscono gli strati più deboli della popolazione[4]. Una borghesia avida, prezzolata dalle elemosine delle potenze regionali, feroce taglieggiatrice di un proletariato palestinese disomogeneo, disperso, concentrato esclusivamente nel senso dell’alta densità abitativa in un lembo di terra, impiegato perlopiù nel ridotto settore agricolo, nell’edilizia e nel terziario; una borghesia che a Gaza, a fronte di una spaventosa disoccupazione prodotta da una crescente esclusione dal tessuto economico israeliano, mantiene una stabilità sociale che gli è cara come la pupilla degli occhi tramite sussidi elargiti con quel che rimane degli aiuti internazionali.

Tornando agli interpreti nostrani dell’attuale riacutizzazione del conflitto israelo-palestinese, è triste bisogna quella di accennare di passata alle solite, scontate, cialtronesche accuse di “indifferentismo”, di “ultra-sinistrismo” e persino di “operaismo”, lanciate a mo’ di scomunica urbi et orbi da autoproclamati “papi rossi”, privi di potere temporale e ancor meno (et vraiment pour cause) spirituale, contro le poche soggettività politiche che cercano di mantenersi coerentemente nel campo dell’internazionalismo proletario…

Nell’anno 2023, a circa 800 anni dal germogliare dei rapporti capitalistici in Europa, a circa due secoli e mezzo dagli esordi della rivoluzione industriale, a più di un secolo dalla Rivoluzione di ottobre, a 80 anni dall’ultimo conflitto interimperialistico generalizzato e a circa 50 anni dalle ultime significative rivoluzioni nazionali nel mondo coloniale, gli internazionalisti devono ancora sorbirsi grotteschi sofismi su un’incompleta affermazione mondiale della sussunzione reale del lavoro al capitale che dovrebbe giustificare il sostanziale appoggio a qualsiasi “lotta di liberazione nazionale”, da qui all’eternità.

Se di dovessero prendere sul serio le leziose balordaggini di questi sofisti in abito talare, che si proclamano marxisti, al movimento operaio internazionale non resterebbe dunque che attendere la proletarizzazione dell’ultimo contadino dell’Africa subsahariana che produce per l’autoconsumo; attendere l’abbandono della caccia al tapiro con la cerbottana al curaro da parte dell’ultimo degli yanomani della foresta amazzonica; attendere il passaggio attraverso le “forche caudine” del capitalismo di tutti quegli sfruttati che nel vasto mondo ancora vivono e lavorano in modi di produzione asiatici, feudali o comunistico-primitivi – e il cui peso nell’economia mondiale è “notoriamente” tanto elevato da far sì che i rapporti capitalistici di produzione non possano ancora dirsi predominanti –, affinché il proletariato possa porre le proprie rivendicazioni di classe immediate e storiche all’ordine del giorno in tutto il mondo. Già che ci siamo, potrebbe rivelarsi opportuna persino una scrupolosa indagine sulle modalità attraverso le quali «producono e riproducono la loro vita reale» anche certi eremiti delle nostre Alpi, sostenitori conseguenti della “decrescita felice” che vivono del formaggio della loro capretta, prima di spingersi tanto oltre da definire capitalistica la struttura economica e sociale italiana.

A questa «logica puramente economicistica e meccanicamente deterministica», che nulla ha a che fare con il marxismo, gli internazionalisti non hanno da contrapporre altro che il marxismo stesso, evidenziando come la pretesa che ad ogni singola nazionalità oppressa nel mondo – senza contare quelle che l’imperialismo non mancherà di generare come le teste dell’idra[5] – debba essere garantito un proprio Stato prima che si possa mettere all’ordine del giorno la rivoluzione comunista, non è che un modo per “rinviare” quest’ultima alle “calende greche”. E questo, sia detto con chiarezza inequivocabile, è senz’altro il modo migliore per ammaestrare il proletariato dei paesi avanzati nel sostegno all’una o all’altra delle potenze dell’imperialismo, che suscitano, frenano, muovono o spengono, secondo il loro interesse, le intramontabili ed eterne questioni nazionali; e dunque anche il modo migliore per convincere la classe operaia a rimanere inerte di fronte all’unica possibile soluzione non imperialistica di tali questioni.

Peraltro, è decisamente singolare che alcuni di coloro che sembrerebbero aver assunto una posizione internazionalista nel contesto della guerra imperialistica in Ucraina, malgrado non esista ancora un movimento proletario autonomo né in Ucraina né in Russia, ritengano invece che gli appelli alla solidarietà internazionalista nel caso dell’attuale guerra in Medio Oriente siano rituali privi di senso, dal momento che non esiste ancora un movimento proletario autonomo in Palestina ed in Israele. In questo caso, le vergogne di un’inconfondibile acquiescenza all’imperialismo sono nascoste assai goffamente, così come goffa è la presunzione di attribuire un contenuto progressista a forme ideologiche clerico-reazionarie[6] che, in quanto tali, non possono rappresentare materialisticamente che l’espressione di un contenuto altrettanto reazionario, a meno che non si vogliano assimilare, trascurando qualche secolo di evoluzione storica borghese, gli ayatollah agli albigesi d’Occitania o i talebani alle Roundheads puritane inglesi.

