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63° anniversario

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(15 Maggio 2011) Enzo Apicella
63° anniversario della fondazione dell'entità sionista e della nakba palestinese

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DIFFERENTI RAZIONALITA’ POLITICHE

(13 Dicembre 2023)

Dalla raccolta Palestina 2023 – Una battaglia per la chiarezza internazionalista, dicembre 2023

Collage internazionalista 2

I recenti sviluppi del conflitto israelo-palestinese hanno pienamente confermato la necessità di un approccio attento, ponderato, ispirato a criteri politici di classe rispetto all’accelerazione innescata dal raid lanciato il 7 ottobre dal braccio militare di Hamas e da altre formazioni sotto l’egemonia del partito islamista. I fatti che si sono susseguiti non hanno fatto che confermare come non si sia trattato di una reazione spontanea di masse oppresse e nemmeno di un’azione da inquadrare in una generica e mitizzata categoria di “Resistenza”, come tale da sottrarre ad un’analisi puntuale dei suoi significati politici, di classe. I tentativi di aggirare questa realtà, inneggiando ad una metafisica “resistenza delle masse palestinesi” per non screditarsi con un’aperta dichiarazione di solidarietà con l’unica, concreta, direzione politico-militare borghese dell’operazione “Diluvio Al-aqsa”, non hanno più credibilità del ritenere che salire su un treno non implichi necessariamente muoversi nella direzione imposta dalla locomotiva. Le azioni partite dalla Striscia di Gaza sono state l’atto politico di una minoranza politica organizzata. Ciò non significa – tutt’altro – che debba essere ignorato il retroterra sociale, i legami sociali alla base di questa azione e nemmeno il quadro complessivo in cui essa si è inserita. Indubbiamente un passo essenziale e necessario è costituito dalla valutazione dello specifico contesto storico e regionale, dei suoi sviluppi precedenti e di come questi hanno determinato la situazione attuale, dei rapporti di forza reali e concreti in cui si trovano ad esistere ed operare le prevalenti espressioni politiche della società palestinese che sono innegabilmente – essendo anche la società palestinese una società capitalistica, divisa in classi – espressioni politiche di frazioni borghesi. Il giudizio circa il divenire di una maturazione capitalistica regionale, all’interno della fase storica imperialistica con tutti i suoi nessi, interazioni e interventi esterni, ha guidato ancora una volta la valutazione di fondo del reale significato delle azioni scaturite dal quadro politico della borghesia palestinese – in questo caso con particolare attenzione alle sue componenti insediate nella Striscia e in ampia misura rappresentate dall’azione di governo esercitata da Hamas – dei suoi reali margini di manovra, dei contorni storici che le proprie iniziative possono effettivamente assumere. Che la debole e rachitica borghesia palestinese non avesse le risorse, le forze, il peso e che quindi non avesse alcuna possibilità di assolvere i compiti di una lotta antimperialistica che non fosse un richiamo velleitario a cui si accompagna oggettivamente il coagularsi meno solenne di più immediati e concreti interessi politici; che non potesse nemmeno assumere una funzione di guida o con significativi margini di autonomia nel rilancio di una lotta di liberazione nazionale ormai pienamente sussunta nelle dinamiche imperialistiche e delle potenze regionali, era un dato di fatto che ha già ottenuto importanti e risolutive attestazioni in un lungo percorso storico. Un dato di fatto che oggi ha trovato solo ennesime, tragiche conferme. Ma questo inquadramento generale, pur necessario, non è però sufficiente se ci si impegna nel tentativo di compiere una reale «analisi concreta delle situazioni concrete», non quella immancabilmente e sentenziosamente evocata – e mai praticata – dagli opportunisti per tacciare di schematismo o di “principismo” la demistificazione marxista dei loro schemi e dei loro princìpi di marca prettamente borghese; se ci si sforza di comprendere per lo meno alcuni elementi essenziali del significato politico della specifica azione guidata da Hamas. Questa formazione islamista, radicatasi a Gaza, ha fatto e fa politica. Fa politica quanto le forze borghesi che sono alla guida dello Stato israeliano e che controllano la vita politica della società capitalistica israeliana. Hamas non è un’entità guidata da superficiali e persino irrazionalistiche vocazioni apocalittico-messianiche, dalla semplice retorica della rivolta o da un primordiale istinto di ribellione contro l’oppressione esercitata, garantita e centralizzata dallo Stato israeliano. Hamas fa politica entro i limiti e gli spazi oggettivamente consentiti dal gioco imperialistico e dai rapporti di forza regionali. Fa politica attraverso le influenze, le costrizioni, l’intreccio delle proiezioni di attori enormemente più forti economicamente, più strutturati politicamente, giunti alla autonoma forma statuale in tempo utile per perseguire i propri interessi nel confronto internazionale tra Stati e per sfuggire alla cruda subalternità delle realtà nazionali senza Stato nell’epoca dell’imperialismo.

