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(22 Aprile 2003)
1)
Dopo l’evento "Twin Towers", sul falso dilemma americanismo/antiamericanismo è andata articolandosi una defatigantissima campagna mediatica, cui hanno ritenuto di dare il proprio contributo ampie schiere di più o meno accreditati "esperti": un estenuante balletto che ora, nel definitivo, virulento dispiegarsi di una guerra peraltro mai interrottasi, sin dal 1991, giunge ad assumere valenze di intollerabile oscenità.
Al di là dell’etimo, che già di per sé invalida la valenza semantica che ai due termini si è preteso imporre, stravolgendone l’intrinseco riferimento geografico ad un’intera area continentale, di per sé non rapportabile alla specifica dimensione geo-politica degli Stati Uniti d’America, resta il dato inconfutabile che dietro tale "spettacolo", tanto avvilente quanto indisponente, si obliterano aspetti essenziali della fase che stiamo attraversando, sia delle sue articolazioni presenti, che dei suoi surdeterminanti presupposti storici.
Ciò detto, stante la triviale canea delle tifoserie "americaniste", che vanno instancabilmente scagliando anatemi nei confronti della marea umana sollevatasi, su scala planetaria, contro l’aggressione all’Iraq da parte di Bush, precisiamo subito che non si possono pretendere fantomatiche "dissociazioni", dal regime dispotico di Saddam, da parte di chi in quella marea si identifica integralmente. Consimili "garanzie", semmai, andrebbero richieste a coloro che l’autocrazia del satrapo iracheno hanno patrocinato e foraggiato per lunghi anni, usandola come uno dei tanti "governi fantoccio" eretti contro l’insorgenza di un anticolonialismo laico e "modernizzatore" (il cosiddetto nasserismo), troppo recalcitrante rispetto alle ingerenze del nuovo plenipotenziario yankee, subentrato a Francia ed Inghilterra, nel contesto del mondo arabo, dopo il crollo dell’Impero Ottomano.
Nonostante tale doverosa precisazione, chi scrive ritiene però di dover comunque rilevare che, a ennesima conferma di una "regola" non scritta, afferente all’intero campo della politica, il satrapo tribalista Saddam sta oggi facendo pagare, all’intero popolo iracheno, il tragico prezzo della sua illusione insensata di poter giocare impunemente, sullo scacchiere mondiale, una partita impossibile con i suoi originari "padrini" d’oltre Atlantico.
Se nel 1991, costoro si erano accontentati di ridimensionare il suo regime, interrompendo la "tempesta nel deserto" onde mantenerlo comunque in vita, come feroce gabbia di contenimento disciplinare per una regione attraversata da tensioni in grado di mettere a rischio gli equilibri dell’intera area mediorientale, oggi, ben altri progetti muovono le armate a stelle e strisce.
Ed è così che, ancora una volta, il megalomane sogno di una ennesima "marionetta politica", convintasi di poter giungere a manovrare il proprio burattinaio, sta immancabilmente infrangendosi contro la dura realtà della legge del più forte, che da sempre surdetermina qualsiasi gioco inscritto nell’orizzonte di una politica intesa come "metodologia di potere". La decisione, presa da Saddam nel 2001, di pretendere il pagamento delle sue pur contingentate derrate petrolifere in Euro, anziché in Dollari, era ovviamente finalizzata ad un tentativo di smarcamento dal giogo statunitense, a favore di una nuova partnership privilegiata con la Ue; ma probabilmente proprio quella manovra ha offerto l’ultimo decisivo impulso all’attuale scelta di aggressione da parte di Washington, nei confronti di colui che nel 1979 era stato insediato al potere proprio grazie ai "buoni uffici" della Cia, con un golpe che era stato definito, fra i tanti orchestrati, come il «preferito».
Con quella mossa Saddam aveva di fatto firmato la propria condanna a morte, andando ad interferire (come il classico "vaso di coccio fra vasi di piombo") nel nuovo nascente conflitto interimperialistico che segnerà gli anni a venire: quello fra diverse "aree valutarie" (considerate unitamente alle relative sfere di influenza finanziaria). E non è certo casuale la fase di profonda destabilizzazione che sta attualmente paralizzando il Venezuela, unico altro paese produttore di petrolio che ha compiuto lo stesso passo dell’Iraq, "in favore" della moneta europea!
Chi credeva di poter affrancarsi da una subalternità totale nei confronti di coloro che ne avevano supportato strumentalmente l’ascesa al potere, s’è trovato alla fine dentro un gioco assolutamente troppo grande per lui e ne sta facendo pagare le estreme conseguenze ad un popolo che ha oppresso per più di vent’anni e che, malgrado ciò, non può certo esimersi dal resistere all’odiosa arroganza di chi lo vorrebbe restituire alle "libertà democratiche" a suon di cannonate ed annessi "effetti collaterali".
Saddam non ha saputo valutare, nella loro abnorme portata, le nuove dinamiche innestate dalla fine del bipolarismo e della guerra fredda, a seguito dell’implosione eterodiretta del blocco del "socialismo irreale", e si riscopre oggi nella veste della povera pedina che non ha mai cessato di essere!