Abbiamo molti elementi per tracciare un primo identikit del falso internazionalismo.

Il falso internazionalismo confonde – se intenzionalmente o meno è di scarsa rilevanza – l’internazionalismo con lo sciovinismo in favore delle patrie altrui. Sufficientemente accorto da riconoscere che la propria nazione non ricade in una condizione di oppressione – cosa che lo distingue dal rosso-bruno sovranista popolare – ritiene altresì che sia internazionalismo l’infatuarsi di una patria oppressa che non sia la propria. Non “qualsiasi” patria oppressa, si badi bene, ma essenzialmente quelle in cui anche in un lontanissimo passato il movimento nazionalista si sia dato una qualche tinta “socialista”: i Paesi Baschi, l’Irlanda del Nord, la Catalogna, il Kurdistan, la Palestina, l’Iraq ecc. Poi, certo, c’è anche il falso internazionalismo più “largo”, quello degli scopritori del contenuto progressivo del nazionalismo religioso (che spesso è stato ed è più un universalismo confessionale sovranazionale che un vero e proprio nazionalismo, motivo per cui è stato ed è strumento delle potenze dell’imperialismo), e allora nel computo rientrano anche le sette fanatizzanti dei talebani in Afghanistan o dell’ISIS in Medioriente, tipici sottoprodotti dell’imperialismo. Di altre oppressioni nazionali, meno “di sinistra” o semplicemente meno al centro delle dinamiche interimperialistiche – e quindi della copertura mediatica borghese – al falso internazionalismo interessa meno di zero.

Al fondo del falso internazionalismo c’è l’esigenza di parteggiare per qualcosa che si manifesti concretamente, con limpida chiarezza, senza troppa complessità; motivo per cui non riesce ad esaltarsi per la lotta di classe, che è costante ma che in determinate fasi storiche risulta poco visibile, meno spettacolare nelle sue manifestazioni, meno soddisfacente nelle sue forme e nei suoi esiti immediati. Il falso internazionalismo allora si getta a corpo morto sulla più classica delle “cause giuste”, quella più apparentemente “semplice”, quella più tangibile ed appariscente nella sua dinamica politica e militare: la causa delle nazioni oppresse, ignorando o fingendo di ignorare l’attuale contesto imperialistico mondiale, e per motivi del tutto estranei a quelli per cui anche il marxismo le ha dato appoggio.

La lotta di classe, per il falso internazionalismo, non è in fondo che “un gioco a cui si gioca poco”, un ripiego in mancanza di meglio, e il meglio sono quelle lotte suscettibili di risvegliare gli entusiasmi del piccolo borghese.

La prova del vero “indifferentismo”, quello verso la questione di classe e verso la prospettiva del comunismo, emerge inconfondibilmente dal totale disinteresse circa le conseguenze di queste pretese lotte nazionali per l’agibilità di un discorso internazionalista rivolto al proletariato delle aree coinvolte. Non è plausibile che gli attuali sostenitori di una “resistenza palestinese” – che, attualmente, non può essere disgiunta dal controllo di frazioni borghesi reazionarie, serve di più padroni, se non ubriacandosi di autoinganno – credano nelle sue possibilità di vittoria in armi contro Israele. Allora come si può sinceramente ritenere una tale vittoria – che dopo ogni riacutizzazione militare del conflitto si allontana con sempre più chiarezza e rapidità dall’orizzonte – una tappa obbligata da percorrere prima di poter finalmente porre all’ordine del giorno la questione di classe? Come si può sinceramente insistere nel sostegno ad un’impostazione che, protraendosi senza soluzione visibile, non fa che acuire gli odi nazionali puntellando reciprocamente la tenuta ideologica delle borghesie contrapposte e rendendo sempre più complicata un’eventuale presenza internazionalista nell’area?

Le immagini dei corpi straziati dei civili israeliani – probabilmente in gran parte appartenenti alla nostra classe –; quelle delle ragazze e dei ragazzi israeliani legati, incappucciati e rapiti; le urla di una madre proletaria palestinese che si rotola in terra dalla disperazione davanti alla sua casa bombardata con dentro i suoi figli; i vagiti di sofferenza di un neonato in un ospedale privato di elettricità a Gaza[7], dovrebbero suscitare un’indicibile rabbia, un furore incontenibile per l’arretramento di almeno un secolo delle prospettive della nostra classe in Palestina ed Israele. Certamente non dovrebbero suscitare l’irresponsabile ed incosciente giubilo per lo scoppio di una guerra borghese di cui le masse palestinesi pagheranno il prezzo più alto, senza probabilmente nemmeno avvicinarsi a quell’indipendenza a cui non crede neanche la marcia borghesia nazionale.

