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La fatalità dominante

La fatalità dominante

(26 Novembre 2011) Enzo Apicella

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(Di lavoro si muore)

Morte = Profitti

(16 Aprile 2011)

Gli effetti materiali esterni dei processi produttivi inquinanti, purtroppo per la borghesia, non nuociono unicamente ai proletari esposti ai veleni delle fabbriche in cui lavorano, tanto sono vertiginose le dimensioni raggiunte da tutta quella serie di patologie tumorali e mutagene che ricadono come una condanna capitale sull’intera specie (anche se l’incidenza delle cosiddette malattie professionali rispetta, nelle proporzioni, le cifre “materialistiche” della divisione in classi). E sebbene la scienza medica riveli spessissimo il suo carattere di strumento pilotato dalla classe dominante, i cui graduali passi avanti compiuti nella ricerca scientifica sono costantemente zavorrati e regimentati dagli enormi interessi delle case farmaceutiche e delle varie sanità imperialistiche, ciò non toglie che sia oramai di pubblica conoscenza la conclusione che la propagazione endemica del cancro, nei paesi a più alto sviluppo, è per lo più provocata da fattori “non naturali” e quindi da sostanze chimiche dannose, prodotte dall’uomo per ripagare l’obbligata necessità di continua valorizzazione del capitale. Tale necessità, sommata allo sviluppo anarchico dei mezzi di produzione capitalistici, delle quantità e delle qualità delle merci fabbricate, impone al sistema economico la continua creazione di nuove sostanze e di nuovi materiali nocivi e cancerogeni, che invadono il mercato sotto la mistificante forma di rivoluzionari e “benefici” prodotti della moderna tecnica industriale.

La divisione in classi che caratterizza la società capitalistica è il riflesso di determinati rapporti economici, alla base dei quali esistono a loro volta rapporti di forza e condizioni oggettive che subordinano al capitale il lavoro salariato. A questa relazione coercitiva sono soggetti tutti quegli esseri umani costretti a vendere le loro braccia come merce sul mercato, ricevendo in cambio un salario di pura sussistenza. In tal modo la divisione in classi, che noi marxisti abbiamo sempre definito uno dei punti fondamentali della nostra scienza “sociale” - a scorno della droga democratica che ci proclama tutti cittadini liberi, fraterni ed eguali – ci può anche spiegare, deterministicamente, come il ricatto capitalistico possa condurre un lavoratore - meglio se non messo a conoscenza dei rischi che corre e meglio ancora se isolato e reso inerme sindacalmente - ad accettare di lavorare in un ambiente produttivo tossico e insicuro, dove l’esposizione diretta e prolungata a sostanze pericolose per la salute lo condurranno progressivamente ad ammalarsi.
Milioni di proletari hanno sacrificato e continuano a sacrificare in questo modo la loro esistenza per procurarsi di che vivere: dalle miniere più obsolete alle industrie chimiche più moderne la loro condanna è tanto aspra quanto inversamente proporzionale al valore corrente del loro salario e quindi della loro stessa vita.

Prendiamo spunto della vicenda dell’industria tessile Marlane di Praia a Mare in Provincia di Cosenza, per ribadire ancora una volta le nostre posizioni in merito ai morti da lavoro. Tale azienda venne fondata negli anni cinquanta dal Conte Rivetti, l’azienda era poi l’azienda passò dal Lanificio Maratea, nel 1969, all’Eni – Lanerossi. In quell’anno i muri che separavano i reparti di lavoro furono abbattuti e così la fabbrica diventò un unico ambiente di lavoro: la tessitura e l’orditura, trasferite dal lanificio del vicino comune di Maratea, vennero inserite tra la filatura e la tintoria, senza alcuna divisione fisica. E così i fumi saturi di sostanze chimiche di coloritura, provenienti dalla tintoria si espandevano ovunque. Una nube permanente e densa sugli operai ad alcuni di questi a fine giornata veniva data una busta di latte per disintossicarsi. Era l’unica contromisura proposta dai dirigenti. I coloranti – quelli che generalmente vengono contenuti nei bidoni con il simbolo del teschio – venivano buttati a mano dagli operai in vasche aperte, dove ribollivano riempiendo di fumi l’ambiente circostante e le narici dei lavoratori.