Intorno a lui s’è instaurata una sorta di cortocircuito perverso, che l’ha trasformato nel nuovo "nemico" prescelto dagli Stati Uniti, nella loro ormai esplicita strategia di egemonia planetaria, all’interno di un "nuovo ordine mondiale" definitivamente incentrato/parametrato su di loro e ad essi disciplinatamente subordinato. Un nuovo nemico la cui "testa mozza" costituirà un monito assai eloquente per quanti stanno coltivando l’aspirazione di attentare in qualche modo alla supremazia incontrastata e incontrastabile di Washington (a cominciare, ovviamente, dalla Ue che l’avvicinamente di Saddam aveva certamente stimolato e che, per ritorsione, non verrà certo invitata ai banchetti del costituendo governatorato statunitense della Mesopotamia).
2)
Il "fortunato" pretesto per palesare al mondo intero tale loro strategia, dandole il crisma di un’ufficialità inappellabile, è stato offerto agli Usa, in modo ultra-spettacolare e con potenza mediatica assolutamente dirompente, dall’evento delle Twin Towers. Fu lì, che quel "complesso militare-industriale", già denunciato circa un cinquantennio fa, dal presidente repubblicano Eisenhower, ed oggi artefice sommo della pur "faticosa" elezione di Bush, ritenne di poter finalmente uscire allo scoperto, cominciando a manovrare il proprio pupillo verso la definitiva esplicitazione programmatica del reale progetto sotteso al suo insediamento nella "camera ovale".
Fu lì che, per strano paradosso della storia, riemerse il rimosso della "grande nazione americana", coniugandosi, in modo perversamente "virtuoso", con la più pregnante attualità del suo presente.
Un presente segnato da una crisi profonda. La crisi di quel modello di società che, nell’immaginario collettivo dell’intero paese, si sostanzia e si identifica in modo totale negli "States". Il modello, cioè, del capitalismo e del suo mercato. Assi portanti, questi, su cui, durante il secolo XX, si è appunto andata sedimentando la valenza mitopoietica di un "castello ideologico" trasudante "accoglienza", "libertà", "democrazia", nella pretesa che siffatte virtù siano costitutivamente ed imprescindibilmente intrinseche alla decantata "filosofia" dell’"american way of life".
Evidenziatasi mentre ancora pesava, come un incubo insopportabile, la disfatta ingloriosa subìta in Vietnam, tale crisi è perdurata di fatto sino ad oggi.
Una crisi strutturale, di sistema, evidentemente. La più classica esemplificazione di quanto il Moro di Treviri seppe individuare come ineludibile contraddizione oggettiva, costitutivamente incistata dentro il cuore del ciclo accumulativo del capitale: quella "caduta tendenziale del saggio di profitto" che mina dalle fondamenta stesse il modello di produzione/riproduzione sociale imposto ormai su scala planetaria, da Monsieur le Capital.
Quella crisi, comunemente definita "da sovrapproduzione", è andata implacabilmente erodendo, via via, il sogno tutto "americano" di uno sviluppo pervasivo e ininterrotto del modello di vita "a stelle e strisce". E, malgrado gli svariati palliativi di volta in volta escogitati, per contrastarne gli effetti [1], proprio essa ha costituito, di fatto, un elemento di destabilizzazione strisciante, nei processi di autoidentificazione della "nazione" statunitense.
Mentre davvero il mondo, ormai omologato nel segno di una mercificazione e precarizzazione universali [2], veniva sospinto all’emulazione dell’"american way of life", in forza dell’inerzialità cogente del mercato stesso, ormai globalizzato, per strano paradosso, dentro il ventre profondo della nazione che era stata il primum movens di tali processi, andava invece lentamente crescendo un oscuro quanto sconosciuto senso di insicurezza.
Dopo i "trenta ruggenti", in cui gli Usa si erano percepiti (allora, con ragione) come il motore centrale del "nuovo ordine" seguito alla seconda guerra mondiale [3], e dopo la fugace ripresa di entusiastiche certezze in un mondo infine unificato sotto le insegne del "libero mercato" e della "libera impresa", a seguito della "caduta del muro", già dai primi anni novanta, la dura legge di quello stesso mercato da loro eletto a sommo arbitro delle umane vicende, cominciò a contraddire in modo impietosamente evidente il sogno di un’eternizzazione dell’universale "bengodi", di cui pretendevano aver spalancato le porte al genere umano.
E il peggio fu che i segnali provenienti da quel mondo che si era "generosamente" provveduto a liberare dal "satana sovietico", incomprensibilmente, non evidenziavano alcuna riconoscenza. Al contrario, essi risultavano sempre più allusivi di una sorta di accerchiamento ostile nei confronti dei "liberatori" e del loro modello di vita (pur spesso penosamente emulato), sino a minacciare competitivamente il livello di benessere che questo necessariamente implicava [4].
Insomma, nel momento stesso della sua presunta agognata realizzazione, il "sogno americano" ha iniziato a sbiadirsi e si è venuta incrinando sempre più profondamente l’assolutistica certezza nella diade capitale/mercato, da sempre fondante l’immaginario yankee, in ogni sua pur diversa coniugazione [5].