Per il falso internazionalismo, per l’indifferentismo verso la questione di classe, il richiamo alla prospettiva del comunismo è ormai soltanto una stanca abitudine, il tributo pagato ad un’autorappresentazione della propria immagine, la simulazione di un sentimento che non si prova più.

L’internazionalismo invece, quello coerente, ancora una volta viene ridicolizzato e dileggiato, mistificato a misura di critiche tanto arroganti quanto prive di nerbo e di onestà intellettuale. Ad esso viene imputata la paura del “tabù” nazionale, una “mancanza di concretezza”, la ripetizione di ottuse “litanie” e persino una complicità con l’imperialismo.

Nessun tabù, ma soprattutto nessun feticcio della questione nazionale, che per la sua intima essenza era, è, e sarà borghese, quale che possa essere stata o che eventualmente possa tornare ad essere la sua utilità in funzione degli interessi del movimento operaio internazionale.

La nostra concretezza, è la concretezza di tutti coloro che si riconoscono in un marxismo non inquinato, e non consiste certo nel ridurre a declamazioni retoriche, o a slogan, parole d’ordine che in Palestina sono purtroppo ancora fuori dalle possibilità reali, lontane dagli orizzonti visibili. A differenza però di chi vorrebbe approfittare della curvatura che cela questi orizzonti come di un “tana libera tutti”, possiamo, dobbiamo e vogliamo tenere alta e bene in vista la fiaccola dell’internazionalismo proletario, per segnalare la necessità di una indipendenza di classe. Per i proletari palestinesi, doppiamente oppressi, affinché un giorno non troppo lontano possano difendere la propria esistenza fisica dalle prevaricazioni della borghesia israeliana e del suo Stato in maniera autonoma, separata e contrapposta alle operazioni politico-militari dei mercanti di carne umana delle frazioni borghesi palestinesi, laiche o bigotte che siano (e non ci sogneremmo di biasimare i proletari palestinesi che dovessero quel giorno liquidare con metodi spicci quanto esemplari i loro borghesi, anche di matrice islamica). Per i proletari israeliani, sfruttati dalla propria borghesia, ostaggi di un’ideologia nazionalista profondamente reazionaria ed aggressiva, nutrita per generazioni da un clima di incertezza e di paura scientemente coltivato, affinché, in primis per i loro stessi interessi, un giorno non troppo lontano possano battersi contro il regime di apartheid inflitto ai loro omologhi di classe arabi, lottare per il riconoscimento della loro eguaglianza giuridica e politica in Israele e persino riconoscere programmaticamente ai palestinesi il diritto borghese alla separazione in un territorio adeguato, ponendosi così in maniera incontrovertibile contro il proprio Stato, contro il nemico in casa propria.

Se, dato l’attuale contesto imperialistico, la realizzazione di tale separazione è altamente improbabile, se non come possibile risultato di una guerra tra le potenze dell’imperialismo che coinvolga il Medioriente o di una vittoria rivoluzionaria del proletariato delle metropoli imperialistiche, l’impostazione in questi termini del problema da parte di un movimento operaio cosciente ed organizzato di Israele rivelerebbe uno sviluppo tale da non potersi certo limitare al raggiungimento di questo insufficiente risultato.

Il riconoscimento dei diritti nazionali dei proletari oppressi da parte dei proletari degli Stati che ne opprimono altri è un passo verso l’autodeterminazione di classe internazionalista. È un passo necessario, quali che siano le effettive possibilità di realizzazione di entità statuali separate, un passo che i proletari degli Stati oppressori devono compiere 1) per dare ossigeno alla lotta dei proletari delle nazionalità oppresse contro le loro stesse borghesie; 2) per dimostrare di porsi realmente in contrapposizione con la propria borghesia e contro il suo Stato; 3) per risultare interlocutori credibili di una solidarietà di classe internazionale e per rendere possibile quella fraternizzazione di massa che oggi è implausibile e che i “realisti” incapaci di vedere al di là del loro miope naso opportunista deridono come utopia.

Solo con il raggiungimento dell’autodeterminazione di classe si potranno schiudere le prospettive per una federazione del proletariato del Medioriente che possa fare a meno di confini riempiti con il sangue di generazioni di sfruttati aizzati gli uni contro gli altri. Solchi profondi in cui tutte le sordide centrali dell’imperialismo, tutte le borghesie straccione e arrampicatrici, immergono periodicamente gli artigli infetti.