Capire il più correttamente possibile il significato di questa politica significa cercare di porsi nelle condizioni di maturare e preservare un’autonomia politica di classe, una coerente impostazione internazionalista, di fronte ad un’accelerazione che ha investito un’area attraversata da una linea di faglia del confronto e dell’assetto imperialistico, suscitando ampie e intense mobilitazioni politiche ed ideologiche sul piano internazionale.

All’indomani del 7 ottobre era inevitabile interrogarsi sul significato politico di questo raid che avrebbe inevitabilmente comportato una durissima azione militare israeliana sul territorio della Striscia. Una delle prime risposte che si sono affacciate, ampiamente presente nel panorama della stampa internazionale, è stata quella che associava l’attacco di Hamas alla necessità di ostacolare il processo di avvicinamento e di normalizzazione diplomatica in corso tra diversi Stati arabi e Israele, di reagire alla marginalizzazione internazionale della questione palestinese, di imporla nuovamente e con forza nell’agenda politica dei Governi e delle opinioni pubbliche. Per quanto contenga indubbiamente elementi di verità, questa interpretazione però non era sufficiente. Il divario economico e militare tra i Territori palestinesi e Israele è talmente abissale (ogni comparazione diventa poi del tutto irreale se si considera la sola Striscia di Gaza) che il rischio concreto per Hamas non era solamente una reazione israeliana particolarmente massiccia e spietata ma addirittura la messa a repentaglio delle possibilità di Hamas di continuare ad esercitare un ruolo politico preminente nella Striscia. La marginalizzazione della questione palestinese stava comportando ricadute ed effetti così gravi da imporre alle forze politiche egemoni nella Striscia una sorta di drammatica scommessa politica? Quella di puntare a far riottenere alla causa palestinese una centralità anche a rischio di essere sradicate dall’unico territorio che costituisse per esse un’area nazionale di radicamento, una propria base territoriale in cui poter esercitare qualcosa di simile ad un potere statuale? Le possibilità che gli sviluppi seguiti al 7 ottobre potessero spingere una coalizione di Stati arabi a unirsi per combattere Israele e quindi aprire nuovi spazi alla manovra delle forze politiche palestinesi erano minime e il prosieguo degli avvenimenti lo ha per ora confermato. Senza mai dimenticare che affrontare Israele sul piano di uno scontro militare convenzionale richiederebbe profondi cambiamenti nei rapporti di forza e negli assetti imperialistici globali, sarebbe il segnale di una fortissima accelerazione nella pressione di determinate potenze per mettere in discussione anche il ruolo statunitense nella regione e non solo. Finora nemmeno la Cina, nel corso della crisi di Gaza e nei contatti con Washington, ha manifestato un atteggiamento che possa mostrare nitidi segnali in questa direzione. Che la Russia, ancora impegnata in Ucraina e alle prese con l’erosione su più fronti della propria sfera di influenza economica e politica, possa fare da decisiva sponda ad una rinvigorita azione palestinese e possa proporsi come forza attiva nel ridisegno degli assetti regionali, è cosa assai poco credibile. Né una disponibilità ad esercitare questo ruolo è affiorata nelle condotte politiche, per quanto diversificate, delle varie potenze europee. L’interpretazione poi di una iniziativa di Hamas volta a suscitare una reazione di piazza nei Paesi arabi e musulmani e porre così sotto pressione i Governi più riluttanti al confronto diretto con Israele – puntare tutto, insomma, anche la propria presenza politica sul territorio, sulla carta di una spinta “dal basso” dalle