D’altronde, gli "spiriti animali" di un capitale fattosi "neo-liberista", in forza di un dominio planetario sempre più incontrastato [6], ma anche e soprattutto di un drastico restringimento delle proprie possibilità di valorizzazione [7], hanno marchiato il ventennio che abbiamo alle spalle, mettendo alla frusta il "lavoro" in ogni parte del globo. Ma, come già accennato, ogni escamotage "tirato fuori dal cappello" ha ottenuto solo piccoli riaggiustamenti insignificanti e momenti di ripresa economica sostanzialmente effimeri, e non si è potuto impedire che tornasse a scatenarsi una feroce lotta intestina, fra "potentati economici", al fine dell’accaparramento di sbocchi di mercato sempre più difficoltosi. Laddove, smentendo ineluttabilmente le aspettative di un mercato globale in grado di autoregolarsi armoniosamente, al di là delle classiche strettoie costituite dagli "Stati-nazione", la classica forma-stato ha mantenuto un ruolo essenziale sul piano del disciplinamento interno, "trascendendo" invece se stessa nel nuovo contesto di aggregati politico-economici, sostanzialmente definiti secondo "aree valutarie" e in crescente concorrenza fra loro, sotto il morso di una crisi permanente.
La pseudo-categoria di "Impero" [8], che qualche anima bella (nostalgica dell’attualismo gentiliano) aveva preteso inventarsi, come rappresentazione di una nuova epoca sostanzialmente "progressiva" e segnata dall’immanenza di un comunismo inscritto, qui ed ora, in un fantomatico potere costituente moltitudinario in atto, questa patetica rivisitazione "post-marxiana" dell’attualismo gentiliano, si sgretola dunque sotto i colpi di maglio di un capitale fattosi totale, ma ancora e sempre più lacerato dalle proprie ineludibili contraddizioni materiali.
Il terzo millennio si apre, per tragico paradosso, col ritorno all’antico: l’incubo della guerra sopravvive, più tremendo che mai, al depotenziarsi della forma-stato e reimpone all’ordine del giorno la necrosi imperialistica di Monsieur le Capital, con tutto il tragico fardello che essa ha sempre comportato per l’umanità tutta.
3)
Di fronte, dunque, all’affiorante incubo di un declino ormai inaspettatamente percepito come davvero incombente, nella percezione di una "crisi di sistema" riaffacciantesi proprio nel momento del più assoluto "trionfo" del "modello americano", ecco che – come si è accennato poc’anzi – riaffiora il rimosso.
La crisi che sta attanagliando l’intero ciclo del capitale totale, a livello mondiale, è stata percepita negli Stati Uniti come una "calamità" riguardante univocamente se stessi, e su tale sentimento, miratamente fomentato dai media e dal mondo politico, si è costruita dapprima una sorta di sindrome di accerchiamento e, dopo le Twin Towers, la convinzione di una minaccia globale alle fondamenta stesse di quella che da più parti (purtroppo anche "da sinistra") si è voluto accreditare come la "più Grande Democrazia" del mondo, soprattutto per meriti speciali antinazisti (per inciso, verrebbe da chiedersi in quale modo, da tali parti, vengano considerati i venti milioni di morti che l’Urss ha sacrificato contro Hitler!?).
Se Bush, il vaccaro texano etilista riconvertitosi, sulla via del petrolio di famiglia, alla "religione dei padri", può impunemente cianciare dei particolari favori che Dio gli avrebbe garantito, sulle tracce del lontano predecessore McKinley [9]. Se l’"unto dal signore", insediato "di forza" alla Casa Bianca grazie ad una cordata di sponsor non propriamente timorati di Dio, può reinterpretare in senso estensivo la cosiddetta "Dottrina Monroe", dei primi dell’800, rifacendosi direttamente alla più compiuta articolazione di essa che fu successivamente formulata da O’Sullivan, nella "Dottrina del Destino Manifesto". Se, su tali "nobili" basi, Bush può vantarsi di mantenere il saldo appoggio della grande maggioranza dei suoi concittadini, nel momento stesso in cui, continuamente, l’evidenza dei fatti riduce a brandelli le sue reiterate, deliranti promesse [10], il fatto non può essere attribuibile a meri fenomeni di manipolazione mediatica.
Certo, l’"informazione" artatamente pilotata svolge ormai un ruolo di condizionamento che non si può non definire "di massa" (e il "caso Berlusconi", in Italia ne è limpida quanto avvilente riprova). Hermann Goering ebbe a dire: «Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre portato al volere dei capi. E’ facile. Tutto quello che dovete fare è dir loro che sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo e per esporre il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in tutti i paesi». Ma il fatto sottaciuto dal pur esperto nazista è che, al fondo della manipolabilità delle coscienze e dei i comportamenti, esistono ed agiscono, oltre, ovviamente, le determinazioni materiali del tessuto sociale, anche fattori di condizionamento precedentemente sedimentatisi in quella "zona d’ombra" che possiamo definire, per approssimazione, come inconscio o immaginario collettivi.