La causa scatenante che ha ammazzato di cancro gli operai della” Marlane” che sino ad oggi sono stati complessivamente, cento sette, si sarebbero verificate nelle esalazioni tossiche sprigionate dalle sostanze utilizzate nella produzione del lanificio. All’interno dello stabilimento, secondo quanto hanno raccontato alcuni operai ancora sopravvissuti, c'era una nebbia persistente provocata dalle esalazioni tossiche e che non funzionava alcun aeratore. Gli operai, inoltre, non erano neppure provvisti di mascherina o protezioni e lavoravano respirando direttamente le esalazioni.
Nel corso del 1987 il gruppo tessile Lanerossi venne ceduto alla Marzotto di Valdagno, che ne detiene ancora la proprietà. Nel 1996 la fabbrica che ha prodotto solo morte è stata chiusa. Oggi l’azienda è vuota e dismessa. Questa storia di morte è una delle tante che in Italia come nel resto del mondo non fanno altro che affilare ulteriormente le armi della nostra critica: che a tal riguardo si diversifica evidenziando due differenti aspetti dello stesso obbiettivo da colpire, ovvero il modo di produzione capitalistico. Il primo aspetto è relativo al carattere generale del capitalismo e delle leggi che lo regolano; il secondo aspetto verte sul quesito: chi e come deve opporsi e combattere un sistema economico e sociale come quello vigente? Che, in silenzio e perpetuamente, commette “…un assassinio mascherato e perfido, un assassinio contro il quale nessuno può difendersi, che non sembra un assassinio, perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale, e perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione. Ma è sempre un assassinio…”? (La situazione della classe operaia in Inghilterra - Friedrich Engels, 1845 – Editori Riuniti 1972, pagg.132-133)

Ogni singola azienda che, lavora o fabbrica sostanze chimiche, materiali o merci in qualche modo riconosciuti tossici o nocivi per l’uomo e per l’ambiente - anche se questo riconoscimento “scientifico” una volta dichiarato e non taciuto attende sempre, nella cerebrolesa società del capitale, il manifestarsi generalizzato dei sintomi della malattia o del degrado causati dai veleni prodotti o dispersi nella natura - alla stregua di tutte le altre imprese capitalistiche agisce in un mercato più o meno esteso, dove cerca di vendere i propri prodotti e in cui varia di riflesso il grado di concorrenza esistente tra essa e le altre aziende che sfornano le medesime merci. Difatti, realtà economica di qualsiasi mercato è la competizione: chi non è competitivo, non riuscendo quindi a fornire un prodotto “appetibile” sulla piazza, si vede erosa la propria quota di mercato e di conseguenza si vede erosi pure i profitti. Per qualsiasi azienda il profitto è l’obbiettivo fondamentale, costi quel che costi! Questo è il risultato dell’operare della legge del valore che impone l’obbligo assoluto di macinare profitti. A questo obbligo deve sottostare qualsiasi capitale investito: deve costantemente lievitare, livellando i costi e le perdite, per fornire profitti a chi investe, altrimenti si è capitalisticamente morti ed estromessi dal mercato.
Ecco perché, ritornando al nostro esempio, le aziende si mettono sotto ai piedi la vita degli operai esposti alle lavorazioni più pericolose e dannose, e se ne fregano di espellere nell’ambiente tutti quei rifiuti della produzione che, in questo modo, coinvolgono altri esseri umani, altre forme di vita animali e vegetali (oltre al deleterio influsso sulle condizioni climatiche globali), determinando reazioni e mutazioni fisiche incontrollabili e sconosciute sino all'apparizione delle prime avvisaglie diffuse di quella determinata patologia o di quel mutamento nella natura esterna.
I costi della sicurezza sui luoghi di lavoro, i costi di depurazione e di smaltimento dei veleni e dei rifiuti inquinanti, sono voci che vanno a gravare pesantemente sui bilanci delle stesse imprese; mentre le malattie, le morti e le contaminazioni ambientali sono a carico dell’intera società. In relazione a ciò, la consegna imperativa di non incrementare il negativo di bilancio aziendale significa:
1) ridurre il più possibile le spese per i mezzi e le operazioni di messa in sicurezza a favore degli operai;
2) ridurre al minimo le operazioni di manutenzione degli impianti produttivi e di depurazione più pericolosi e più facilmente soggetti a rotture con le conseguenti fuoriuscite di sostanze tossiche e nocive, evitando o limitando in tal modo gli alti e improduttivi costi di mantenimento in sicurezza degli stessi.

Per garantirsi la competitività sul mercato e il derivante profitto insomma, si assassinano esseri umani, non facendo morire così l’azienda e i suoi interessi, sul campo di battaglia della guerra commerciale contro “l’accanita concorrenza”. L’esigenza di produrre non ha dunque limiti qualitativi finchè il profitto mantiene proporzioni adeguate alla continua valorizzazione del capitale e permette alla borghesia guadagni abbondanti. Produrre veleni a danno dell’intera specie, immolando sull’altare del profitto “pochi” proletari rispetto alla vastissima moltitudine di acquirenti che compreranno sui mercati i frutti di tale assassinio, è il portato del “progresso” e dello “sviluppo” che l’ideologia dominante della classe capitalistica sempre glorifica come proprie conquiste.
Teoria marxista di ieri: “Il capitale fugge il tumulto e la lite ed è timido per natura…Il capitale aborre la mancanza di profitto o il profitto molto esiguo, come la natura aborre il vuoto. Quando c’è un profitto proporzionato, il capitale diventa audace. Garantitegli il dieci per cento, e lo si può impiegare dappertutto; il venti per cento, e diventa vivace; il cinquanta per cento, e diventa veramente temerario; per il cento per cento si mette sotto i piedi tutte le leggi umane; dategli il trecento per cento, e non ci sarà nessun crimine che esso non arrischi, anche pena la forca. Se il tumulto e le liti portano profitto, esso incoraggerà l’uno e le altre. Prova: contrabbando e tratta degli schiavi.” (da Il Capitale, 1867 – libro I, capitolo 24°, pag. 823 - Editori Riuniti 1994).