possibilità e dagli esiti tutti da verificare – implicherebbe un altissimo grado di difficoltà, prossimo alla disperazione, della leadership politica di Gaza. C’è però un fattore che, se considerato nella sua complessiva rilevanza, può costituire una solida premessa ad un’ipotesi con cui conferire un ulteriore e più articolato significato politico all’accelerazione impressa dall’azione di Hamas. I Territori palestinesi sono economicamente subordinati ad Israele, sono economicamente dipendenti da legami e collegamenti fondamentali, riguardanti il mercato del lavoro, le forniture energetiche, di materie prime etc, su cui Israele può agire in maniera determinante. Questo esito non è stato il prodotto lineare e spontaneo di una “naturale” superiorità economica della società israeliana o degli insediamenti ebraici che hanno preceduto la formazione e l’espansione dello Stato d’Israele. È stato in gran parte il risultato di un’opera di distruzione degli equilibri sociali palestinesi, di una generale opera di asservimento che ha trovato nel momento economico un aspetto talvolta meno appariscente, almeno allo sguardo degli osservatori internazionali che non vivono e sperimentano la quotidianità di questo asservimento, ma di fondamentale importanza. Questa condizione di subalternità e dipendenza accomuna tanto la Cisgiordania quanto la Striscia di Gaza: le esportazioni palestinesi nel 2021 sono state dirette per l’80-90% (1,17 miliardi di dollari) in Israele (il secondo Paese importatore è la Giordania con 123 milioni)[1]. Gravi sono le condizioni economiche e sociali dell’insieme del tessuto sociale dei Territori palestinesi: il tasso dei giovani non occupati e non scolarizzati è stato nel 2021 del 31,8% (19,8% in Italia e 16,8% in Israele)[2]. Il settore agricolo palestinese del governatorato di Hebron (il maggiore della Cisgiordania) è stato gravemente colpito da fattori quali l’espropriazione di terre e la carenza d’acqua (in genere deviata a beneficio degli occupanti israeliani); la popolazione di Hebron riceve l’elettricità dalla compagnia nazionale israeliana (Qutria); nei Territori palestinesi è assente una rete ferroviaria[3]. La rete stradale costruita da Israele sul territorio palestinese ha sistematicamente agevolato gli insediamenti israeliani, ostacolando o interrompendo le comunicazioni tra le aree abitative palestinesi. Ma la condizione della Striscia di Gaza nel corso degli anni è peggiorata complessivamente anche in rapporto alla Cisgiordania. Dopo la vittoria elettorale del 2006 e quella militare su Fatah l’anno dopo, Hamas è diventata di fatto la forza di Governo nel territorio della Striscia ed Israele ne ha praticamente sigillato i confini (i cittadini gazawi possono raggiungere il territorio israeliano solo con permessi speciali e non possono andare all’estero), riservandosi di disporre eventuali allentamenti in casi come il transito di aiuti internazionali o iniziative come il finanziamento da parte del Qatar delle forniture di carburante e di parte degli stipendi degli stessi funzionari di Hamas[4]. Da una panoramica della Banca Mondiale datata 11 maggio 2023 risulta che le restrizioni alla circolazione imposte da Israele continuano a limitare lo sviluppo palestinese in Cisgiordania, riducendo però Gaza a condizioni assimilabili a quelle di un’«economia quasi chiusa»[5]. Alla fine del 2022, il tasso di disoccupazione nell’insieme del Territori palestinesi è stato del 24,4%, ma con un divario significativo tra le due entità palestinesi: 13,1 in Cisgiordania e 45,3 a Gaza[6]. Il 90% del cibo consumato nella Striscia è importato e la media locale delle ore giornaliere in cui è disponibile l’energia elettrica è 13[7]. La percentuale di persone bisognose di assistenza