Se dunque, oggi, il popolo statunitense può sentirsi in diritto di imporre al mondo quella che lo stesso Kohl, da sempre di stretta osservanza "filo-atlantica", ha definito come l’indebita "pax americana" (per non citare l’anatema lanciato a più riprese dal Papa, contro chi si fa "strumento del diavolo" ricorrendo alla guerra di aggressione). Se esso si riconosce a larga maggioranza nella politica di potenza, dispiegatamente militaristica, di un presidente eletto sì e no da un quarto di esso, non si può pensare che si tratti solo di "sudditanza psicologica" nei confronti delle capacità affabulatorie dei media o dei ghost-writer della Casa Bianca. Né, tanto meno, di un disegno lucidamente strumentale e trasparente a se stesso, come quello che, ad esempio, fu possibile leggere nei comportamenti operai degli anni sessanta, a favore della "sporca guerra" del Vietnam ed in aspra collisione con i movimenti pacifisti di quei giovani, sui quali allora incombeva la minaccia necrogena della coscrizione obbligatoria [11].
No. C’è dell’altro, evidentemente. Ed è il fatto che il "clan Bush", ben lungi dal rappresentare soltanto un’esigua "oligarchia di destra radical-nazionalistica" (come amerebbero pensare i "liberal americanisti" di tutto il mondo), oggi, riesce a parlare alla "sua America", così come non era affatto riuscito a fare durante la campagna elettorale. E ciò è potuto accadere perché, dunque, "quell’America" esiste davvero ed oggi è riemersa, facendosi maggioranza, sotto la spinta del sordo senso di paura che le infonde la crisi, da cui rischia di venir travolto il suo "modello di vita".
C’è, infatti, un humus culturale, o meglio "ideologico" (in senso marxiano), nascosto e innervato nelle pieghe di quella che viene comunemente indicata come l’"America profonda". Esso ha radici lontane, risalenti ai tempi leggendari dei "Padri Fondatori" e costituisce una sorta di "sfondo" inamovibile dell’identità yankee. Mille volte esorcizzato nelle forme e nel lessico della "politica ufficiale" statunitense, e mille volte riaffiorato, si può forse affermare che esso rechi con sé un senso di colpa mai davvero elaborato. E una colpa pesante come una orrenda montagna, effettivamente, segna le origini stesse di quella nazione che troppo facilmente si è voluta e voluto identificare come "culla della democrazia".
C’è voluto un incallito "radical" ereticale (non certo tacciabile di "vetero comunismo") come Chomsky, per scoperchiare impudicamente il pozzo profondo di una memoria collettiva rimossa: la memoria di una "fondazione" intrisa del sangue di due popoli letteralmente immolati sull’altare dell’edificazione del "mondo nuovo", gli indiani d’America e i neri africani. I primi, schiacciati e massacrati in quello che subito divenne il "mito della frontiera", l’epica della colonizzazione intesa tout court come civilizzazione modernizzatrice indubitabilmente positiva, i secondi, schiavizzati e divorati come carburante naturale per quel "mito del progresso" che andò condensandosi intorno alla crescita vorticosa dell’economia del nuovo e più avanzato "laboratorio", allestito da Monsieur le Capital [12], oltre Atlantico.
Ed è triste dover constatare la tuttora perdurante fascinazione, anche di una cospicua area della "sinistra", nei confronti della pesante, oggettiva valenza mistificatoria contenuta in quella Costituzione degli Stati Uniti d’America (in vigore dal 1787) che, comunemente, viene assunta come una delle più avanzate Costituzioni dell’intera "modernità democratica".
A parere di chi scrive, al contrario, quella prima e certo rivoluzionaria carta costituzionale fondò il nuovo "Stato della Libertà" su una rimozione tanto colpevolmente mistificante, quanto drammaticamente densa di rilevantissime implicazioni, che segneranno l’intera epoca a cui aveva aperto il passo, quella dell’avvento al potere della nuova classe borghese. Paradossalmente, quella "Magna Charta" giunge ad essere massimamente esplicativa di tale avvento, proprio là dove tace, dove più colpevolmente fa opera di scotomizzazione e di astrattizzazione, rispetto alla realtà storico-sociale cui pretende dare forma politica: quella realtà, appunto, indelebilmente marchiata dalla tragedia di due popoli che, per la loro "diversità", furono semplicemente deprivati del riconoscimento di qualsivoglia diritto umano.
Chi forse ha più lucidamente evidenziato tale risvolto, costitutivo della "nazione americana", è stata Hanna Arendt [13], la quale ne ha malauguratamente avallato l’intrinseca valenza mistificatoria. Facendosi complice di una distorsione ideologizzante delle determinazioni concrete degli accadimenti sottesi alla "rivoluzione americana" [14], essa ha di questa elogiato enfaticamente proprio la capacità di rimuovere l’elemento condizionante del "bisogno", della bruta necessità, che, al contrario, "macchiano" a suo dire il 1789 francese! La discepola di Heidegger giunge così ad involarsi anch’ella, nelle sublimi trascendenze di una "libertà" conquistata e formalizzata … semplicemente rimuovendo il peccato originale dell’ininterrotto massacro genocida dei popoli indigeni e della plurisecolare tratta in schiavitù delle popolazioni africane.