Solo il raggiungimento dell’autodeterminazione di classe può costituire la premessa della sola rivoluzione che possa liberare tutte le nazionalità oppresse senza dover necessariamente passare attraverso la costituzione di uno Stato borghese. La sola rivoluzione che possa liberare tutte le comunità etniche e linguistiche esistenti da qualsiasi oppressione giuridica, politica o culturale, passando attraverso la formazione di nazioni, quindi di Stati, ma di Stati operai rivoluzionari, organicamente uniti nell’obbiettivo di una società nella quale (nelle parole del Manifesto di Marx ed Engels) «il pubblico potere perderà il suo carattere politico», nella quale lo Stato come tale si estinguerà, dove, seppure dovessero conservarsi le nazionalità, scompariranno le delimitazioni politiche dei popoli e non ci sarà posto per Stati nazionali separati[8].

Si tratta di una prospettiva lontana, ma, – almeno per coloro la cui convinzione rivoluzionaria si rafforza invece di vacillare, è l’unica che impedisca di farsi strumento in mani altrui. Per arrivare lontano occorre mettersi in marcia prima di subito, senza esitazioni, senza nascondersi o nascondere le immense difficoltà del compito – magari per il timore di “spaventare” chi probabilmente non è fatto per la lotta. Occorre cominciare adesso, malgrado gli ostacoli che la borghesia mondiale frapporrà al nostro cammino e incuranti della vile derisione dell’urlante canea degli opportunisti.

Oggi e sempre, la divisa dei comunisti internazionalisti è: Trotz alledem! – malgrado tutto – le ultime parole lasciateci da Karl Liebknecht prima di essere massacrato da Freikorps fanatici e reazionari tanto quanto le bande sioniste e quelle di Hamas.

NOTE

[1] Diverse voci sono circolate in questi giorni sugli organi di stampa e televisivi sull’uccisione e decapitazione di alcuni bambini israeliani. I partigiani di entrambi gli schieramenti borghesi si sono lanciati freneticamente ed incautamente da un lato nella pura negazione del contenuto di queste voci, attribuite alla disinformazione di guerra israeliana, e, dall’altro, in una fiducia pregiudiziale e priva di esitazioni nell’apparato mediatico che copre il conflitto. Con ogni probabilità, queste voci avranno la loro definitiva conferma o smentita soltanto quando la “nebbia della guerra” si sarà diradata da tempo. Ad ogni modo, l’orrore della strage degli innocenti e l’ignominia della calunnia propagandistica non rappresentano nulla di nuovo sotto il sole dell’imperialismo e delle sue guerre, soltanto un motivo in più per non farsene strumenti.

[2] Spiaggia, in arabo.

[3] https://www.amnesty.org/en/latest/press-release/2019/03/gaza-hamas-must-end-brutal-crackdown-against-protesters-and-rights-defenders/.

[4] Ad esempio grazie al contrabbando.

[5] Sia detto per i “furboni” che sputano controvento ritenendo di poter contrapporre a chi rimane coerentemente internazionalista l’elaborazione di un Lenin che hanno trangugiato senza aver digerito.

[6] Frequente è il riferimento in questi termini alla cosiddetta “rivoluzione khomeinista” del 1979. Tuttavia, la sinistra iraniana e non pochi “sinistri” europei non rimasero affatto “indifferenti” a questa pretesa espressione in forma religiosa di contenuti “rivoluzionari”, al contrario, buona parte delle sinistre iraniane la appoggiarono risolutamente… finendo massacrate dopo la presa del potere delle frazioni borghesi iraniane organizzate in forma religiosa. Dimostrazione plastica, se vogliamo, di quanto oggi, nell’epoca dell’imperialismo, la veste religiosa rivesta contenuti reali, ferocemente borghesi e antiproletari.

[7] È di queste ore la notizia del bombardamento di un complesso ospedaliero a Gaza. Lasciamo ai partigiani dell’uno o dell’altro schieramento imperialista dibattere su chi ne abbia la responsabilità. Per gli internazionalisti il dato di fatto certo è la morte di centinaia di proletari palestinesi e la responsabilità altrettanto certa quella di una borghesia egualmente reazionaria al di là e al di qua del muro della Striscia.

[8] «… gli Stati nazionali socialisti separati costituiranno solamente uno stadio di transizione sulla via della società senza classi e senza Stati del futuro, dal momento che la costruzione di tale società è possibile solamente su scala internazionale!» Cfr. R. Rosdolsky, Il proletariato e la patria, https://coalizioneoperaia.com/2020/04/22/roman-rosdolsky-il-proletariato-e-la-patria.

Circolo Internazionalista "Coalizione Operaia"

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