C’è chi si illude che l’intervento della magistratura, individuando le responsabilità individuali dei vari dirigenti succedutisi negli anni, aiuta la rivendicazione di una azione moderatrice di qualche organo sociale ( lo Stato), sui guasti prodotti da competitività e profitto. La sentenza che negli anni scorsi ha visto l’assoluzione di tutti gli imputati sulle morti al petrolchimico di Marghera, ci ha palesamente dimostrato i limiti della visione riformista. Il sindacato con il solito codazzo di gruppetti ecologisti e new-globalizzanti che si agitano sugli effetti devastanti del capitalismo, senza poter arrivare ad una critica reale delle cause ed al loro dialettico superamento, non fanno altro che difendere e garantire questo stato di cose. La strada di tutti costoro finisce sempre per concludersi con una legittimazione del sistema rivendicandone un miglioramento e non l’eliminazione, essi non escono dalle categorie ideologiche del capitalismo e si rifiutano di riconoscere che tutti gli strumenti immediati (magistatura, leggi e regolamenti) attuati da questa società classista, sono utili ad essa stessa.

Quando una questione di diritto viene posta: il “diritto” dei lavoratori di non morire avvelenati o il “diritto” del capitale a presevare i propri profitti, é sempre la forza degli interessi che bisogna salvaguardare che prevale, sono i rapporti di forza fra le classi che decidono. La magistratura é parte integrante di quella rete di interessi che si sviluppa sulla base economica e sociale che ha come prerogativa la esigenza della valorizzazione del capitale, ed é in questa direzione che deve dirigere le sue decisioni e la sua azione, essa non può condannare il modo di produzione e la società del capitale con le loro categorie fisse di valore, di profitto, di proprietà privata, mercato, competizione e merce. Il vero diritto dunque é quello che contrappone la forza del capitale contro quella della classe proletaria. Mantenere la propria azione dentro le strutture dello stato borghese o affiancandone l’azione moderatrice di un qualche suo apparato, nei confronti dell’anarchia della produzione, della distribuzione e dell’ambiente, come fanno a vario titolo ambientalisti, verdi ed ecologisti, vuol dire rimanere nella visione “democapitalistica” e quindi di conservazione e di salvaguardia del capitalismo,del “cadavere che ancora cammina” che non può essere risanato da cerotti sulle piaghe profondissime e aperte che lo “affliggono”.
Cosa deve fare la classe operaia per uscire dal ricatto in cui la incastra l’azione padronal-sindacale, che la vede schierata a difendere, in nome della salvaguardia del posto di lavoro, gli impianti e le lavorazioni che sono la causa del loro avvelenamento?
La rivendicazione della salvaguardia del posto di lavoro come dice il sindacato, o degli investimenti “anti- nocività ed anti- inquinamento” richiesti dagli ambientalisti, magari che si risolva con un atto governativo che elimina per decreto con una firma del ministro, un veleno denuncia il limite angusto non unificante e senza apparenti vie di uscita in cui un’azione che vuole da una parte risolvere il problema reale dell’avvelenamento ambientale, e dall’altra la difesa del lavoro per quegli operai che, chiusi nella visione angusta della loro fabbrica, credono di risolvere il “loro” problema.
Per noi comunisti, si può uscire da questa apparente contraddizione, quando si cominciano ad avanzare quelle rivendicazioni che non tengono conto della compatibilità e del tentativo di risolvere i problemi che il capitalismo crea, esse hanno il vantaggio di unificare positivamente chi lotta per il salario e chi non vuole morire avvelenato, non si tratta di difendere una condizione di lavoro nociva, a tutti i costi, bensì di rivendicare una vita decente per tutti. Non si può continuare a chiedere che venga perpetuata la continuazione delle produzioni nocive e pericolose per tutti, per avere il salario, i proletari non possono rinunciare alla difesa della loro stessa vita rinunciando a infrangere la barriera storica della parola d’ordine sul salario ai senza lavoro e sulla diminuzione drastica della giornata lavorativa.
Il plusvalore estorto ai proletari oggi é enorme, la crescita mostruosa di macchinari ed impianti, aumenta la produzione di ricchezza e diminuisce la necessità di lavoro: si deve lottare dunque, per un risultato che tenga conto della condizione futura della classe operaia e di tutta la specie umana, solo avanzando rivendicazioni che tengano conto degli interessi esclusivi ed intransigenti della classe operaia.
Solo sul terreno delle rivendicazioni che se ne fregano di rientrare nella logica delle compatibilità del capitalismo e dell’economia nazionale hanno il vantaggio di affasciare il proletariato, di abituarlo alla lotta, a non cadere nel tranello degli interessi compatibili, che poi per i proletari si rivelano “mortali” in tutti i sensi.

Partito Comunista Internazionale
via Porta di sotto 43
Schio - VI

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