4)
Ebbene, proprio in quella rimozione è probabilmente inscritto il gene di quegli "isterismi ciclici" (come benevolmente li ha chiamati, qualche generoso estimatore dell’"americanismo") che da sempre connotano gli Usa. Come dice bene Chomsky, la sopraffazione, sino a forme di autentico genocidio, dell’altro da sé, non può non inscriversi in un’irrazionalistica pretesa di costitutiva (razzisticamente genetica?!) superiorità: una sorta di mistica del "popolo eletto".
Un approccio alla realtà, quindi, intriso di fondamentalismo religioso e di una messianica fede nei propri superni destini, dove l’opposizione manichea fra il "bene" ed il "male", fra Dio e Satana, nega e dissolve la mediazione della politica stessa, intesa come trasposizione/risoluzione, nelle forme dell’astratto, della dialettica reale. Le contraddizioni materiali vengono "semplicemente" negate, in nome di un assolutistico scontro fra polarità oppositive assolutizzate.
Questo "atteggiamento" riaffora reiteratamente nell’intero arco dei due secoli di storia degli Stati Uniti, ed ha sempre supportato l’immancabile consenso interno ottenuto dalle loro ormai infinite aggressioni militari in giro per il mondo, comunque camuffate, con l’unica eccezione del Vietnam, delineatasi però soltanto dopo interminabili anni di escalation militare e di massacri orrendi.
Ma oggi, il contesto di fase cambia radicalmente la valenza dell’ennesimo "ritorno del rimosso" nelle sembianze del clan del Dr. Stranamore texano.
L’integralismo nazional-militaristico dell’intero staff insediatosi alla Casa Bianca, pur attingendo alle solite lontane radici (il misticismo predicatorio dei Padri Pellegrini), si apre oggi su scenari tragicamente foschi: la crisi che travaglia il capitale totale, e sta erodendo l’egemonia Usa, ha da tempo devastato quella sfera della politica che il capitale stesso aveva originariamente delegato alla mediazione/recupero delle proprie contraddizioni materiali.
Nel corso degli anni ottanta, la politica aveva lasciato il passo all’economia e la logica aziendalistica d’impresa aveva definitivamente assunto il comando diretto, al fine di destrutturare quelle "rigidità di sistema" che la forma-stato recava implicitamente in sé, ai tempi in cui la conflittualità sociale imponeva margini di redistribuzione e, soprattutto, quando ancora le dinamiche del ciclo di valorizzazione consentivano l’investimento in ammortizzatori sociali.
Si era così, di fatto, decretata la morte della politica, nell’illusione che il mercato globale potesse spontaneamente autoregolarsi … ma le cose, come si è visto, sono andate in ben altra maniera, ed oggi il più grande colosso militare del mondo, percependo con terrore la graduale ma continua erosione della propria "base economica", ed aggrappandosi all’unica incontrovertibile superiorità che ancora può vantare, sul piano militare, ha deciso unilateralmente un passaggio ulteriore: dalla morte della politica alla politica della morte!
La dichiarazione della "guerra totale, permanente e preventiva", che l’aggressione all’Iraq ha operativamente sancito, e che riguarderà chiunque sarà ritenuto sospetto di non accettare supinamente l’"egemonia benevola" dello Zio Sam, costituisce un salto di paradigma definitivo, nel senso che scardina totalmente ogni parametro di regolazione sino ad oggi usato, nel contesto delle relazioni internazionali.
Nella risoluzione "National Security Strategy of the United States", promulgata il 20 settembre del 2001 [15], si esplicita con protervia assoluta il progetto di una sorta di "bonapartismo su scala globale", in cui tutti i poteri (legislativo, giudiziario ed esecutivo) siano concentrati in un unico stato, "legittimato" al ruolo di gendarme unico e inappellabile, solo in base alla propria superiorità assoluta sul piano militare. «Un mondo unipolare in cui gli Stati Uniti non abbiano rivali che possano star loro alla pari [ed in cui] nessuno stato o coalizione possa mai sfidare la loro posizione di leader, protettore e poliziotto globale» [16].
Un tale disegno strategico può evidentemente venir concepito soltanto se, appunto, si dà per scontato che sia definitivamente decaduto di senso il "campo della politica" e si ritenga irrefutabilmente instaurato il dominio arbitrario del più forte!
Non si è più di fronte soltanto ad un’aspirazione competitiva e/o espansionistica, fra plurimi interlocutori interagenti e comunque omogenei, sul piano della "soggettività politico-istituzionale", ma all’assurdo giuridico di un "diritto internazionale unipolare". Laddove, l’instaurazione di una condizione di conflitto bellico permanente implica, di necessità, la repressione più ferrea di qualsivoglia forma di dissenso anche (e soprattutto!) sul fronte delle dinamiche sociali: uno stato di emergenza senza fine, quindi, entro cui ingabbiare il conflitto capitale/lavoro, riducendolo a mero "fenomeno di devianza patologica", su cui riparametrare l’intera macchina repressiva sia a livello globale, che a livello dei singoli stati, in un unico progetto di orwelliana "istituzione totale".