umanitaria sul totale della popolazione è risultato (2022) del 25,6% nelle aree A e B della Cisgiordania (l’area A, 18% della Cisgiordania, è l’unica sotto il pieno controllo civile dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’area B è soggetta ad amministrazione congiunta ANP-Israele), 30,3% nell’area C (oltre il 60% della Cisgiordania, comprendente gran parte delle zone più coltivabili e maggiormente ricche di risorse, sotto esclusivo controllo israeliano) e 61,8% nella Striscia di Gaza[8]. Le difficoltà del settore agricolo della Striscia di Gaza sono diventate gravissime: negli anni Israele ha ampliato la zona cuscinetto alla propria frontiera sottraendo alla Striscia il 30% delle terre coltivabili e dal 2007 al 2014 non è stata possibile alcuna esportazione (e successivamente sono rimaste drastiche limitazioni)[9]. Anche il settore ittico di Gaza è in condizioni molto difficili: gli Accordi di Oslo dei primi anni ‘90 del secolo scorso consentivano ai pescatori della Striscia di pescare fino a 20 miglia nautiche dalla costa (37 chilometri), il limite è stato ridotto a 3 miglia nel 2008 e poi portato a 15 miglia nel 2019; il settore deve poi confrontarsi con gravi problemi di reperimento delle attrezzature e dei ricambi a causa dell’embargo israeliano[10]. La fragilità e la dipendenza economica di Gaza non la rendono vulnerabile solo alle pressioni, evidentemente le più forti e dirette, di Israele ma anche della rivale formazione politica palestinese, l’ANP. Israele non riconosce Hamas e tratta con l’ANP anche questioni che riguardano la Striscia, come il servizio sanitario. Il ministero della Salute di Gaza dipende di fatto dall’ANP che gestisce sia il flusso di medicinali (che risente anch’esso del blocco israeliano) sia il versamento dei salari a migliaia di dipendenti del settore, agendo su questa leva per cercare di rafforzarsi politicamente[11]. Se si tiene conto che essere la principale forza politica di Gaza, la formazione che detiene il ruolo di maggiore potere in ciò che è comunque l’insieme di istituzioni e apparati che rappresentano gli organi di un governo locale, significa anche assumersi la responsabilità diretta della gestione quotidiana dei più vitali bisogni di milioni di gazawi, allora anche i caratteri estremi della “scommessa” del 7 ottobre risultano più comprensibili. Continuare a gestire una situazione che, secondo una stima dell’Onu del 2012, sarebbe dovuta diventare invivibile già nel 2020, avrebbe esposto Hamas ad un duplice, esiziale, rischio politico, che, derivando dalla crescente insicurezza delle condizioni di sopravvivenza di vaste componenti di una popolazione mediamente giovane e densamente concentrata, non avrebbe potuto essere scongiurato con un continuo appello allo spirito di sacrificio in nome della fedeltà alla causa nazionale rappresentata dalle formazioni politiche al potere nella Striscia: Hamas non avrebbe avuto altre strade che accettare di assumere un profilo più conciliante nei confronti di Israele in cambio di “boccate di ossigeno” per l’economia e la tenuta sociale (ma questo avrebbe significato intraprendere una trasformazione di fatto sulla falsariga della tanto disprezzata ANP, un autentico snaturamento per una formazione che non ha mai riconosciuto gli Accordi di Oslo, che ha fatto del rifiuto totale della mediazione e della subalternità nei confronti dell’occupante israeliano la propria ragione di esistere e di consenso) o andare incontro ad una crescente instabilità sociale, ad una bancarotta come autorità di governo della Striscia (un oggettivo fallimento nei compiti essenziali di garantire condizioni minime di esistenza alla popolazione che il costante richiamo alle oggettive responsabilità