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Il capitalismo non è acqua!

Il capitalismo non è acqua!

(25 Settembre 2012) Enzo Apicella
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Continua l’attacco alle pensioni

(8 Dicembre 2010)

L’ultima offensiva della frazione italiana del capitale mondiale contro il proletariato ha assunto le sembianze subdole della Legge 122/2010.
Il capitale si trova in una difficile situazione: da una parte è costretto a resistere alla crisi di sovrapproduzione e a lottare per non cedere altre posizioni nei confronti delle frazioni avversarie, dominanti il mercato mondiale, i “fratelli nemici” di cui parlava Marx; dall’altra è consapevole della presenza di una camera magmatica in inesorabile riempimento sotto i suoi piedi: il malcontento oggi latente della classe operaia causato dai colpi di maglio di una crisi che arriva da lontano e si trascinerà ancora per lungo tempo. Dietro all’impersonalità del rapporto di capitale, si cela sempre una personalità collettiva, la classe dei capitalisti, verso la quale si rivolgerà la sacrosanta lotta proletaria e il suo odio di classe.

Lo scioglimento delle contraddizioni capitalistiche sarà possibile solo nel comunismo, forma economico-sociale successiva nella grande serie che attraversa l’intero corso della storia umana. All’opposto, nel capitalismo, le “soluzioni” comportano una dilazione delle sue contraddizioni, rimedi che non fanno altro che ingigantire le cause del male. La medicina è la solita: portare un attacco al salario, diretto, indiretto e differito, motivandola come dettata dalla situazione dei conti economici dello Stato borghese: il ladro prima ci deruba, poi viene a dirci che l’ha fatto per il nostro bene!

Facile perdersi nelle questioni tecniche, molto complesse, del sistema previdenziale italiano ed è bene inquadrare la questione. La recente manovra è subdola in questo: portare un attacco, di dimensioni paragonabili, al salario diretto avrebbe comportato l’immediata eruzione del vulcano proletario; si è resa quindi necessaria una via più buia: colpire il salario indiretto.

Torniamo sulla scena del delitto. La Legge 122/2010 ha convertito il Decreto Leggo 78/2010 recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica” (attenzione ai termini: “stabilizzazione”, “competitività”). I punti fondamentali sono i seguenti.

Il requisito per accedere al pensionamento – che sia d’anzianità o di vecchiaia – rimane intatto: rispettivamente, 40 anni di contribuzione o sistema delle “quote” e 65 anni, se uomo, 60 anni, se donna. La legge insiste invece sullo slittamento delle “finestre”: il 1° giorno del 13° mese successivo a quello di maturazione del requisito, in presenza di solo lavoro dipendente; il 1° giorno del 19° mese successivo a quello di maturazione del requisito, in presenza di sola contribuzione delle gestioni speciali per i lavoratori autonomi o di contribuzione mista dipendente ed autonoma.

La perdita secca di salario è in media di 5-6 mesi di contributi. Con le nuove “finestre” un lavoratore sarà costretto ad andare in pensione con 41 anni di contributi o 66 anni d’età se uomo, e 61 anni se donna.

Inoltre il trasferimento dei contributi tra Istituti è diventato completamente oneroso; vengono, infatti, abrogati alcuni articoli (Legge 29/1979, Legge 322/1958...) che permettevano ricongiunzioni gratuite. Questa nuova norma renderà inevitabile il ricorso alla “totalizzazione”, che comporta una perdita del 40% in media sulla misura della pensione.

Di fronte a questo scempio la risposta dei sindacati di regime è stata confusa e disordinata, benché tante assemblee spontanee di lavoratori avessero immediatamente chiesto la cancellazione della manovra del 31 maggio.

Non ci perdiamo nel tecnicismo delle norme e ci attestiamo sulla matematica elementare. La Legge 122/2010 “costa” in media 5-6 mesi di contribuzione che, sommati alla previgente normativa, portano la perdita di salario ad 1 anno, o 1 anno e mezzo per i lavoratori autonomi.

Ma il peggio sta altrove: occorre tornare all’anno 1995, quando venne approvata la Legge 335/1995 di riforma complessiva del sistema pensionistico, che comportò il graduale passaggio dal calcolo della misura della pensione col sistema retributivo (introdotto nel 1969) al sistema contributivo. Allora le cifre della sconfitta proletaria furono ben più pesanti, quantificabili, in media, in una perdita netta del 30-40% nella misura della pensione.

Nel meccanismo di calcolo c’è inoltre un punto che è passato inosservato: il coefficiente di capitalizzazione è legato alla dinamica del PIL (la media degli ultimi 5 anni per ogni anno di riferimento). Questo testimonia come il processo d’integrazione della classe operaia sia giunto ad un punto di svolta. Da una parte si vorrebbe legare la dinamica salariale alla “produttività”, secondo la ideologia della partecipazione agli utili e del “capitalismo popolare”; in realtà si tratta di maggiore sfruttamento e di aumento della produzione a parità di lavoro. Un nuovo “corporativismo”, un ritorno al feudalesimo del capitalismo giunto alla fase imperialista.

Dall’altra si lega la dinamica delle pensioni all’andamento dell’economia generale, misurata con parametri borghesi (perciò distorti in quanto di classe). Da una parte si chiede ai lavoratori maggiore sforzo produttivo per recuperare qualche briciola caduta dal tavolo dove banchettano porci in smoking, dall’altra si dice ai pensionati che è la crisi che li riduce in miseria.

Il metodo di calcolo contributivo è l’emblema dell’individualismo borghese classico: ognuno pensi a se stesso. I lavoratori in attività vengono scagliati contro i lavoratori in pensione, con lo scopo di dividerne il fronte. Al contrario il metodo di calcolo retributivo, più “razionale” anche per lo stesso capitalismo e fatto proprio già dalla socialdemocrazia e dal fascismo, permette d’unire quei due settori della classe: i pensionati hanno interesse a lottare a fianco dei lavoratori attivi perché questi strappino miglioramenti salariali; sono infatti i lavoratori in attività che “pagano” la pensione dei propri padri. Oggi la borghesia non riesce a mantenere il metodo anche per essa più efficiente, e passa ai calcoli individuali per nascondere in infiniti casi diversi il peggioramento che è per tutti.

Il capitalismo cerca di abbassare il prezzo della forza-lavoro, in modo tale da poter aumentare la massa di plusvalore estorto alla classe operaia e contrastare la tendenza a cadere del tasso medio di profitto. Questo è quello che si è verificato con la Manovra del 31 maggio 2010. Quello della previdenza è parte integrante e di prim’ordine del fronte della lotta di classe; e questo in tutti i paesi. Come la riduzione dell’orario di lavoro a 30 ore settimanali a parità di salario e sforzo, come rivendicare un unico contratto collettivo di lavoro, con abolizione delle forme di lavoro interinali ed a tempo determinato, va richiesto che la misura della pensione sia proporzionale alle retribuzioni percepite e con un meccanismo di rivalutazione legato alla dinamica salariale.

Partito Comunista Internazionale

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