La posta in gioco, dunque, è assolutamente epocale: da un lato si tratta della sopravvivenza non già del solo "modello di vita americano", ma del capitalismo in quanto tale, da un altro lato sono in gioco le stesse sorti dell’umanità, su cui torna ad incombere lo spettro di un’ennesima ecatombe bellica, che questa volta potrebbe davvero essere definitiva. E quel che più risulta drammatico è il livello di totale "incoscienza" di Bush & C.: inebriati dalla loro stessa propaganda, sembrano essersi autointossicati, avvitandosi in deliri di onnipotenza davvero "alla Dr. Stranamore". Un’immane, tragica pazzia megalomane, genocida e suicida al contempo [17]!
5)
L’oscena arroganza della plutocrazia militare statunitense apre dunque a scenari apocalittici, a fronte dei quali risalta, purtroppo, la limitatezza estrema della discussione "a sinistra". Al di là delle penose sceneggiate su "americanismo o antiamericanismo", "guerra corta o lunga", "Bush o Saddam", "occidente o oriente" [18], tutto quello che per lo più si riesce a proporre è il ripristino delle regole formali del diritto internazionale, la rilegittimazione dell’Onu, e nei casi più "estremi" l’accelerazione del processo costituente dell’Europa Unita, come fattore di equilibrio e contraltare strategico, rispetto all’arroccamento aggressivo degli Usa.
Decisamente poco, rispetto alla portata della svolta che ha segnato l’aggressione sostanzialmente unilaterale di questi (che si son persi pure i fedeli "cugini anglofoni" del Canada e della Nuova Zelanda) contro lo "stato-canaglia" iracheno. E, soprattutto, se si pensa che il "New York Times", subito dopo il 15 febbraio, seppe commentare la marea immensa dei 110 milioni di uomini e donne che sciamarono per le più grandi metropoli della Terra, urlando il loro rifiuto della guerra, come l’unica altra vera "superpotenza", oltre quella yankee.
In effetti, il giudizio formulato dal quotidiano, coglie nel segno. Se oggi, a fronte di una serie di poli alternativi ancora molto in ritardo rispetto ad essi, gli Usa costituiscono la punta avanzata dell’astrattizzazione spettacolare del capitale, nonché - di conseguenza - la condensazione imperialistica più compiutamente attrezzata, per il dispiegamento di una nuova emergenza bellica, su scala planetaria, allora l’unica forza potenzialmente in grado di contrastarne l’assoluta predominanza può essere costituita proprio da chi non ne segue la dinamica e si definisce in modo assolutamente altro.
E quei cento milioni ed oltre di individui che quel fatidico 15 febbraio hanno deciso di rispondere al tam tam telematico per uscire fuori, nelle piazze e nelle strade, per marciare insieme, urlando la loro rabbia ed il loro rifiuto di delegare chicchessia a decidere in loro nome un’ennesima strage di fratelli e sorelle, quella marea smisurata come mai nella storia si era vista, all’unisono ha detto no alla barbarie di un "Re" ormai orribilmente nudo davanti ai loro occhi!
Dentro quella marea traspariva, in nuce, l’insorgenza di una comunità umana (il "Gemeinwesen" marxiano) che si chiamava fuori dalle regole dello spettacolo e della mediazione politica, nel contatto diretto del testimoniare/agire insieme contro un "Potere" percepito come sempre più distante ed arroccato in una logica totalmente autoreferenziale.
Certo, quella massa smisurata, per ora, riesce ad esprimere più che altro la forza già comunque di per sé dirompente "dei numeri" (e lo dimostra l’allarme lanciato dal "New York Times" e la spirale di crescente repressione in cui si sta cercando di accerchiarla), ma è chiaro che in essa già ora vive una tensione che va al di là di quella pace, che pur viene richiesta con rabbia anche esasperata.
Il movimento "per la pace" che si è spontaneamente incanalato nel solco proveniente da Seattle e, prima ancora, dalla Selva Lacandona, trascende la pace stessa e aggredisce de facto, radicalmente il "nodo" della guerra, disvelandone le vere radici nel suo costituire, qui ed ora, il modo d’essere del capitale ormai giunto al punto del suo massimo sviluppo.
Il no alla guerra, così come il no al neo-liberismo, alludono inevitabilmente al no al capitalismo tout court.
E proprio per questo è tanto più grave che "da sinistra" provengano segnali di un ammorbante propensione all’impaludamento nelle secche di un dibattito tutto formalistico sulla "democrazia e le sue regole", sullo "stato di diritto", sul "diritto internazionale" e cosi via … divagando.
Ormai in procinto di ridefinire lo scenario del proprio dominio planetario, riscatenando una guerra interimperialistica fra i propri differenti comparti produttivi e finanziari (divisi non più per agglomerati geo-politici, ma per aree valutarie transnazionali), il capitale ha decretato non già l’estinzione dello stato, ma la fine della "sua" democrazia rappresentativa. Ciò, nell’invalidazione irreversibile delle regole che soprassedevano al ciclo della rappresentanza da esso stesso a suo tempo innescato, funzionalmente alle dinamiche astrattizzanti del proprio ciclo di valorizzazione.