israeliane non avrebbe potuto attenuare più di tanto). Insomma, continuare a “tenere” Gaza avrebbe comportato per Hamas niente meno che il rischio di una morte politica, o attraverso l’abbandono della propria identità o lungo un cupo cammino di tensioni sociali sempre più insostenibili, di fenomeni di sempre più diffusa insoddisfazione, di ondate repressive divenute necessarie per poter continuare a mantenere il potere, fino all’eventualità agghiacciante di dover abbandonare i vertici politici della Striscia (magari subendo la pressione di nuove formazioni in ascesa sulla base della mutazione o del fallimento governativo di Hamas) sulla spinta di contestazioni popolari giunte a identificare anche l’organizzazione politica islamista tra i corresponsabili della condizioni di sofferenza estrema della massa della popolazione. Se questo quadro si è affacciato come l’orizzonte pressoché inevitabile di una continuazione, nei termini finora stabiliti dai rapporti di forza con Israele, del ruolo governativo di Hamas a Gaza, allora anche l’opzione di una scommessa politica dai rischi estremi diventa più comprensibile e articolata. Ci sono gli elementi per ipotizzare che almeno una parte della dirigenza di Hamas abbia considerato l’azione del 7 ottobre – il cui senso politico più significativo è proprio nella capacità di imporre ad Israele una reazione di clamorosa vastità e violenza – come parte di una “exit strategy” dalla condanna di rappresentare una forza di governo chiamata a gestire la catastrofe economica e sociale di Gaza, perdendo in essa anche la propria identità politica. Di fronte al rischio di collassare politicamente trascinati dal collasso sociale della Striscia, presso componenti di Hamas può aver acquisito sempre più credito lo scenario di un abbandono del territorio, che comunque sarebbe destinato ad essere sempre meno una roccaforte di consenso, non con le “pive nel sacco” e nella vergogna, ma a seguito di una sanguinosa offensiva israeliana, con gli eroici allori della forza combattente che è riuscita a infliggere al nemico israeliano un colpo di inedita violenza e di straordinaria risonanza mediatica, riparando quindi in altre località e spazi politici di un mondo arabo e musulmano dove la causa palestinese è tornata a far fremere le piazze e ad interessare le cancellerie. Questa ricerca di una via di uscita dalla trappola del ruolo di impotente forza di governo a Gaza può essere apparsa coerente e sensata a componenti del gruppo dirigente di Hamas. Una “exit strategy” piena di rischi e di incognite ma comunque preferibile alle alternative di una politicamente rovinosa tenuta della gestione dell’amministrazione di Gaza o di una “fuga”, sotto il peso di contraddizioni insostenibili, in un mondo arabo e islamico sempre meno interessato alla questione palestinese e assuefatto al riavvicinamento ad uno Stato israeliano ormai di fatto accettato come forza dominante nei rapporti israelo-palestinesi. In questa ipotesi può acquisire una coerenza anche la ricostruzione fornita dal New York Times sul raid del 7 ottobre come evento maturato all’interno di una tensione che attraverserebbe da lungo tempo la dirigenza di Hamas e che ruoterebbe addirittura intorno all’identità e agli obiettivi ultimi della stessa formazione islamista: forza politica di governo chiamata e gestire la quotidianità di Gaza o forza combattente impegnata essenzialmente nella lotta armata contro Israele? La dichiarazione, rilasciata al quotidiano statunitense dal Qatar, di Khalil al-Hayya, membro del massimo organismo dirigenziale di Hamas, suona come una chiara conferma della presenza ai vertici del gruppo palestinese di una lettura della situazione che può aver previsto perfino l’ “exit strategy”:

Lo scopo di Hamas non è governare Gaza e portarle acqua, elettricità o altro, (…) Questa battaglia non c’è stata perché volevamo carburante o posti di lavoro (…) non aveva come obiettivo migliorare la situazione a Gaza. Questa battaglia è per rovesciare completamente la situazione [12].

È possibile, inoltre, che la feroce accelerazione del 7 ottobre sia stata funzionale anche nel quadro di una contrapposizione interna alla dirigenza di Hamas, imponendo – a fronte del drammatico e improvviso innalzamento del livello di scontro con Israele, della sua feroce risposta su scala di massa, dell’intensa copertura mediatica internazionale – un allineamento (per lo meno contingente) anche delle componenti “governative” di Hamas alla linea “identitaria” e forse anche ad una “exit strategy”. È evidente che il senso della cruenta “mossa” del 7 ottobre presuppone che nella dirigenza della formazione islamista si sia pienamente contemplato il fatto che colpire il territorio israeliano con le modalità concretizzatesi nel raid e indurre Israele ad alzare bruscamente il livello dello scontro e della sua visibilità internazionale, condizioni indispensabili per perseguire questa “exit strategy”, avrebbe comportato molte vittime ed enormi sofferenze tra la popolazione della Striscia. Ma per comprendere questa valutazione bisogna considerare come Hamas si concepisca – e questo va detto senza alcuna condanna moralistica ma con piena coscienza delle implicazioni politiche e di classe – la migliore interprete della causa palestinese, come identifichi la propria sopravvivenza, in quanto organizzazione, con la sopravvivenza stessa della causa palestinese. Compresa questa concezione, si comprende anche la spietata razionalità politica del calcolo di Hamas. Rimane da chiarire se questa razionalità politica coincide con la nostra razionalità politica, con la nostra razionalità politica di classe. Nonostante i roboanti e ricorrenti proclami di un “internazionalismo” che in relazione alla guerra imperialistica in Ucraina abbiamo definito “stentato” ma che con la guerra a Gaza si è inesorabilmente rivelato ostentato e “falso”, rinunciando in meno di un secondo a qualsiasi connotazione di classe in nome del sostegno “senza se e senza ma” a questo o quell’altro schieramento borghese, rimane tutto da dimostrare se e come possano esistere nessi, legami, vincoli di solidarietà e direttrici di convergenza tra la razionalità politica di una formazione borghese, islamista e nazionalista, immersa, come soggetto subalterno e dipendente, nel gioco imperialistico, e il compito di ricostruire, di riaffermare una presenza politica proletaria, rivoluzionaria e internazionalista sulla scena internazionale. Finora tutto va in una direzione molto chiara: la ripresa dell’internazionalismo non passa per alcun appoggio tattico ad un qualsivoglia fronte borghese impegnato, al prezzo di terribili mattanze di proletari, in scontri pienamente inseriti nelle dinamiche dell’imperialismo.

Prospettiva Marxista – Circolo internazionalista «coalizione operaia»

NOTE

[1] The Passenger-Palestina, Iperborea, Milano 2023.

[2] Ibidem.

[3] Widad Tamimi, “Memorie di al-Khalil”, The Passenger-Palestina, Iperborea, Milano 2023.

[4] Benjamin Barthe, “Le Qatar, acteur-clé dans les tractations entre Israël et Hamas”, Le Monde, 24 novembre 2023.

[5] The World Bank (sito), The World Bank in West Bank and Gaza-Overview, 11 maggio 2023.

[6] Ibidem.

[7] The Passenger-Palestina, Iperborea, Milano 2023.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Eleonora Vio, “La paura più grande”, The Passenger-Palestina, Iperborea, Milano 2023.

[12] Ben Hubbard, Maria Habi-Habib, “A bloody demand for attention”, The New York Times (International Edition), 9 novembre 2023.

coalizioneoperaia.com

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