Dinanzi a tale svolta, cadere (ancora una volta!?!) nella trappola di voler ostinarsi ad insegnare a Lor Signor come fare il loro mestiere sarebbe semplicemente mostruoso!
La Terza Internazionale è morta e la Seconda, che quella partorì, giace da tempo completamente putrefatta, insieme a tutti i suoi sogni di "social-riformismo".
Se già era illusorio pensare di poter rimettere la "mordacchia" della politica agli "spiriti animali" di un capitale tanto più insofferente di regole, quanto più stretto nella morsa di una crisi di valorizzazione via via più assillante, oggi, di fronte al ritorno impetuoso dei venti di guerra che minacciano catastrofi inimmaginabili, tale intento diventa addirittura demenziale. E ben poco vale illudersi che cambi qualcosa, proponendosi di ragionare "più in grande", magari ricadendo nei vecchi giochini da aspiranti Machiavelli, all’insegna del tristemente noto ritornello "il nemico del mio nemico è mio amico". Anche se proprio in tale deleteria ottica, infervorate moltitudini già si stanno schierando sul fronte di un fantomatico "stato sociale d’Europa", nell’illusione di poter individuare nell’asse franco/tedesco l’araba fenice di un keynesismo ormai invece resuscitabile soltanto in chiave militaristica.
No, il "pacifismo" della Francia gronda del sangue delle popolazioni dell’Africa centrale ed occidentale, nei cui paesi Parigi non ha mai cessato di intervenire militarmente, in un’ottica apertamente imperialistica (e concorrenziale con gli Usa), mentre quello di Berlino non ha evitato la mattanza pluriennale dei Balcani, scatenatasi proprio per l’iniziale riconoscimento unilaterale tedesco della Slovenia, in nome dell’area mittleuropea del "grande Marco". E poi la storia dovrebbe aver ormai dimostrato ad abundantiam che non esistono imperialismi "cattivi" e imperialismi "buoni".
Il percorso che si dovrà dunque seguire, non potrà passare per le strettoie di una politica di alleanze istituzionali, snaturante quanto suicida. Le uniche alleanze saranno quelle "dal basso", dentro lo scontro quotidiano contro il dominio e lo sfruttamento capitalistico, sul piano dell’impegno diretto e personale di ciascuno, verso l’individuazione dei percorsi idonei a ritessere le trame della memoria e della coscienza di classe, dentro i processi materiali di ricomposizione di quel proletariato universale che, solo, potrà ribaltare il tavolo da gioco, su cui l’imperialismo sta di nuovo allestendo le sue partite di morte.
Roma, 9 aprile 2003
Marco Melotti
della redazione di: Vis-à-Vis Quaderni per l’autonomia di classe
NOTE:
1] Anzitutto, intensa finanziarizzazione del ciclo di capitale, ma anche liberismo neo-monetarista sfrenato, liberalizzazione selvaggia del mercato del lavoro, ritorno massiccio all’estorsione di plusvalore assoluto (sino a forme di sfruttamento che si sarebbe portati a definire come "schiavitù salariata"), smantellamento del welfare e sua sostituzione col warfare (una sorta di "cripto-neo-keynesismo" in salsa militarista), ecc.
2] Inevitabili pendant dell’ingannevole miraggio di un’opulenza consumistica tanto sbandierata, quanto di fatto negata ai più.
3] Un ordine segnato dal conflitto a bassa intensità col "nemico d’oltre cortina", da cui essi traevano semplicistica quanto strumentale conferma per il loro autoidentificarsi quali "alfieri delle libertà democratiche".
4] L’autentica sindrome da mania di persecuzione che assalì gli States, al tempo del rampatismo espansionistico dell’economia nipponica, sotto le bandiere del "toyotismo", fu un segnale molto eloquente in tal senso. D’altronde, è pur vero che lo "Zio Sam", dal secondo dopoguerra, per lunghi anni, ha potuto contare su una notevole "compattezza interna" (cioè una drastica atrofia della dialettica di classe), proprio grazie ad un "mondo del lavoro" rabbonito e reso complice, tramite laute redistribuzioni di quanto garantiva l’assoluta egemonia politica ed economica degli Usa sull’"occidente".
5] Di fatto, essa costituisce il fil rouge che, nella storia degli Usa, riconduce ad un’intrinseca univocità paradigmatica anche "logiche politiche" profondamente divergenti, come, ad esempio, il "roosveltismo" e il "maccartismo".
6] L’Urss, oltre che dalle proprie contraddizioni interne, fu letteralmente strangolata dalla rincorsa sul piano militare, nei confronti di Reagan.
7] Il ciclo di lotte, non solo italiane, del decennio ‘68/’77 fu sconfitto, in buona sostanza, grazie alla ristrutturazione tecnologica su base telematica (il "chip"!), che stravolse completamente l’intero ciclo produttivo, flessibilizzando la forza-lavoro e frantumando i luoghi fisici della sua compattezza e rigidità (le megafabbriche e le "catene" meccaniche), nonché introducendo un processo di "glocalizzazione" (ri-localizzazone su scala globale) e velocificazione permanenti dei processi produttivi, lungo filiere estese attraverso l’intero pianeta. Si giunse, talvolta, ad un autentico "delirio pantecnologico" finalizzato all’autonomizzazione del capitale rispetto alla forza-lavoro, ma l’ineludibile necessità dello sfruttamento di questa, ai fini della valorizzazione, ben presto ebbe ragione di tali demenzialità, anche se alla fine è certo che quell’epocale innovazione tecnologica innescò un processo di aumento esponenziale della composizione organica del capitale e, quindi, di quella caduta tendenziale del saggio di profitto che mina alle fondamente il ciclo stesso della valorizzazione capitalistica, sin dalle sue origini. La risultante inevitabile ne fu la crisi di cui si sta qui trattando, che si esprime nell’attuale situazione di un mercato globale segnato da una domanda cronicamente sottodimensionata, rispetto alle reali potenzialità/necessità accumulative del sistema complessivo.
8] Il riferimento, qui, è a Toni Negri il quale, evidentemente, oltre che dello spiritualista Gentile, è raffinato esegeta anche di Karl Kautsky e della sua teoria dell’"ultraimperialismo".
9] Il presidente William McKinley, verso la fine del XIX secolo, dichiarò che era stato investito da Dio del nobile compito di "papparsi" le Filippine, per civilizzare e cristianizzare i suoi abitanti.
10] Le smentite che la realtà dei fatti ha prodotto, ai danni di Bush e del suo staff, sono ormai un dato acquisito ed è inutile soffermarvisi. Dalla scontata cattura di Bin Laden, alla rapida pacificazione democratica dell’Afghanistan, dall’affrancamento delle donne afghane dall’oppressione talebana, allo sbrigativo e trionfale successo dei liberatori anglosassoni in Iraq, dall’amicizia fidatissima della Turchia, alla guerra chirurgica contro i solo pochi sostenitori di Saddam, agli ultra-garantiti sistemi d’arma intelligenti, ecc.ecc., tutte queste "certezze" decantate da Bush, alla prova dei fatti, si sono dissolte come neve al sole … del deserto; il che non potrebbe che rallegrare chi scrive, se non fosse per le ricadute orrende che l’operato di tale "invasato" va producendo su migliaia e migliaia di esseri umani!
11] Oggi, la leva obbligatoria negli Usa è stata abrogata e l’esercito è composto di mercenari, sia pur immancabilmente di estrazione proletaria: la certezza di una sorta di "morte civile" da disoccupazione, purtroppo, può pesare di più del "solo" rischio di una "morte bellica!
12] «Negli Stati Uniti, ad esempio, si rese necessario individuare delle giustificazioni per l’eliminazione della popolazione indigena e per l’economia basata sullo sfruttamento della schiavitù (compresa l’economia del Nord nel primo periodo; il cotone era il petrolio della rivoluzione industriale del XIX secolo). L’unico modo per giustificare il fatto che tu stia schiacciando sotto il tuo stivale il collo di qualcuno è sostenere che tu sia incredibilmente ed esclusivamente magnifico e che l’altro sia incredibilmente ed esclusivamente orribile. È una delle fonti principali del razzismo, che ancora esiste, tanto è introiettata nella nostra cultura - e in quella dell’Ovest più in generale - che va al di là delle coscienze e che, una volta messa in evidenza, può a malapena essere capita da chi è debitamente istruito» (Noam Chomsky, " No War", in "Chomsky sulla guerra" su "ZNet Sustainer Program", 31 Marzo 2003).
13] Hanna Arendt, "Sulla rivoluzione", Edizioni di Comunità, Milano, 1983.
14] Atteggiamento, questo, certo più giustificabile in un Tocqueville, il quale, da figlio del suo tempo, non poté sottrarsi al fascino della nuova forma-stato nata dalla "rivoluzione americana".
15] L’esigua distanza dal 11 settembre fa ben comprendere che, di fatto, il documento era già pronto sin da prima dall’evento delle Twin Towers, che ne "legittimò" l’"ufficializzazione". D’altronde, com’è ormai stranoto, fin dagli anni '90, nell’"associazione" Project for New American Century (www.newamericancentury.org), i cui componenti sono oggi tutti nello staff di Bush, si andava maturando la scelta strategia che oggi trova applicazione concreta. Nel documento "Rebuilding America’s Defences: strategy, forces and resorces for a new century", stilato nel settembre 2000, si legge: «Inoltre, il processo di trasformazione, anche se implica un cambiamento rivoluzionario, probabilmente sarà lungo, in mancanza di un evento catastrofico e catalizzatore - come un nuovo Pearl Harbour" (p. 63) !
16] G. John Ikenberry, in "Foreign Affairs", Settembre/Ottobre, 2002.
17] Rasenta ormai l’incredibile, il livello di tracotante aggressività con cui si urlano al mondo i propri "diktat" e le proprie minacce di ritorsioni per i disobbedienti, da parte di Bush e dei suoi più stretti collaboratori !
18] E meno male che il Papa, con la posizione radicalmente pacifista che ha subito assunto, ha di fatto troncato sul nascere l’ennesima, demenziale diatriba su "Islam o Cristianesimo" !
Marco Melotti
della redazione di: Vis-à-Vis Quaderni per l’autonomia di classe
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